L'Unico e la sua proprietà/Parte prima/II. Uomini del tempo antico e del moderno/2. I moderni/Parte prima/II. Uomini del tempo antico e del moderno/2. I moderni/3. La gerarchia

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Max Stirner - L’Unico e la sua proprietà (1844)
Traduzione dal tedesco di Anonimo (1922)
Parte prima - 3. La gerarchia

Le riflessioni storiche sulla nostra eredità mongolica, che qui inserisco come digressione, non hanno alcuna pretesa d'essere nè profonde nè solide. Se le presento al lettore, lo faccio semplicemente perchè mi sembra che esse possono contribuire a rendere più comprensivo il rimanente.

La storia dell'umanità, che appartiene quasi interamente alla razza caucasica, sembra aver percorso fino al presente due periodi: al primo, durante il quale fummo costretti a spogliarci della nostra originale natura negra, successe il periodo mongolico (cinese), al quale bisognerà por fine con la violenza. Il periodo negro rappresenta la Antichità, i secoli di dipendenza dagli oggetti (cena di polli sacri, volo degli uccelli, starnutare, lampi e tuoni, stormire di alberi, ecc.); il periodo mongolico rappresenta i secoli di dipendenza dai pensieri l'Era cristiana. All'avvenire sono riservate queste parole: «Io sono il possessore del mondo degli oggetti; e sono il possessore del mondo dei pensieri».

E' impossibile attribuire il suo giusto valore al mio io finché il duro diamante del non-io (che questo nomio sia Dio o il mondo non importa) rimane a un prezzo così esorbitante. Il «no mio» è ancora troppo giovane e troppo duro perchè sia possibile alI'«Io» di intaccarlo e assorbirlo. Gli uomini, con un'attività straordinaria d'altronde, non sanno che strisciare su questo immutabile, cioè su questa sostanza, simili a insetti che di un cadavere ne utilizzano i succhi per il loro nutrimento, senza perciò distruggerlo. Questa attività di vermi è tutta l'industria dei Mongoli. Presso i Cinesi, infatti, tutto rimane come prima: una rivoluzione non sopprime nulla di «essenziale» o di «sostanziale»; perciò maggiore è l'affaticarsi attorno a quello che rimane e che porta il nome di «antichità», «avi», ecc.

Ecco perchè, nel periodo mongolico che noi attraversiamo, qualunque cambiamento non è che una riforma, un miglioramento; giammai uno sconvolgimento, una distruzione, un dissolvimento. La sostanza, l'oggetto, resta. Tutta la nostra industriosità è attività di formica, salto di pulce, gioco d'acrobati sulla corda tesa dell'Oggettivo, sevizi faticosi sotto il bastone del guardaciurma dell'«Immutabile» o «Eterno». I Cinesi sono certo i più positivi tra i popoli; perché sono seppelliti sotto i loro dogmi; ma Pera cristiana non ha saputo uscire dal positivo, cioè dalla «libertà limitata», dalla «libertà entro un certo limite». Nei più alti gradi della civiltà, questa attività è detta scientifica e si traduce in un lavoro riposante su una supposizione fissa, una ipotesi irremovibile.

La Moralità, sotto la sua prima e inintelligibile forma, si presenta quale abitudine . Agire conformemente ai costumi e alle abitudini del proprio paese, si chiama essere morali. Perciò ai Cinesi è più facile agire moralmente e raggiungere una pura e naturale moralità, solo attenendosi ai costumi antichi, alle antiche usanze, e odiare qualunque innovazione quale un delitto degno di morte: la innovazione è infatti il nemico mortale dell' abitudine, della tradizione; del costante. E' fuor di dubbio che l'abitudine assicura l'uomo contro Pimportunare delle cose, e gli crea un mondo speciale, il solo in cui si sente a suo agio, cioè un cielo . Che cos'è, infatti, il «cielo», se non la patria propria dell'uomo, dove non è più sollecitato nè dominato da alcuna cosa straniera; ove nessuna influenza terrestre non lo rende più straniero a se stesso; dove, purificato dagli errori della terra, non è più obbligato a rinunciate a nulla? li cielo è la fine della rinuncia, il Ubero godimentot l'uomo non rifiuta più nulla a se stesso, perchè nulla più gli è estraneo nè ostile.

L'abitudine è dunque una «seconda natura» la quale spoglia e libera Puomo dalla sua natura primitiva, mettendolo al riparo dei capricci di questa.

Le tradizioni della civiltà cinese hanno provveduto a tutte le eventualità: tutto è «previsto»; qualunque cosa possa accadere, il Cinese sa sempre come deve comportarsi; egli non ha mai bisogno di prendere consiglio dalle circostanze, di uniformarsi a seconda dei casi. Un avvenimento inatteso non lo precipita mai dal cielo della sua quiete. Il Cinese che ha vissuto nella moralità e che vi si è acclimatato perfettamente, non può essere nè sorpreso nè sconcertato: in qualunque occasione conserva il suo sangue freddo, cioè la calma del cuore e dello spirito, perchè il suo cuore e il suo spirito, grazie alla previdenza delle antiche tradizioni, non possono in nessun caso essere sconvolti nè turbati: l'imprevisto non esiste più. E' dunque in virtù dell'abitudine che l'umanità salì il primo gradino della scala della civiltà (o della cultura); e siccome essa pensa che giungere alla civiltà si sale verso il cielo - o regno della cultura e della seconda natura — ascende in realtà con l'abitudine il primo gradino della scala del cielo.

Se i Mongoli hanno affermato l'esistenza d'esseri spirituali e creato un cielo, un mondo degli Spiriti, i Caucasei hanno, d'altra parte, lottato per migliaia d'anni contro questi esseri spirituali onde penetrarli e comprenderli. Essi dunque non facevano altro che edificare sul terreno mongolico; ma non edificavano sulla sabbia, bensì nell'aria: hanno lottato contro la tradizione mongolica e assalito il cielo mongolico, il « Thian». Quando dunque riusciranno ad annientarlo? Quando si ravvederanno e ridiverranno veri Caucasei? Quando l'«immortalità dell'anima», la quale in questi ultimi tempi credette di affermarsi ancora più solidamente presentandosi come «immortalità dello Spirito» si trasformerà infine in mortalità dello Spirito ?

Mediante gli sforzi industriosi della razza mongolica, gli uomini avevano costruito un cielo; mentre quelli della razza caucasea, — poiché un rimasuglio di eredità mongolica lasciò loro qualche preoccupazione per il cielo, — diedero mano ad un compito opposto: dare l'assalto al cielo della moralità e conquistarlo. Abbattere tutti i dogmi per sostituirvene, sul terreno devastato, uno nuovo e migliore; distruggere le abitudini per metterne al loro posto delle nuove e migliori: ecco tutta la loro opera. Ma quest'opera è in realtà quello che si proponeva d'essere? Ha essa veramente raggiunto il suo scopo? No: in questa spasmodica ricerca del migliore essa è travagliata di «mongolesimo»; essa non conquistò il cielo per crearne uno nuovo; ma abbattè un'antica potenza per legittimarne un' altra nuova: insomma non fece che migliorare.

Tuttavia, la mèta suprema verso la quale si cammina e che ad ogni svolto di via si perde di vista, non varia: è la distruzione vera e completa del cielo, della tradizione, ecc.; è, in una parola, la fine dell'uomo assicurato unicamente contro il mondo, la fine del suo isolamento, della sua solitudine. L'uomo cerca nel cielo della civiltà di isolarsi dal mondo e spezzarne la potenza ostile. Ma questo celeste isolamento deve essere infranto a sua volta; e la vera fine della conquista del cielo dev'essere la sua rovina, la sua distruzione. Il Caucaseo che riforma, e migliora agisce da Mongolo; poiché non fa che ristabilire ciò che era, cioè un dogma, un assoluto, un cielo. Egli, che ha votato al cielo un odio implacabile, edifica tuttavia ogni giorno nuovi cieli: accatastando cielo su cielo, non fa che soffocarli vicendevolmente: il cielo degli Ebrei distrugge quello dei Greci; quello dei Cristiani distrugge quello degli Ebrei; quella dei Protestanti quello dei Cattolici, ecc.

Se questi Titani umani riuscissero a purificare il loro sangue caucaseo dai depositi lasciati loro in eredità dai mongoli, essi seppellirebbero l'uomo spirituale sotto le ceneri del suo prodigioso mondo spirituale, l'uomo isolato setto il suo mondo isolatore, e tutti coloro che costruiscono un cielo, sotto le rovine del loro cielo. E il cielo è il regno degli Spiriti, il regno della libertà spirituale .

Il regno dei cieli, il regno degli Spiriti e dei fantasmi, ha trovato il posto che gli conveniva nella filosofia speculativa. Esso è diventato il regno dei pensieri, dei concetti e delle idee: il cielo è popolato di idee e dì pensieri, e questo «regno degli Spiriti» è la realtà stessa.

Voler redimere lo Spirito è puro «mongolismo»; libertà dello spirito, del sentimento, della morale, sono libertà mongoliche.

Si considera la parola «moralità» come sinonimo di attività spontanea, di libera disposizione di se stessi. Non pertanto non è così: al contrario, se il Caucaseo ha dato prova di qualche attività personale, ciò fu a dispetto della moralità che ebbe dai Mongoli. Il cielo mongolo o tradizione morale è rimasto una fortezza inespugnabile, e il Caucaseo ha dato prova di moralità solo per gli assalti ripetuti che gli ha dato; perchè se egli non avesse avuto più alcun pensiero per la moralità, se non l'avesse più considerata come la sua perpetua e invincibile nemica, i suo rapporti con la tradizione, cioè con la sua moralità, sarebbero scomparsi.

