L'innamorata/Parte prima/III

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Parte prima - III

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La vigilia di Natale, verso le otto di sera, Leona, appoggiata al braccio di Paolo, scendeva per via Toledo, un po’ stordita dal gran viavai della gente e della gazzarra che facevano i venditori ambulanti, quelli davanti le bancarelle piantate sull’orlo del marciapiede, quelli ritti sulle soglie delle botteghe. Era un rombo, un tumulto, un crescente fracasso d’animazione universale. Tutti i negozi scintillavano: nelle vetrine dei salumai si ammonticchiavano sul davanti intere lingue affumicate, interminabili nodi di sanguinacci paonazzi, fette enormi di galantina, sul cui mosaico bianco, verde, nero, rossiccio, tremolavano cerchi di gelatina luminosa e giallognola, prosciutti crudi e prosciutti cotti, zamponi di Modena, budini di Milano, soppressate di Sicilia. Dietro sorgevano castella di formaggi: il gorgonzola venato come un bel marmo antico, lo stracchino morbido come il burro, il formaggio d’Olanda in grosse palle vinose, le larghe fette butterate del gruiera, le forme del cacio romano e sardo, del pecorino, del formaggio di Cotrone. Ai lati si ergevano pile di scatole di sardine, di vasi di olive di Spagna, di scatole di tonno sott’olio, di gamberi e di aragoste in conserva, di salmone e di caviale.

Più avanti, gettando uno sguardo su una bancarella di giocattoli, Leona vedeva confusamente pulcinelli vestiti di rosso, di bianco, di giallo, di turchino, con le cinture di carta dorata, la maschera nera e il naso ricurvo come il becco di un pappagallo; orologi e catene di metallo; cavalli di legno dalle criniere di stoffa o di bambagia, sciabole, fucili, tamburi, soldatini di piombo e di legno, palle di gomma elastica grosse, mezzane, piccine di ogni colore, di tutti i colori insieme. E una voce lunga e nasale si levava: - Pe’ piccerille! pe’ piccerille!...

Leona aveva ogni momento dei gesti e dei gridi fanciulleschi di ammirazione, che facevano ridere Paolo, benché ne avesse poca voglia. Giusto quel giorno egli aveva ricevuta una lettera di un suo creditore, il quale gli annunciava che la sua signora madre aveva ricusato di pagare una cambiale firmata da lui: il creditore dava due giorni di tempo prima di fare il protesto. Ma quella Leona era tanto curiosa! Si fermava come incantata davanti a una pupattola che poteva costare mezza lira; diventava rossa dall’entusiasmo per una frusta col fischietto da pochi soldi. Una bambina, una vera bambina! Dalle vetrine dei dolcieri, poi, non si sarebbe staccata mai. Quei larghi pasticci a ghirigori e a disegni colorati, quelle paste leggere e trasparenti, di un bel colore d’oro, quei marroni canditi nei panierini di carta pieghettata, quelle chicche verdi, gialle, nere di cioccolatte, color rosa, color di arancio, color fragola, quelle larghe fette di cocuzzata le facevano venire l’acquolina in bocca. A lasciarla fare, avrebbe riportato a casa dei monti di roba.

- Ma che ne vuoi fare? - le domandava l’amante - ne abbiamo tanta a casa della roba da mangiare!

- Sì? - diceva lei, seguitando a guardare da un lato nelle vetrine. Sulle botteghe dei fruttivendoli erano ceste di insalata, canestri di pere, di mele, di finocchi, di aranci, di mandarini; casse coperte di frutta secca, castagne, noci, nocciole, mandorle, susine secche, fichi secchi, uva passa, e poi datteri a grappoli, melloni d’inverno, grandi ananassi maturi che spargevano intorno fragranza di fiori. E dall’altro lato del marciapiede, davanti a tre lumi a petrolio che fumigavano al vento, luccicavano appese caffettiere, padelle, posate, secchi, grattuge, marmitte; e lo stagnino, ritto in piedi, la pipa in bocca, gridava ogni minuto: - Sei soldi, sei soldi a scelta, sei soldi! - E la folla, sui marciapiedi, in mezzo alla strada, sugli sbocchi dei vicoli cresceva, cresceva sempre. Passavano signori con grandi fagotti sotto il braccio o fra le braccia; donne con il cappellino, o in capelli, un involto in ciascuna mano; bambini con in bocca trombette onde uscivano suoni striduli e rauchi; artieri con un pesce fresco o una cartata di frittura nel pugno levato in alto; e correvano, si urtavano, schiamazzavano, senza voltarsi. Negli occhi di tutti brillava una luce viva e straordinaria: era un ardore febbrile di arrivare presto a casa, di trovarsi in famiglia, davanti la tavola apparecchiata; di rifarsi, in quella notte di scialo, di tutte le miserie, di tutte le privazioni, di tutti i dolori di un’intera annata.

