L'amante di sè medesimo/L'autore a chi legge

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L’autore a chi legge

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Lettera di dedica Personaggi
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L'AUTORE

A CHI LEGGE.1

.


Q
UESTA Commedia, che è stata assai fortunata nel buon incontro, svegliò qualche disputa sull’argomento. Pochi hanno riconosciuto nel Protagonista l’Amante di sè stesso, aspettandosi la maggior parte per un sì fatto titolo un uomo abbandonato a quelle disordinate passioni, che sogliono derivare dallo smoderato amor proprio. Quando io avessi fatto prevalere nel mio Protagonista una forte passione, o un vizio, o un difetto, avrei da quello denominato il di lui carattere, e avrei intitolata la Commedia, o il Superbo, o l’Avaro, o il Dissoluto ecc.; ma quando dico soltanto l’Amante di se stesso, mi figuro un Uomo non trasportato da veruna passione, ma ragionevole, padrone di se medesimo, che sente l’umanità, e gli appetiti, e i piaceri, ma che nell’occasione di prevalersi di alcuni beni, o di alcuni comodi, cerca di appagare sè stesso, senza assoggettarsi agli usi molesti della società, a certi inutili rispetti umani, o al fanatismo di una soverchia delicatezza, senza offendere l’onestà e il buon costume. Per esempio: un galant’uomo a’ dì nostri contrae un’amicizia con un’amabil Signora, prende impegno di servirla, la serve, e coll’andar del tempo scopre i difetti, e trova incomoda la servitù. L’uomo appassionato non sa distaccarsi; l’uomo debole soffre con dispiacere la sua catena; il politico per convenienza sta saldo. L’amante di sè stesso la pianta a drittura. Dicono alcuni: per una sì fatta ragione l’Amante di sè stesso non dovria maritarsi, temendo la noia di una indissolubil catena. Dirò a tal proposito, che così pensa chi ama veramente sè stesso, ma all’incontro il mio Protagonista ha tante prove di virtù, di fedeltà, di amore della sua Bella, che si reputerebbe infelice a perderla, e per amor proprio la sposa. [p. 438 modifica]

Io non so, se queste ragioni basteranno a persuadere chi legge; ma in ogni caso si persuada col voto comune degli ascoltanti, che fece festa grandissima ad una tale Commedia. Io la scrissi a Colorno, villeggiatura amenissima del Serenissimo Reale Infante Padrone2, e mi ricordo che nei bollori di un ardentissimo Luglio, fra il caldo e il sudore, mi divertì infinitamente lo scriverla, e tanta facilità vi trovai, e tanta dilettazione, che in otto giorni la ridussi al fine. In Settembre la posi io stesso in iscena a Milano, e tanto ebbe incontro in quel magnifico sontuoso Teatro, che a voce comune fu domandata la replica, e quattro volte in pochi giorni fu replicata. Bella consolazione, Lettor carissimo, per un Autore, allorchè vede le Opere sue dall’universale aggradite! Bella cosa sentirsi dire: Bravo! me ne consolo! che bella Commedia! È un capo d’opera. Non si può far di più. Ed è bello ancora il vedere alcuni malcontenti, o per invidia, o per costume, lodarla a mezza bocca, dirne bene in faccia all’Autore, e far d’occhio al compagno, e in mezzo alle lodi far nascere l’obbietto, la critica, o la derisione. Io li ringrazio assaissimo, poichè mentre mi tartassano una Commedia, mi somministrano l’argomento d’un’altra.

  1. Questa prefazione fu stampata in testa alla commedia, nel t. VI (1760) dell’ed. Pitteri di Venezia.
  2. Filippo V di Borbone, duca di Parma e Piacenza. Vedasi a pag. 15 del presente volume.