Il fatto che i suoi impulsi naturali sono ancora morali, è precisamente ciò che gli rimane della sua eredità mongola; è un segno ch'egli non ha ancora saputo rendersi conto interamente dell'essere suo.. GII impulsi «morali» corrispondono esattamente alla filosofia «religiosa e ortodossa», alla monarchia «costituzionale», allo Stato «cristiano», alla libertà «moderata», o, per adoperare una immagine piu propria, all'Eroe costretto, in un letto di dolore.

L'uomo non avrà realmente vinto lo Sciamannesi me e il corteo dei fantasmi che esso trascina al suo seguito, se non quando avrà avuto la forza di respingere non solo la superstizione ma la fede; non solo la credenza negli spìriti, ma bensì quella nello Spirito.

Colui che crede negli spiriti ammette «l'intervento di un mondo superiore», come colui che crede nello Spirito; e tutti e due cercano un mondo spirituale dietro il mondo sensibile. In altre parole, entrambi generano un Altro mondo e vi credono: quest 'altro mondo, ere Azione del loro Spirito, è un mondo spirituale: i loro sensi non percepiscono e non conoscono nulla di questo mondo immateriale; solo il loro Spirito vive in esso. Allorché si crede, come un Mongolo, all'esistenza di esseri spirituali, non si è lontani dal concludere che V essere reale nell'uomo è il suo Spirito, e che si deve volgere tutte le proprie cure a questo solo Spirito, alla «salute dell'anima». Con ciò si afferma la possibilità di agire sullo Spirito, che,, viene chiamata «influenza morale».

E' quindi evidente che il «Mongolesimo» rappresenta, la negazione radicale dei sensi e il regno del nonsenso e del contronatura; e il peccato e il rimorso del peccato sono stati per migliaia d'anni un flagello mongolico.

Ma chi farà ora rientrare lo Spirito nel suo nulla! Colui il quale provò con Io Spirito che la natura è vana, fugace e peritura; colui solo potrà provare la vanità dello Spirito. Io lo posso, e lo può chiunque tra dì voi il cui Io ordina e regna sovrano; colui che lo può è, in una parola. V Egoista.

Dinanzi a quello che è «Santo» si perde ogni sentimento dello potenza ed ogni coraggio; si diviene impotenti e umili Tuttavia nessuna cosa é per se stessa sacra; io solo consacro: quello che canonizza è il mio pensiero, il mio giudizio, sono le mie genuflessioni: insomma, la mia coscienza.

E' sacro tutto ciò che e inaccessibile all'egoista; tutto ciò che è sottratto alle sue mire, alla sua potenza ; ed è perciò al di sopra di lui; in una parola sacro è ogni affare di coscienza. «Questo è per me affare di coscienza», altro non significa che «io considero ciò per sacro»*

Per i fanciulli, come per gli animali, nulla esiste di sacro, poiché per elevarsi a delle nozioni di questo genere l'intelligenza dev'essere abbastanza sviluppata per saper distinguere il «buono e il cattivo, il permesso e il proibito»; solo a questo grado di riflessione o di comprensione - cui corrisponde precisamente il punto di vista della Religione — il timore naturale può lasciare il posto alla venerazione (non naturale, questa, perchè frutto del pensiero) e al «terrore santo». Bisogna perciò ritenere, per giungere a ciò, che vi sia all'infuori di noi qualche cosa di più possente, di più grande, di più autorevole, di migliore; in altri termini, bisogna riconoscere che si sente aleggiare sopra di noi una potenza estranea, e che non solo la si sente, ma bensì la si riconosce formalmente, la si accetta, sottomettendo visi, abbandonandosi ad essa interamente (devozione, umiltà, sottomissione, obbedienza, ecc.). Qui sfilano come tanti fantasmi tutte le collezioni delle «virtù cristiane».

Tutto ciò che ispira il rispetto o la venerazione merita, di essere chiamato sacro; voi stessi dite che provate un «sacro terrore» a toccarlo. E un fremito analogo provoca in voi il contrario del «sacro» (patibolo, delitto, ecc.); perchè in ciò pure si cela il medesimo «qualche cosa» di inquietante, di estraneo.

«Se non vi fosse nulla di sacro per l'uomo, la porta sarebbe spalancata al capriccio, all'arbitrio, all'illimitato soggettivismo!» La paura è un buon principio; con essa si incute timore all'uomo più selvaggio: è già una diga opposta alla sua insolenza. Ma nel fondo di ogni paura giace sempre il desiderio di liberarsi dall'oggetto che provoca questa paura con l'astuzia, la finezza, l'inganno, ecc. Così non è invece per la Venerazione: venerare non è temere, ma bensì onorare; l'oggetto della paura diviene una potenza interna alla quale non posso sottrarmi: quello che ho in onore, mi conquide, mi possiede, mi tiene completamente in suo potere, e non mi lascia più alcuna velleità di sottrarmivi. A quello che reputo santo aderisco con tutta l'energia della mia fede: io credo. Logge tto della mia paura ed io diventiamo una cosa sola: «non sono io che vivo, bensì quello che rispetto vive in me». Di più, essendo Io Spirito infinito, nulla può avere per esso fine: esso resta forzatamente stazionario: teme la decadenza, la dissoluzione, la vecchiaia, la morte: non sa più disfarsi del suo piccolo Gesù; il suo occhio, abbacinato dell'eterno, non è più capace di riconoscere la grandezza propria alle cose che passano. L'oggetto di paura, divenuto oggetto di culto, è d'ora innanzi inviolabile. Il rispetto diventa eterno; l'aggetto di rispetto diventa Dio.

Oramai l'uomo non crea più, impara, (studia, esamina, ecc.), cioè ogni sua attività si concentra sopra un oggetto immutabile, nello studio del quale si sperde, senza ritornare su se stesso. Questo oggetto, egli arriverà a conoscerlo, approfondirlo, dimostrarlo; ma non può e non tenterà nemmeno di analizzarlo e distruggerlo. «L'uomo deve essere religioso», è convenuto: tutta la questione è di sapere come perverrà ad essere religioso, quale è il vero senso della religiosità, ecc. Però è altrimenti se si rimette in questione l'assioma stesso, se lo si dubita, a rischio di dover finalmente _ respingerlo. La Moralità è pure essa una di queste concezioni sacre: «si deve essere morali »; come esserlo, quale è il vero modo di esserlo, è quello che ancora è da ricercare. Nessuno si arrischia a domandare se per caso la Moralità stessa non sia una illusione, un miraggio: essa è tenuta al di sopra di ogni dubbio, immutabile. E così si sale, grado grado, tutta la scala del tempio, dal « santo» fino al «santo dei santi».

4 *

Gli uomini vengono usualmente distinti in due classi i colti e i nomcolti, i civilizzati e i barbari I primi, per meritarsi il loro nome, si occupavano dei pensieri, vivevano con lo Spirito, e siccome durante l'èra cristiana, che ebbe il pensiero per principio, essi erano i padroni, esigevano da tutti, verso i pensieri da loro riconosciuti, la più rispettosa sottomissione. Stato, Imperatore, Chiesa, Dio, Moralità, Ordine, ecc., sono di quei pensieri, di quei fantasmi che non esistono che per lo Spirito. Un essere semplicemente vivente, un animale, si cura di essi quanto può curarsene un fanciullo. Ma i barbari non sono in realtà che dei fanciulli; e colui il quale non pensa che a provvedere ai bisogni della sua vita è indifferente a tutti questi fantasmi; come d'altra parte, sentendosi troppo debole contro di essi, finisce per soccombere alla loro potenza e per non essere dominato dai «pensieri».

Tale è il senso della Gerarchia-* La Gerarchia è dominazione del pensiero, il regno dello Spirito,

Fino ai nostri giorni noi siamo rimasti gerarchici, oppressi da coloro che s'appoggiano sopra dei pensieri. I pensieri sono la cosa «sacra».

Ma ad ogni istante il civilizzato si urta col barbaro e il barbaro si urta col civilizzato; e questo avviene, non solo in occasione dell'incontro di due uomini, ma talvolta in uno stesso uomo. Perchè nessun dotto è tanto dotto da non trovar piacere nelle cose esteriori, e così facendo; egli agisce da barbaro; e nessun barbaro è assolutamente privo di pensieri. Fu Hegel che mise in luce l'ardente aspirazione dell'uomo il più colto, il più intelligente, verso gli oggetti ; e il suo orrore per tutte le «vane teorie». Quindi la realtà, il mondo degli oggetti, deve corrispondere completamente al pensiero, e nessun concetto deve esser senza realtà. Perciò fu chiamato oggettivo il sistema di Hegel, di preferenza ad ogni altra dottrina, poiché il pensiero e l'oggetto, l'ideale e il reale, vi celebravano là loro unione. Questo sistema non è tuttavia che l'apoteosi del pensiero, la sua ascensione verso l'impero supremo e universale; è il trionfo dello Spirito, e nello stesso tempo il trionfo della Filosofia. La filosofia non può salire più in alto; essa raggiunge il punto culminante della sua ascesa allorché, arriva alla onnipotenza, l’onnipotenza dello spirito (l. Rousseau, i filantropi ed altri, hanno combattuto la coltura dello spirito e dell'intelligenza, ma non considerarono che questa intelligenza è il fondo d'ogni s, ni ma. cristiana e, la loro critica non colpì che gli eccessi della civiltà, i raffinamenti della coltura spirituale).

Gli uomini spirituali si sono messi in capo uno scopo che dev'essere realizzato. Avendo le nozioni d'Amore, di Bene, ecc., vorrebbero fare di questi concetti delle realtà; essi vogliono, infatti, fondare sulla terra un regno dell'amore, nel quale nessuno agirà più per interesse egoista, ma per «amore». L'amore deve regnare. Ciò che costoro si sono messi in capo non ha che un nome: idea fissa. Il loro cervello è «ossesso»; e il più importuno, il più ostinato dei fantasmi che vi ha eletto il suo domicilio è VUomo. Ricordate il proverbio «La via dell'inferno è lastricata di buoni propositi». Il proposito di realizzare completamente l'Uomo è uno di quelli eccellenti cosparsi lungo il cammino della perdizione; e il fermo proposito d'essere buono, nobile, caritatevole, ecc., appartiene alla medesima specie.

Br. Batter disse (l. B. BAUER, Denkwvrdigka'ten, VI. p. 7.) : «Quella classe borghese che ha preso nella storia contemporanea una così triste importanza non è capace di nessun sacrificio, di nessun entusiasmo per una idea, di nessuna elevazione: essa si aggrappa solo a quello che interessa la sua mediocrità, cioè, non vede più lontano di se stessa; se è vittoriosa, lo è soltanto in virtù del numero, la cui inerzia ha stancato gli sforzi della passione, dell'entusiasmo e della logica, e mercè la sua superficialità che ha assorbito una parte delle idee nuove». E in un altro punto (p. 6): «Essa ha accaparrato per se sola il beneficio delle idee rivoluzionarie, alle quali altri, disinteressati o appassionati, si erano sacrificati; ed ha cambiato lo spirito in denaro. Ma in verità, prima di far sue queste idee, essa ha incominciato col mutilarle in quello che ne era l'estrema ma pure logica conseguenza — dell'ardore fanatico di distruzione contro ogni egoismo». E' inteso: codesta gente è incapace di sacrifìci e di entusiasmi: non ha nè ideale, nè logica; costoro sono, nel senso volgare della parola, delle persone egoiste, interessate, prosaiche, calcolatrici, ecc.

Chi dunque «si sacrifica»? Colui che subordina tutto se stesso a uno scopo, a una, volontà, a una passione. L'amante, allorché abbandona padre e madre, e affronta tutti i pericoli e sopporta ogni sorta dì privazioni per raggiungere il suo scopo, non si sacrifica? E non è così l'ambizioso chi sacrifica alla sua unica passione ogni suo desiderio, tutte le sue gioie, tutte le sue aspirazioni? E l'avaro che si priva di tutto per accumular tesori? E l'ubriaco? Tutti sono dominati da un'unica passione, e ad essa sacrificano tutte le altre.

Ma costoro che si sacrificano sono forse dei disinteressati? Non sono invece degli egoisti? Siccome una sola passione li domina, essi non hanno altra cura che di soddisfarla e soddisfarsi, e in questo compito vi mettono tutto l'ardore di cui sono capaci; la loro passione li assorbe. Ogni loro atto, ogni loro sformo non è altro che egoismo; ma il loro egoismo è unilaterale e limitato sono ossessionati. •

«Ma, direte voi, queste sono delle passioni meschine, miserabili, dalle quali l'uomo non deve, al contrario, lasciarsi incatenare. Duomo deve sacrificarsi per una grande causa, per una grande idea!» Una «idea sublime» o «buona causa» è, ad esempio, la gloria di Dio, per la quale innumerevoli vittime hanno cercato e trovato la morte; è il Cristianesimo, che ha trovato dei martiri pronti al supplizio; è la Chiesa, all’infuori della quale non vi è salute, sì avida d'ecatombi di eretici; è la Libertà o l'Eguaglianza, che ebbero al loro servizio la ghigliottina.

Colui che vive per una grande idea, per una buona causa, per una dottrina, un sistema, una missione sublime, non deve lasciarsi sfiorare da alcun desiderio terrestre; egli deve deporre ogni interesse egoistico. Questo ci conduce alla nozione del Sacerdozio, che, avuto riguardo al suo ufficio pedagogico, si potrebbe chiamare pedantismo.

La vocazione chiama il prete a vivere esclusivamente per l’Idea, ad operare per essa, per la buona causa: perciò il popolo sente quanto male si addica al clero di lasciarsi trasportare dall’orgoglio mondano, di non essere insensibile alle gioie della vita, di partecipare ai divertimenti, come la danza e il giuoco: insomma, di interessarsi a ciò che non è un «interesse sacro». Sotto questo punto di vista si potrebbe trovare la giustificazione del magro trattamento che ricevono i professori: essi devono sentirsi ampiamente ricompensati dalla santità della loro missione e non preoccuparsi d’altro. Non mancano i cataloghi dove sono elencate le idee sacre che l’uomo deve ritenere (una o parecchie) come sua missione. Famiglia, Patria, Scienza, ecc., possono trovare in me un servo fedele nell'adempimento de’ suoi doveri. Qui urtiamo nell’antico errore del mondo, che ancora non ha saputo far senza del sacerdozio: vivere e operare per una idea è sempre per l’uomo una vocazione, ed il suo valore umano è misurato alla stregua della fedeltà con cui ad essa si consacra.

Tale essendo il dominio delle idee, o il sacerdozio. Robespierre, Saint— Just, ed altri, erano essi pure dei preti, degli ispirati, entusiasti strumenti conseguenti di un’ idea, dei campioni dell’ideale.- Saint— Just esclamò in uno dei suoi discorsi: «Vi è qualche cosa di terribile nel santo amor di patria; esso è così esclusivo, che immola tutto senza misericordia, senza timore, senza rispetti umani, all'interesse pubblico: esso precipita Manlio nell'abisso, sopprime gli affari privati, trascina Regolo a Cartagine, spinge un Romano al patibolo, e colloca Marat, vittima della sua devozione, nel Pantheon»»

Contro questi rappresentanti d'interessi ideali o sacri si eleva l'innumerevole moltitudine degli interessi profani, «personali»» Nessuna idea, nessuna dottrina, nessuna causa santa è così grande che essa non debba mai essere vinta o modificata dagli interessi personali. Se accade che questi vengono sommersi momentaneamente, nelle ore di sconvolgimento o di fanatismo, il «buon senso popolare» li riconduce tosto a galla. La vittoria delle idee non è completa se non quando esse cessano di essere in contraddizione con gli interessi personali, cioè quando danno soddisfazione all'egoismo»

Il venditore d'aringhe che grida la sua merce sotto alla mia finestra, ha un interesse personale a venderle à buon prezzo, e quando sua moglie o qualcun altro fanno voti per la prosperità del suo piccolo commercio, è pur sempre per il suo interesse, tutto personale. Ma se un ladro gli ruba il canestro che contiene la sua merce, tosto si ridesta l'interesse di molti, del gran numero, di tutta la città, di tutto il paese: insomma, di tutti coloro che aborriscono il furto. La persona del pesciaiuolo passa in ultima fila, e s'affaccia invece la categoria dei «derubati» alla quale è unito l'interesse del pubblico.

Eppure, anche in questo caso, tutto si riduce ad un 'interesse personale: se tutti coloro che commiserano il derubato applaudono al castigo del ladro, lo fanno perchè se il furto rimanesse impunito, esso potrebbe generalizzarsi, e farli diventare a loro volta vittime» Tuttavia è difficile ammettere che molte persone siano conscio di un tale ragionamento; ma si udrà sovente proclamare che il ladro è, un «criminale» Noi ci troviamo così di fronte a un giudizio emesso, che qualifica il furto, una volta per tutte, classificandolo «delitto».

Il problema che si pone ora è questo: supponendo che un delitto non rechi il minimo danno nè a me nè a chiunque altro m'interessi, io dovrei, ciononostante, spiegare tutto il mio zelo per combatterlo. Perchè? Perchè la mia Moralità, m'ispira, perchè io sono pieno dell * idea, di moralità, ed io debbo oppormi a tutto ciò che le è contrario, E appunto perchè il furto gli sembra a priori abbominevole, Proudhon crede di aver flagellata la proprietà dicendo che «la proprietà è il furto». Agli occhi dei preti, Il furto è sempre un delitto , o per

10 meno una contravvenzione.

Qui finisce l'interesse personale. La persona determinata che ha rubato il canestro al pesciaiuolo mi è personalmente affatto indifferente; quello che mi interessa è unicamente il ladro, la specie rappresentata da questa persona. Ladro e Uomo sono nel mio spirito due termini inconciliabili perchè non si è veramente Uomo quando si è ladro: rubando si avvilisce in se l’Uomo o {'«umanità» Noi lasciamo l'interesse personale per cadere nella Filantropia, Questa è tanto generalmente mal compresa che si crede vedere in essa un amore per gli uomini, per ogni individuo in particolare, allorché non è che l'amore dell' Uomo, del concetto astratto e irreale, del fantasma.

Non è già gli uomini, — ma l'uomo, — che il filantropo porta nel suo cuore. — Certo, egli commiséra la sfortuna dell'individuo, ma unicamente perchè vorrebbe vedere da per tutto realizzato il suo ideale favorito. Non parlategli di aver delle preoccupazioni per me, per te, per noi: ciò sarebbe interesse personale e fa parte del capitolo dell'«amore del mondo». La Filantropia è un amore celeste, spirituale, clericale . Quello che occorre è di far fiorire in noi l' Uomo, quand'anche noi, poveri diavoli, dovessimo tutti perire. E' il medesimo spirito clericale che ha dettato il celebre Fiat justitia, pereat mundus! Uomo, Giustizia, sono delle idee, dei fantasmi, all'amore dei quali tutto si deve sacrificare; del resto, l'uomo capace di ogni sacrificio è, come si sa,

11 prete.

Chi sogna l’Uomo perde di vista le persone man mano che il suo sogno ingrandisce; e naviga in pieno interesse sacro, ideale, il Uomo non è una persona, ma un ideale, un fantasma»

Si possono prestare all'uomo gli attributi i più diversi; se il primo, il più essenziale, dei suoi attributi sembra dovesse essere la pietà, allora si manifesta il sacerdozio religioso; se invece è la moralità che gli è necessaria, il sacerdozio morale alza il capo. Gli spiriti gerarchici dei nostri giorni vorrebbero fare di ogni cosa una «Religione»; abbiamo già una «religione della Libertà», una «religione dell'Eguaglianza», ecc., ed ecco che essi si affannano per far diventare tutte le idee «cause sante»: così un giorno sentiremo parlare di una religione dello Stato, della Politica, della Pubblicità, della Libertà di stampa, della Corte d'assise, ecc. Dunque, che cos'è il «disinteresse»? Essere disinteressato; significa avere un interesse ideale, di fronte al quale scompare ogni considerazione di persona.

L'orgoglio dell'uomo pratico si ribella contro questo modo di vedere. Ma siccome per migliaia d'anni hanno saputo così bene dominarlo e opprimerlo, che anche oggi deve curvare il capo ribelle e «adorare la potenza superiore»: il Sacerdozio ha vinto. Allorché l'egoista mandano era riuscito a scuotere il giogo di una potenza superiore, come, per esempio, la Legge dell'Antico Testamento, il Papa romano, ecc., tosto una nuova potenza, dieci volte superiore, sorgeva per assoggettarlo: la Fede prendeva il posto della Legge, il clero propriamente detto veniva surrogato da tutti i laici tramutati in sacerdoti. E' la storia, dell'ossesso nel quale entravano sette diavoli allorché egli credeva di averne cacciato uno.

Le parole di Br. Bauer, che abbiamo piti sopra riferite, negano alla classe borghese ogni idealismo; ecc. E' indubitato che essa ha falsificato le conseguenze ideali che Robespierre voleva trarre dal suo principio. L'istinto del propria interesse l'ha avvertita che quelle conseguenze non si concordavano coi propositi cui essa mirava, e che sarebbe un giuoco da imbelle quello di volersi piegare alle deduzioni della teoria. Doveva forse essa spingere il disinteresse fino ad abiurare tutto quello che era stato il suo scopo, per il trionfo di una rigida teoria? Ciò conviene meravigliosamente ai preti, quando trovano delle persone che prestano l'orecchio alle loro esortazioni: «Abbandona tutto, e seguimi!» o: «Vendi tutto ciò che possiedi e dona il tuo danaro ai poveri: ciò ti acquisterà un tesoro nel cielo; vieni e seguimi!» Qualche raro idealista ascolta questo appello; ma la maggior parte fa come Anania e Saffira conducendosi un po' secondo lo Spirito o la Religione, e un po' secondo il mondo; e dividono le loro offerte tra Dio e Mammone.

lo non biasimo la Borghesia di non essersi lasciata distrarre dal suo scopo da Robespierre e d'aver chiesto consiglio al proprio egoismo per sapere fino a qual punto doveva assimilarsi le idee rivoluzionarie. Ma coloro che si potrebbero biasimare (se tuttavia si trattasse qui di biasimare qualcuno o qualche cosa) sono appunto quelli che si lasciano imporre come interessi propri gli interessi della classe borghese. Non impareranno essi, dunque, un giorno a comprendere da qual parte è il loro vantaggio?

«Per conquistare alla loro causa i produttori (Proletari) — dice Augusto Becker (l. Volksphilosophie unserer tage, p. 2.2) — non basta la negazione delle nozioni tradizionali del diritto. La gente si preoccupa disgraziatamente troppo poco della vittoria teorica dell’idea. Ciò che occorre, è dimostrar loro ad oculos il beneficio pratico che si può trarre da questa vittoria»; e aggiunge (pag. 32): «Voi dovete prendere le persone dal lato dei loro interessi reali, se volete influire su di esse». Inoltre, egli ci dimostra la saggia immoralità che già si propaga tra i nostri contadini, perché essi preferiscono meglio seguire i loro interessi reali che attenersi ai comandamenti della Morale.

I Padri della Chiesa rivoluzionaria, i suoi pedagoghi, tagliavano la testa agli uomini per servire l'Uomo; i laici, i profani della Rivoluzione non avevano, in verità, meno scrupoli per questa operazione; ma essi si curavano meno dei diritti dell’uomo e dell’umanità che dei loro propri interessi.

Perchè dunque l'egoismo di coloro i quali propugnano e consultano in ogni occasione il loro interesse personale soccombe fatalmente davanti a un interesse sacerdotale e pedagogico? Perchè la propria persona sembra a loro stessi meschina, troppo insignificante (quello che è, infatti) per osare di pretendere a tutto, e che tutto si inchini ai loro desideri. E di ciò ne è la prova la scissione che in loro stessi si manifesta per cui l’uomo è diviso in due persone, una eterna e una temporale; e che essi favoriscono or l’una or l’altra: la domenica l’eterna, il resto della settimana la temporale; la prima colla preghiera, la seconda col lavoro. Costoro portano in se stessi il prete, e non possono liberarsene: essi sentono nel loro interno, ogni domenica, la predica.

Quanto hanno lottato e meditato gli uomini per poter giungere a conciliare questo dualismo della loro essenza! Essi hanno ammucchiato idee su idee, principi su principi, sistemi su sistemi; eppure finora nulla è riuscito a risolvere la contraddizione che contiene l’uomo «temporale» chiamato «egoista». Ciò non prova forse che tutte queste idee erano impotenti ad abbracciare la mia intera volontà e a soddisfarla? Esse erano e mi sono rimaste nemiche, benché questa inimicizia si sia per lungo tempo dissimulata. Sarà così anche per V individualità? Non sarà, essa pure, un tentativo di conciliazione?

A qualunque principio mi sia rivolto — a quello della Ragione, per esempio — sono sempre stato obbligato a respingerlo. Eppure posso io essere perpetuamente ragionevole e regolare in tutte le cose la mia vita secondo la ragione? Io posso forzarmi d'esser ragionevole; io posso amare la. ragione, come posso amare Dio od ogni altra idea. Io posso essere filosofo, esser l'amante della saggezza come sono l'adoratore di Dio. Ma l'oggetto dei mio amore, delle mie aspirazioni non esiste che nel mio spirito, nel mio cervello, è in me come è in me il mio cuore; ma non è l'io, ed io non sono io.

Ciò che si intende col nome di influenza morale è tutto quello che fa parte principalmente degli spiriti sacerdotali.

L'influenza morale si manifesta dove incomincia la umiliazione; anzi non è che l'umiliazione stessa, mediante la quale l'orgoglio, obbligato a piegarsi e a rompersi, lascia il posto alla sottomissione. Allorquando io grido a qualcuno di allontanarsi da una roccia minata che sta per saltare, io non esercito su di lui, con questo avvertimento, alcuna influenza morale. Se dico al fanciullo: «Tu avrai fame se non mangi quello che ti è dato», non v'è in queste parole nulla che rassomigli all' influenza morale. Ma se gli dico: «Bisogna pregare, onorare padre e madre, rispettare la croce, dire la verità, ecc., perchè ciò è umano, perchè tale è il dovere dell'uomo, o, meglio ancora, la volontà di Dio questa volta avrò esercitato su di lui. un'azione morale. E appunto mediante questa pedagogia morale che l'uomo si penetra della missione dell'uomo, che diventa umile e obbediente, e sottomette la propria volontà ad una volontà estranea che gli è imposta, come norma e legge; egli deve inchinarsi davanti a una superiorità / Umiliazione volontaria. «Colui che si umilia sarà esaltato». Sì, sì: è bello esortare per tempo i fanciulli alla pietà, alla devozione, all'onestà, Duomo bene educato è quello cui sono stati inculcati i buoni prìncipi, a forza di scudisciate o di sermoni.

Se ciò vi fa sorridere, tosto i Buoni grideranno, disperatamente: «Ma per l'amor di Dio, se non apprendiamo dei buoni principi ai nostri fanciulli, essi si getterebbero dritti dritti nelle gole del peccato, e diventerebbero dei cattivi soggetti!» Adagio, profeti di cattivo augurio! «Cattivi», nel senso che voi intendete, certo lo diverranno; ma è il vostro senso che è precisamente un cattivissimo senso. Gli sfrontati non si lascieranno più imporre dalle vostre stoltezze e lamentele, e non simpatizzeranno più con tutte le assurdità che da tempi immemorabili vi fanno sognare e delirare; essi aboliranno il diritto di successione, rifiutandosi di ereditare delle sciocchezze che, a loro volta, i vostri padri vi hanno lasciato; ed estirperanno il peccato originale. Se direte loro: «Inchinatevi dinanzi all'Ente supremo», essi vi risponderanno: «Se vuole che ci inchiniamo, venga egli stesso e ci costringa; perchè noi non ci inchineremo mai di nostra piena volontà!» E se li minacciate della sua collera e dei suoi castighi, essi considereranno tutto ciò come uno spauracchio da bambini. Quando non potrete più inculcar loro la paura dei fantasmi, il regno dei fantasmi avrà toccato la sua fine, ed i racconti della nutrice non troveranno più chi presti loro fede.

Ma non sono forse ancora una volta i Liberali che insistono sulla buona educazione e sulla necessità di migliorare l'istruzione pubblica? Come, d'altronde, il loro Liberalismo, la loro «libertà entro i limiti della legge», potrebbe realizzarsi senza il soccorso della disciplina? Se l'educazione, come loro la intendono, non riposa precisamente sul timore di Dio, con tanta maggior energia si richiamano al rispetto umano, cioè al timore dell'Uomo, ed è con la disciplina che ispirano l'«entusiasmo per la vera missione umana».

  • * *

Duomo si accontentò per lungo tempo dell'illusione di possedere la verità, senza che venisse in mente a qualcuno di chiedersi seriamente se non fosse necessario, prima di possedere la verità, d'essere veri se stessi. Erano i tempi del Medio Evo. Allora si immaginò di poter comprendere l'astratto, l'immateriale, per mezzo della coscienza comune, quella che serviva a comprendere le cose, cioè il sensibile e il materiale. Allo stesso modo che si deve lungamente esercitare l'occhio prima di poter distinguere la prospettiva degli oggetti lontani, e la mano si esercita perchè le dita possano acquistare la necessaria agilità per premere sui tasti secondo le regole d’arte, così l’uomo si sottometteva alle più varie mortificazioni per divenire capace di percepire interamente il soprasensibile. Ma ciò che si mortificava non era altro che l’uomo materiale, la coscienza comune, l’intelligenza ristretta alla percezione dei rapporti sensibili. E siccome questa intelligenza, questi pensieri, che Lutero derideva beffardamente col nome di ragione, erano incapaci di concepire il divino, il regime di mortificazione al quale si sottomettevano, non contribuiva affatto alla scoperta della verità; sarebbe stato come sperare che i piedi esercitati lungamente alla danza potessero riuscire a suonare il flauto.

Lutero, col quale finisce quello che si chiama il Medio Evo. fu il primo a comprendere che se l’uomo vuole conoscere la verità, deve cominciare a diventare un altro, cioè diventare tanto vero quanto la verità stessa. Soltanto colui che crede alla verità può esserne partecipe: cioè la verità è accessibile solamente al credente, e solo il credente può esplorarne le sue profondità. Soltanto quell’organo dell’uomo capace di produrre il soffio può riuscire a suonare il flauto; e soltanto quell’uomo che possiede il vero organo della verità può partecipare alla verità. Colui il cui pensiero concepisce solo le cose sensuali, il positivo, il concreto, nella verità non cercherà che la sua apparenza concreta. Ora, la verità è spirito, fondamentalmente immateriale, e, per conseguenza, di competenza della «coscienza superiore», non di quella che «non è aperta che alle cose terrene».

Lutero mette dunque in luce il principio che la Verità, essendo pensiero, non esiste che per l’uomo pensante . E ciò significa che l’uomo deve semplicemente mettersi, d’ora innanzi, sotto un punto di vista differente: quello celeste, credente, scientifico; dal punto di vista del pensiero di fronte al proprio oggetto, il pensiero, o dello Spirito di Fronte allo Spirito. Soltanto l’eguale può riconoscere l’eguale. «Tu sei l’eguale dello Spirito che comprendi ».

Avendo il Protestantesimo abbattuta la gerarchia del Medio Evo, potè assumere importanza l’opinione che ogni gerarchia, la gerarchia in generale, fosse stata da esso distrutta; e non seppero accorgersi che ciò era stato invece semplicemente una «Riforma», cioè il ravvivamento della gerarchia vecchia. La gerarchia del Medio Evo, si trovava inferma e debole, perchè obbligata a tollerare la barbarie profana cbe la circondava; occorse la Riforma per ritemprare le forse della gerarchia e ridarle tutto il suo inflessibile rigore.

«La Riforma — disse Bruno Bauer — fu innanzi tutto il divorzio teorico del principio religioso con l'Arte, lo Stato e la Scienza: cioè la sua liberazione da quelle potenze alle quali era stata intimamente legata durante i primi tempi della Chiesa e della gerarchia del Medio Evo; e le istituzioni teologiche e religiose prodotte dalla Riforma non sono che le conseguenze logiche di questa separazione del principio religioso dalle altre potenze che regolano la umanità». È precisamente il contrario che mi sembra esatto: io penso che mai la dominazione dello spirito, o — ciò che è come dire la stessa cosa — la libertà dello spirito, siano state così estese ed onnipotenti quanto dopo la Riforma; che, invece di finirla con l'Arte, lo Stato e la Scienza, il principio religioso li ha penetrati ancora più, togliendo loro quello che gli rimaneva di secolare, per trascinarli nel «regno degli spiriti» rendendoli religiosi.

Non a torto si paragonò Lutero a Cartesio, il «Colui che crede è un Dio» e il «Io penso, dunque sono » (cogito, ergo sum). Il cielo dell'uomo è il pensiero, lo Spirito. Tutto può essergli sottratto, salvo il pensiero e la fede. Si può distruggere una fede determinata, come la fede in Giove, Astante, Jeova, Allah, ecc.; ma la fede stessa è indistruttibile. Pensare, è esser libero. Quello di cui ho bisogno, di cui sono assetato, non l'attendo da nessuna grazia, nè dalla àrgine Maria, nè dall'intercessione dei Santi, nè dalla Chiesa che annoda e scioglie; ma me lo provvedo da me stesso. Insomma, il mio essere (il sum ) è una vita nel cielo del pensiero, dello Spirito, è un cogitare . Io stesso non sono altro che Spirito: Spirito pensante, disse Cartesio; Spirita credente, disse Lutero, lo non sono ciò che è il mio corpo; la mia carne può essere tormentata da desideri e da passioni. Io non sono la mia carne, io sono Spirito, null'altro che Spirito.

Questo pensiero attraversa tutta la storia della Riforma fino ai nostri giorni.

Fu soltanto dopo Cartesio che la filosofia moderna si applicò seriamente a trarre tutte le conclusioni dalle premesse cristiane, facendo della «coscienza scientifica» la sola conoscenza vera e valevole. Perciò essa comincia col dubbio assoluto, col dubitare, con l'umiliazione del sapere volgare e la negazione di tutto quello che non è legittimato dallo spirito e dal pensiero. Per essa la Natura, le opinioni degli uomini e il «consenso generale» non contano nulla; e non lia riposo fino a tanto che non ha introdotto in tutto la Ragione, sì da poter dire: «Il reale è il razionale e il razionale solo è reale». Così essa è pervenuta al trionfo dello Spirito e della Ragione, e tutto ormai è Spirito perchè tutto è ragionevole: la Natura intera, come le opinioni degli uomini, anche le piu assurde, contengono la Ragione, perchè «bisogna far servire ogni cosa al suo miglior fine», cioè al trionfo della Ragione.

Il dubitare del Cartesio implica questo giudizio, che solo il cogitare, il pensiero, lo spirito, è. E' una rottura completa con il senso «comune» che accorda una realtà alle cose indipendentemente dai loro rapporti con la ragione! Solo lo Spirito e il pensiero esistono. Tale è il principio della filosofia moderna, ed è il principio cristiano in tutta la sua purezza. Cartesio separava di già nettamente il corpo dallo spirito; ed «è lo spirito che si edifica un corpo», disse Goethe.

Ma questa filosofia stéssa, filosofia tutta cristiana, non si allontana dal ragionevole; perciò grida contro il «puro subiettivo», contro «i capricci, ì casi, l'arbitrio», ecc.; essa vuole che il divino divenga visibile in ogni cosa, che ogni coscienza sia una riconoscenza di Dio, e che l'uomo contempli Dio da per tutto: ma non v'è mai Dio senza il suo diavolo.

Non si attribuisce il titolo di filosofo a chi, benché abbia gli occhi spalancati sulle cose del mondo e lo sguardo chiaro e sicuro, emette intorno al mondo un rigido giudizio, se non vede nel mondo che il mondo, negli oggetti i soli oggetti: cioè, se vede prosaicamente tutto come è. Filosofo è solo colui che vede, mostra e dimostra nel mondo il cielo, nel terrestre il soprannaturale, e nell'umano il divino . «Ciò che non vede l'intelletto degli intelligenti nella sua semplicità un'anima di fanciullo lo vede», ed è quest'anima di fanciullo, quell'occhio per il divino, che occorre per essere riconosciuti filosofi. Gli altri non hanno che un senso «comune»; chi vede e sa esprimere il divino, ha una coscienza «scientifica». Per questa ragione Bacone fu escluso dal regno dei filosofi; la così detta filosofia inglese non sembra d'altronde aver sorpassato, in seguito, le scoperte dei «cervelli chiari», Bacone e Hume. Gli inglesi non hannoinai _saputo - magnificare l'ingenuità dell'anima infantile ed elevarla all'importanza di filosofia; essi non seppero creare, con degli animi infantili, dei filosofi. Ciò significa che la loro filosofia fu incapace di diventare una filosofia teologica, . una teologia. Tuttavia solo come teologia la filosofia può raggiungere il termine della sua evoluzione. E sul campo di battaglia della teologia che essa renderà l'ultimo sospiro. Bacone non si martellava certo il cervello per le questioni teologiche e per i punti cardinali.

Soggetto della conoscenza è la vita. Il pensiero tedesco, più di ogni altro, cerca di raggiungere le fonti della vita, e vede la vita solo nella conoscenza. Il cogito, ergo stim di Cartesio significa ; «Non si vive se non si pensa». Vita pensante vuol dire: «vita spirituale». Lo Spirito solo vive; la sua vita è la vera vita. Così è per la Natura: le sue «leggi eterne», lo Spirito, o la ragione della Natura, sono tutta la sua vita. Nell'uomo, come nella Natura, vive solo il pensiero: tutto il resto è morto. La storia dello Spirito tende necessariamente a questa astrazione, alla vita delle generalità astratte o del non^vivente. Dio, che è Spirito, vive lui solo: nulla vive all'infuori del fantasma.

Come si può sostenere che la filosofia e l'epoca moderna abbiano raggiunta la libertà, se esse non ci hanno liberati dal giogo dell' obbiettività? O sono per caso io forse liberato da un despota, allorché invece di temerlo personalmente, tremo al solo pensiero di contravvenire alla venerazione che mi immagino di dovergli? E appunto in questa situazione che noi ci troviamo. Il pensiero moderno non ha fatto che trasformare gli oggetti esistenti, il despota reale, in oggetti immaginari, cioè in idee . E che cosa divenne l'antico rispetto, di fronte a queste idee? Scomparve? AI contrario, raddoppiò di fervore. Si burlò di Dio e del Diavolo, per la loro forma rozza e volgarmente reale d'altre volte, ma nonpertanto prese più sul serio la loro nozione astratta. «Liberato dal cattivo; è rimasto il male».

Non si ebbe alcun scrupolo di ribellarsi contro lo stato delle cose esistenti e mutare le leggi regnanti, allorché si sarebbe potuto una volta per sempre prendere la risoluzione di non lasciarsene imporre dall'attuale e palpabile: ma chi avrebbe osato peccare contro Videa dello Stato, e ribellarsi alVidea della Legge? E in tal modo si rimase «cittadino», uomo «legale», leale; anzi, si credette di essere tanto più «legale», in quanto che si abolirono più razionalisticamente le vecchie leggi zoppicanti per rendere omaggio allo «spirito della Legge»,

Insamma, gli oggetti si erano trasformati senza perdere nulla della loro potenza e supremazia, e si restò ancora immersi nell'obbedienza, ossessi; si visse nella riflessione; vi fu sempre un Oggetto da rispettare, che faceva riflettere, davanti al quale ci si sentiva pieni di venerazione, di timori, Non si fece che trasformare le cose in immagini, cioè in rappresentazione delle cose, in idee, in concetti, sentendone così più intimo e indissolubile il legame. Non è difficile, per esempio, sottrarsi agli ordini dei genitori, chiudere gli orecchi ai consigli e alle ammonizioni degli zii, alle preghiere dei fratelli e delle sorelle; ma l'obbedienza così congedata si rifugia nella coscienza; quanto meno ci pieghiamo alle esigenze dei nostri parenti, perchè razionalmente e in nome della nostra ragione li giudichiamo irragionevoli, tanto più scrupolosamente ci atteniamo alla pietà filiale, all'amore della famiglia: non sapremmo perdonare a noi stessi l'offesa recata all f idea che ci siamo fatti dell'amore familiare e dei doveri che esso impone. Liberati dalla nostra dipendenza versò la famiglia esistente, cadiamo sotto la dipendenza più tirannica della idea della famigli: lo spirito della famiglia si impadronisce di noi e ci domina. La famiglia composta da A., B., C., ecc., la cui autorità è divenuta impotente, non fa che trasformarsi in noi, interiorizzarsi, se si vuole: essa rimane però sempre la «Famiglia», cui le viene applicato il vecchio precetto: «E meglio obbedire a Dio che agli uomini»; precetto che si tradurrebbe, nel caso presente, così: «Io non posso, in verità, piegarmi alle vostre assurde esigenze; ma voi siete la mia «famiglia» e come tale continuate ad essere, malgrado tutto, l'oggetto del mio amore e della mia sollecitudine, perchè la «famiglia è un concetto sacro che l'individuo non può offendere». E questa famiglia, resa interiore e immateriale, divenuta pensiero e rappresentazione, sarà d'ora innanzi annoverata fra le cose «sacrosante»; il suo dispotismo è centuplicato, perchè riempirà incessantemente dei suoi clamori la mia coscienza, Perchè il dispotismo della famiglia fosse vera^ mente infranto, bisognerebbe che questa famiglia ideale stessa si dissolvesse nel nulla. Le parole cristiane: «Donna, che cosa ho io di comune con te?» (t. Giovanni 2. 4 «Io sono venuto per sollevare l'uomo contro il proprio padre e la figlia contro la propria madre (l. Matteo , 10, 35. ), ed altre simili, devono intendersi come un appello alla famiglia celeste, alla vera famiglia, Lo Stato non dice altra cosa allorquando esige che in ogni conflitto tra esso e la famiglia è obbligo di obbedire ai suoi ordini, agli ordini dello Stato*

Come è della Morale, cosi è della Famiglia. Molti che non si lasciano più trattenere dalla morale, non sono tuttavia capaci di liberarsi dal concetto «Moralità». La Moralità è Videa, della morale, la sua forza spirituale, la sua potenza sulle coscienze; la morale, al contrario, è troppo materiale per dominare lo spìrito e non può incatenare un uomo «spirituale», un cosidetto «libero pensatore».

Ha un bel dire il Protestante: ma la «Sacra Scrittura», la «parola di Dio», è sacra. Chi non la tiene più «santa» cessa d'essere un Protestante. Perciò deve essere per lui «sacro» tutto ciò che da essa è «ordinato»: l'autorità istituita da Dio, ecc. 'Tutto ciò rimane per lui inespugnabile, intangibile, «superiore ad ogni sorta di dubbio», e per conseguenza, essendo il dubbio la cosa più naturale all’uomo, «superiore» a lui stesso. Chi non sa distaccarsene vi crede; poiché credere significa esservi legato. Siccome nel Protestantesimo la fede è divenuta più interiore, e la 'servitù si è fatta più intima, la santità di quelle cose è divenuta parte dell'uomo stesso; i suoi pensieri ed i suoi atti ne furono pervasi; si sono creati dei casi di coscienza e tracciati dei doveri sacri. Perciò, tutto quello di cui il Protestante non sa liberare la sua coscienza è per lui sacro; il Protestante è coscienzioso : e la sua «coscienziosità» è il segno distintivo più saliente del suo carattere.

Il Protestantesimo ha organizzato nell'uomo un vero e proprio servizio di «polizia occulta». La spia, la origliente «coscienza», sorveglia ogni movimento dello spirito; ogni gesto, ogni pensiero è ai suoi occhi un «affare di coscienza», cioè «affare di polizia». E questa scissione dell'uomo in «istinto naturale» e «coscienza» (canaglia e polizia interiore) che fa il Protestante. La «saggezza della Bibbia» (al posto della cattolica «saggezza della Chiesa»), è considerata per sacra, e il sentimento, la convinzione che la parola biblica è santa, si chiama «coscienza». La santità ha così un trono nel cuore dell'uomo. Se non si libera della coscienza, dall'idea del sacro o del Santo, si potrà agire contro la propria coscienza, ma non indipendentemente da essa: si sarà un immorale ma non un amorale.

Il Cattolico si sente tranquillo, dal momento che ha osservato i «comandamenti»; il Protestante pure «£a del suo meglio», li Cattolico non è che un laico, mentre il Protestante è sempre un prete. Questo ecclesiastico universale, questa ascensione d'ogni cosa verso il pretismo, è il progresso realizzato dalla Riforma sul Medio Evo; ma è anche la sua maledizione.

Che cosa era d'altro la morale gesuitica se non la continuazione della vendita delle indulgenze; con la sola differenza che chi otteneva l'indulto acquistava anche la facoltà di controllare il condono dei suoi peccati e poteva assicurarsi se le sue colpe gli erano realmente perdonate; atteso che in certi casi determinati (come dicono i causisti) il suo peccato non era peccato? La vendita delle indulgenze aveva autorizzato tutti i peccatori e tutti i delitti, e ridotto al silenzio gli scrupoli della coscienza. La sensualità poteva avere libera espansione, salvo essere riscattata alla Chiesa. I Gesuiti, continuando a incoraggiare la sensualità, pervennero al deprezzamento dell'uomo secondo i sensi; mentre i Protestanti, austeri, tetri, fanatici, penitenti, contriti, veri continuatori del Cristianesimo, accordavano valore all'uomo secondo lo spirito? al prete. Questa indulgenza del Cattolicesimo, e specialmente dei Gesuiti, per l'egoismo, trovò nel seno stesso del Protestantesimo una involontaria e incosciente adesione, salvandosi dalla decadenza e dalla rovina della sensualità. Tuttavia, V influenza dello spirito protestante continua ad estendersi, e lo spirito gesuitico, che, vicino allo spirito «divino» rappresenta il «diabolico» inseparabile di ogni divinità, non può in alcuna parte sostenersi da solo; egli è testimonio forzato, in Francia specialmente, della vittoria del Protestantesimo e del trionfo dello Spirito.

  • * *

Al Protestantesimo si vuol attribuire il merito d’aver rimesso in onore il «temporale», come, per esempio, il matrimonio, Io Stato, ecc. Ma in realtà il «temporale» come temporale, il profano, gli è molto più indifferente ancora che al Cattolicesimo. Non solo il cattolico lascia sussistere il mondo profano, ma sovente partecipa ai godimenti mondani; mentre il' protestante, allorché ragiona ed è conseguente, lavora a distruggere il temporale, col solo fatto che lo santifica. Fu così che il matrimonio ha perso il suo carattere naturale col diventare «sacro» — non già come lo vuole il Sacramento cattolico, che implica in esso il profano e non riceve che dalla Chiesa la sua consacrazione — ma sacro nel senso protestante, sacro per essenza, un vincolo sacro. Così è dello Stato: una volta il Papa consacrava lo Stato e i suoi principi benedicendoli; oggi lo Stato, la Maestà, sono per se stessi sacri, senza che la mano del prete abbia bisogno di stendersi sopra di loro.

Insamma, l'ordine della Natura, o Diritto naturale, è stato santificato sotto il nome di «ordine divino». La Confessione d'Augsburg, articolo n, dice, per esempio: «Atteniamoci semplicemente alla saggia sentenza dei giureconsulti: è diritto naturale che l'uomo e la donna vivano insieme. Ora, ciò che è £«2 diritto naturale è l'ordine di Dio trasportato nella natura, ed è perciò pure un diritto divino». E che cos'è Feuerbach, se non un protestante illuminato, allorché dichiara sacri tutti i rapporti morali, non già in verità perchè conformi alla volontà divina, ma in ragione allo spirito che in essi abita? «Il matrimonio — naturalmente come libera unione d'amore — è sacro per se stesso, per il fatto stesso che viene contratto. Il matrimonio non è religioso se non quando è vero e risponde all'essenza del matrimonio che è l'amore. Così è di tutti i rapporti del mondo morale: essi non sono morali, e dal punto di vista della moralità non hanno valore se non quando sono riguardati per se stessi come religiosi Non c'è vera amicìzia se non là dove i limiti dell'amicizia sono religiosamente osservati con gli stessi scrupoli che il credente spiega per salvaguardare la dignità del suo Dio. Sacri sono e ci devono essere l'amicizia, la proprietà, il matrimonio, il bene di ogni uomo; ma sacri in se stessi, e per se stessi » (1. Vfèsen des Christentums, p. 403),

Questo è il punto essenziale sul quale voglio insistere. Secondo il Cattolicesimo, il mondano, il secolare, può essere consacrato o santificato; ma non è santo senza la benedizione sacerdotale. Secondo il Protestantesimo, al contrario, il temporale è santo per se stesso, per il solo fatto della sua esistenza.

A questa consacrazione ecclesiastica, fonte di ogni santificazione, è intimamente legata la massima gesuitica: « li fine giustifica i mezzi». Un mezzo non è in se santo nè non santo; ma, applicato ai bisogni della Chiesa, utile alla Chiesa, eccolo santificato. Il regicidio, per esempio, è uno di questi mezzi: allorché esso è stato compiuto per il bene della Chiesa ha sempre ottenuto, talvolta senza confessione pubblica, la sua canonizzazione» Per il Protestante, la Maestà è sacra; per il Cattolico non può essere» tale se non dopo aver ricevuta dal pontefice la consacrazione; e se il Cattolico la considera come sacra è perchè la santità le è stata implicitamente conferita, una volta per sempre, dal Papa» Ma se il Papa revocasse la sua consacrazione, il re anatema non sarà più per i suoi sudditi cattolici che un «uomo secolare», un «laico», un «profano».

Se il Protestante fa ogni sforzo per scoprire qualche «santità» anche nelle cose sensuali, nella materia, per poi attenersi in seguito a questo punto sacro; il Cattolico, invece, relega il «materiale» in un luogo appartato, ove conserva, come tutto il resto della natura, il suo proprio valore. La Chiesa cattolica ha giudicato il matrimonio incompatibile con lo stato ecclesiastico ed ha privata i membri del clero delle gioie della famiglia; il matrimonio e la famiglia, anche se benedetti, restano mondani. La Chiesa protestante, al contrario, considerando sacri il matrimonio e i legami coniugali, fa astrazione da ciò che essi hanno di mondano e non li giudica in modo da non convenire ai suoi preti.

Un gesuita, nella sua qualità di buon cattolico, può santificare ogni cosa» Basta, per esempio, che si dica: lo sono prete, e come tale sono necessario alla Chiesa. Ma la servirò con maggior zelo se posso debitamente saziare le mie passionii Io voglio dunque sedurre quella ragazza, far avvelenare il mio nemico. Il mio fine è santo, essendo quello d’un prete; per conseguenza santifica il mezzo» Del resto, io agisco per il bene della Chiesa. Perchè il prete cattolico dovrebbe temere a tendere all'imperatore Enrico VII l'ostia avvelenata — per la salute della Chiesa?

I Protestanti ortodossi hanno proibito tutti i «piaceri innocenti», perchè solo il sacro, lo spirituale, poteva essere innocente. Essi sono stati obbligati a condannare tutto ciò in cui non potevano scorgere la presenza dello Spirito Santo: danza, teatro, lusso, (nelle chiese, per es.). E' questa la caratteristica del Calvinismo puritano; ma parallelamente il Luteranesimo si svolge in un senso religioso, perchè esso è d'uno spirituale più radicale.

II Calvinismo esclude una folla di cose considerandole di primo acchito come sensuali o profane; purifica, la Chiesa per esclusione. Il Luteranesimo, al contrario, non respinge nulla, e cerca, per quanto gli è possibile, di riconoscere in tutto Io Spirito, Pope r a dello Spirito Santo, : santifica il profano. «Un bacio sincero non è una cosa proibita», lo spirito dell'onestà lo santifica. Fu così che il luterano Hegel (dichiara lui stesso in un brano delle sue opere che tale vuol rimanere) riuscì a identificare completamente Lordine naturale con Lordine logico. In tutto v'è la Ragione, cioè lo Spirito Santo; «il reale è razionale», e il reale è, infatti, il tutto, attesoché in tutte le cose, per esempio anche in ogni menzogna, si può scoprire la verità: non esiste la menzogna assoluta come non esiste il male assoluto, ecc.

Quasi solo i Protestanti hanno prodotto le grandi «opere dello spirito», perchè essi soli sono i veri apostoli dello Spirito .

  • * *

Come è limitato Pimpero dell'uomo! Egli deve lasciare che il sole prosegua il suo corso, che il mare sollevi e abbassi i suoi flutti, che i monti s'innalzino verso il cielo. Davanti AVInsormon tahile egli è impotente. Questo mondo gigantesco è sottomesso a una legge immutabile alla quale l'uomo deve sottomettersi e che determina il suo destino, mme potrebbe sottrarsi al sentimento della propria impotenza ?

Quale fu lo scopo degli sforzi dell'umanità prima di Cristo? Garantirsi contro le avversità della sorte, e non essere più in loro balla. Gli Stoici vi pervennero con l'apatia, considerando come indifferenti i casi della natura e non lasciandosi turbare da essi. Orazio col suo celebre «Mil admirari», proclama egualmente la sua indifferenza per V altro, il Mondo, che non deve, nè influenzarci nè eccitare la nostra meraviglia. E P impavidum ferient ruinae del poeta esprime precisamente la stessa impassibilità del terzo versetto del salmo XLVI: «Noi non temiamo, quand'anche crollasse il mondo, ecc.»

in tutto ciò è in germoglio l'aforisma cristiano sulla vanità del mondo, e apre la via al cristiano disprezzo del mondo.

V, impassibilità dello spirito «saggio», con cui il mondo antico preparò la propria rovina, ricevette una scossa interiore contro la quale nè atarassia nè stoicismo, seppero proteggerla. Lo Spirito, sottratto all'influenza del mondo, insensibile ai suoi colpi, elevato al disopra dei suoi assalti, questo Spirito, che non si meraviglia più di nulla e che nemmeno il crollar del mondo sarebbe stato capace di commuovere, traboccò irresistibilmente, propagato dai «gas» ( spiritila , gas, vapore) nati e sviluppati nel suo interno; e allorché le cose meccaniche venute dal di fuori divennero impotenti contro di esso, le affinità chimiche eccitate nel suo seno entrarono in gioco e cominciarono ad esercitare la loro meravigliosa azione.

La storia antica è virtualmente chiusa il giorno in cui Io riesco a fare del mondo la mia proprietà. »'Tùtte le cose mi furono consegnate da mio padre , (i. Matteo XI, 2yi). Il mondo cessa di schiacciarci con la sua potenza; esso non è per me inaccessibile, sacro, divino, ecc.; «gli dei sono morti», ed io tratto il mondo a mio piacimento; non starebbe che in me di operare dei miracoli (che sono opere dello Spirito); io potrei sconvolgere le montagne, «ordinare ai gelsi di sradicarsi e andarsi a gettare nel mare» (2.. Luca XVII. 6); tutto ciò che è pensabile e possibile: «Tutte le cose sono possibili per colui che crede» (3. Marco IX, 23). Io sono il padrone del mondo, la «maestà» sono io. Il mondo è divenuto prosaico perchè il divino è scomparso: esso è mia proprietà, e ne uso come più mi piace (cioè come piace allo spirito).

Per il fatto che lo era innalzato a questo titolo di possessore del mondo, l'Egoismo aveva riportato la sua prima vittoriane una vittoria decisiva: egli aveva vinto il mondo e l'aveva «soppresso», confiscando a suo profitto l'opera d'una lunga serie di secoli.

La prima proprietà, il primo «trono» è conquistato.

Ma il signore del mondo non è ancora padrone dei suoi pensieri, dei suoi sentimenti, della sua volontà : egli non è il padrone e il possessore dello Stato, perchè lo Spirito è ancora sacro, è lo Spirito Santo. Il Cristianesimo che ha «negato il mondo» non può «negare Dio».

L'antichità aveva lottato contro il mondo; il combattimento del Medio Evo fu un combattimento contro se stesso, contro lo Spirito. Il nemico degli Antichi era stato esteriore, quello dei Cristiani fu interiore; e il campo di battaglia in cui vennero alle mani fu l'intimità dei loro pensieri, della loro coscienza. Tutta la saggezza degli Antichi è Cosmologia, scienza del mondo; tutta la saggezza dei Moderni è Teologia, scienza di Dio.

I Pagani (compresi gli Ebrei) seppero aver ragione del mondo ; si tratta in seguito d'aver ragione di se stessi, di finirla con Io Spirito, di negare lo Spirito, cioè negare Dio.

Da quasi duemila anni ci siamo affaticati ad asservirci lo Spirito Santo, ed abbiamo a poco a poco lacerato e calpestato una buona parte della santità; ma il formidabile avversario si risolleva sempre, sotto altre forme o altri nomi. Lo Spirito non ha cessato ancora d'esser divino, santo, sacro. E' da tanto tempo, è vero, che esso non aleggia più al di sopra delle nostre teste come una colomba e che non discende più soltanto sui suoi elette egli si lascia afferrare pure dai laici, ma come lo Spirito dell'umanità, cioè Spirito dell'Uomo, esso rimane per te come per me uno Spirito straniero, ben lungi ancora dall'essere una proprietà della quale possiamo disporre secondo il nostro piacere.

Un fatto tuttavia è certo, il quale ha visibilmente influito sul cammino della storia dopo Gesù Cristo: è la tendenza a rendere lo Spirito Santo più umano , ad avvicinarlo agli uomini o ad avvicinare gli uomini a lui. Da ciò ne venne che esso potè finalmente essere concepito come lo «Spirito dell'umanità», rendendosi così più agevole, facile, familiare, sotto i nomi di idea dell'umanità, genere umano, umanesimo, filantropia, ecc.

Non si dovrebbe pensare dunque ora che ognuno può oggi possedere lo Spirito Santo, interpretare l'idea dell'umanità e realizzare in se stesso il genere umano?

No: lo Spirito non ha perso nè la sua Santità nè la sua inviolabilità; egli non è per noi accessibile e non è nostra proprietà; perchè lo Spirito dell'umanità non è il mio Spirito. Può essere il mio ideale, perchè lo penso e Io chiamo mio: il pensiero dell'umanità è mia proprietà, e lo provo a sufficienza col solo fatto che l'adopero come meglio mi piace, oggi in un modo, domani in un altro. Noi ci rappresentiamo lo Spirito sotto i più differenti aspetti; ma esso è tuttavia un fedecommesso che non posso alienare nè sopprimere.

Dopo lungo tempo e dopo molteplici e lente mutazioni, lo Spirito Santo è divenuto Y«idea assoluta», la quale, a sua volta, dividendosi e suddividendosi, ha prodotto diverse idee: di filantropia, buon senso, virtù civile, ecc.

Ma io posso chiamare l’idea mia proprietà, se essa è l'idea dell'umanità; e posso considerare lo Spirito come vinto, se debbo servirlo e «sacrificarmi» a lui? ^Antichità giunse, al suo declinare, a possedere il mondo, dopo averne spezzato la supremazia e la «divinità», ed averne riconosciuta la sua impotenza e «vanità». La mia situazione di fronte allo Spirito è identica: se posso ridurlo a non essere più che un fantasma e ad abbassare la supremazia, che esercita su di me, al livello di un ramo di pazzia, esso non mi sembrerà più ne santo, nè sacro, nè divino, ed io mi servirò di lui invece di servirlo, come mi servo della natura a mio modo e senza il minimo scrupolo.

La «natura delle cose», la «nozione dei rapporti» devono guidarmi: la natura delle cose m'insegna come debbo comportarmi verso di loro: la nozione dei rapporti mi apprenderà a concludere.

Come se l'«idea di una cosa» esistesse in se stessa e non fosse piuttosto l'idea che deriva da una cosa! Come se il rapporto che io concepisco non fosse unico, per il fatto che io che lo concepisco sono unico! Che importa se altri lo definiscono diversamente? Ma allo stesso modo che si separa «l'essere dell'uomo» dall'uomo reale, e si giudica questo alla stregua di quello; così si distingue l'uomo reale dai suoi atti, ai quali si applica come criterio la «dignità umana». Le idee devono decidere di tutto; sono le Idee che governano la vita, sono delle Idee che regnano. Tale è il mondo religioso, al quale Hegel diede un'espressione sistematica, allorché, introducendo il metodo nell'assurdità, baso sulle leggi della logica le fondamenta profonde di tutto il suo edificio dogmatico. Le Idee ci fanno la legge, e l'uomo reale, cioè «Io», è forzato a vìvere secondo queste leggi della logica. Ma si può dare un dominio peggiore? E il Cristianesimo fin dal principio convenne che non perseguiva altro scopo all'infuori di rendere più rigorosa la dominazione della legge giudaica. («Non una sillaba della Legge deve andar perduta!»).

Il Liberalismo non fece che mettere in vigore altre idee: ha sostituito il divino con l'umano, la Chiesa con la Stato, ai fedeli lo «Scientifico», o, in generale» i dogmi tozzi e gli aforismi tirannici con delle idee reali e delle leggi eterne.

Ormai nel mondo regna solo lo Spirito. Una infinita folla di idee turbina in tutti i sensi nelle teste: e che cosa fanno quelli che vogliono progredire? Negano queste idee per metterne altre al loro posto! Essi dicono: voi vi fate una idea errata del Diritto, dello Stato, dell'Uomo, della Libertà, della Verità, dell'Onore, ecc.; la vera idea del Diritto, ecc., ecc., è quella che noi vi proponiamo. E in questo modo la confusione delle idee aumenta.

La storia del mondo fu crudele con noi; e Io Spirito ha conquistato una potenza sovrumana. Tu devi rispettare le mie miserabili scarpe che potrebbero proteggere i tuoi piedi nudi; tu devi rispettare il mio sale grazie al quale le tue patate acquistano un buon sapore; e la mia superba carrozza il cui possesso ti metterebbe al riparo della tua indigenza: tu non puoi allungare la mano verso tutto ciò. Tutte queste cose e innumerevoli altre sono indipendenti da te; e l'uomo deve riconoscerle tali; deve ritenerle intangibili, onorarle, rispettarle; sventura a colui che tende la mano desiosa verso di esse: di lui diremo subito che ha «le unghie acuminate».

Che cosa ci rimane? — Ben poco, anzi si potrebbe dire nulla! Tutto ci è stato tolto; e non possiamo tentare di toccare alcuna cosa se non ci fu data ; se viviamo, è per la clemenza del donatore che ci ha accordato questa grazia. Non ti è neanche concesso di raccogliere un ago da terra, se prima non ne hai ottenuto il permesso e se non ne sei autorizzato. E autorizzato da chi? Dal Rispetto ì Soltanto quando esso ti avrà accordata la proprietà di quell'ago, solo quando potrai rispettarlo come una proprietà, tu potrai abbassarti a raccoglierlo. Ben di più, tu non devi aver alcun pensiero, non puoi pronunciare alcuna sillaba, commettere nessun atto che abbiano in te solo la loro sanzione, invece di riceverla dalla Moralità, dalla Ragione o dall'Umanità, Beata ingenuità dell'uomo il quale non conosce che i suoi desiderii, con quale crudeltà si tentò d'immolarti sull'altare della Costrizione 1

Attorno all'altare sorge una chiesa, e questa chiesa man mano si sviluppa e le sue mura si allargano ogni giorno sempre più. Ciò che avvolge l'ombra delle sue volte è sacro, inaccessibile ai tuoi desideri, e tu non puoi toccarlo.

Torturato dai tormenti della fame ti trascini attorno a quelle mura, cercando, per saziare la tua fame, qualche briciola di profano; ma la cerchia della tua corsa si allarga incessantemente. Ben presto questa chiesa coprirà tutta la terra, e tu ne sarai respinto ai suoi estremi limiti; ancora un passo, e il mondo del sacro ha vinto; tu precipiterai nell'abisso. Coraggio, dunque, o paria, poiché sei in tempo ancorai Cessa di vagare, urlando fame, a traverso i campi già falciati dal profano: arrischia tutto, e precipitati a traverso le porte, nel cuore stesso del Santuario! Se tu consumi il sacro, l'avrai fatto tuoi Digerisci l'ostia: ne sarai liberato!