Pian pianino, i due amanti passarono davanti il caffè d’Europa, illuminato e pieno di gente; si lasciarono dietro la via di Chiaia; giunsero in piazza del Plebiscito, vasta e deserta, e per una leggera salita si avviarono a casa. Di lontano, videro sul loro portone una donna che pareva aspettare; Paolo aguzzò gli occhi per vederci meglio: la donna muoveva incontro loro. Sotto la luce del fanale, Leona la riconobbe; diede un grido, si staccò dal braccio dell’amante, e le corse incontro a braccia aperte, esclamando:

- Amalia! tu qui?

Paolo guardò codesta Amalia. Era una ragazza magra, gli occhi fuori del capo, il cappellino di traverso sui capelli scarmigliati, tutta avvolta in un lungo mantello di panno ordinario orlato sul collo e alle maniche di una pelliccia spelacchiata.

Amalia era una compagna d’arte di Leona: nella compagnia faceva degli esercizi sul trapezio. Raccontò in breve che il direttore, finita la stagione di Roma, aveva sciolto la compagnia: lei non aveva trovato scrittura, ed era venuta a Napoli, sapendo che c’era la sua amica Leona.

- Ho detto fra me: se Leona è ricca - te lo meriti, oh questo sì: - e volgendosi a Paolo - creda, signore, che se lo merita: un fiore, un vero fiore! - dunque, se è ricca lei, non vuol dire che sia diventata di cuore duro, come tante che conosco io, che quando riescono a trovare il merlo che le mantenga - scusi, sa, non dico per lei - mettono su muffa, e non rispondono neanche al saluto delle colleghe.

Il conte, che era rimasto ad ascoltare, con mal represso fastidio, tutto questo sproloquio, alla fine fece un passo avanti e, squadrando dall’alto in basso la nuova venuta, le domandò seccamente:

- Scusi, ma lei chi è?

- O bella! - esclamò colei rivolgendosi a Leona - mi domanda chi sono? Sono l’amica di Leona, sono: tu mi conosci, eh? non è vero che mi conosci? E sono una donna onesta, sa, io: oh per quello non dubiti! Informazioni, quante ne vuole! Povera, non vuol dire: la nascita è un caso, lei me lo insegna...

- Probrecita... ha ragione! - mormorava intanto Leona all’orecchio di Paolo, il quale guardava in aria masticando il suo sigaro, e diventava ogni momento più pallido. E, senza neppure interrogare il suo amico:

- Perché non vieni su a cenare con noi? - disse ad Amalia.

- Magari! - rispose l’Amalia con un accento che veniva dal cuore. E senza farsi tanto pregare, prese Leona sotto il braccio e, saltellando come una capra, infilò le scale.

Paolo, rimasto sulla porta, stette un momento a guardare il cielo formicolante di stelle e ad ascoltare il rumore vago e confuso della città circostante. Doveva salire in casa, o andarsene a cenare in trattoria? Una nausea invincibile gli sorgeva nel cuore, e gli contaminava il suo bel sogno d’amore, tutti i piaceri goduti in quei mesi, perfino l’immagine della sua diletta. Ma come? egli doveva tollerare che la sua casa diventasse il ritrovo di saltimbanchi, che vi entravano senza neppure domandargli il permesso? E a quell’idea tutto il suo sangue aristocratico gli ribolliva nelle vene, e un amaro sogghigno gli veniva alle labbra.

- E poi - pensava - quella ragazza lì non può amarmi. È buona, sì; è piena di cuore; ma ha gusti, ha istinti troppo diversi dai miei. Come quella sera a San Carlino. Io avevo un bel rodermi: lei se la godeva. È inutile: la natura è più forte di noi. Ecco, lei adesso è felice di rimestare con quella sgualdrina le memorie del Circo! E dire che io mi sono indebitato fino agli occhi per lei! Mah! ha ragione mia madre: sono un ragazzo e un matto!

Si era tirato su la pelliccia, e già metteva il piede in strada, quando udì per le scale un fracasso. Si fermò un momento, e vide Leona, e dietro Leona l’Amalia, e dietro l’Amalia la cameriera.

- Ebbene, chico, perché non vieni? - gridò sinceramente meravigliata la Leona.

- Se è per me che fa questi musi, io levo l’incomodo! - strillava l’Amalia con la voce agra e petulante.

- Signorino, siate buono, salite: la cena è in tavola - supplicava Marianna.

Per evitare spiegazioni, il conte Paolo, ringoiando le lacrime di dispetto che gli salivano alla gola, si avviò verso la scala, senza guardare nessuno. La Leona capì che ci doveva essere del torbido, gli si attaccò al braccio, e gli disse piano:

- Perché, niño mio, vuoi farmi pena stasera? Che ti ha fatto la tua povera Leona? Perché ho invitato l’Amalia? Ma quella creatura non mangiava da ventiquattr’ore! Che ti fa a te che venga a pigliare un boccone da noi? È un’opera di misericordia alla fine. Via, non farmi il broncino, niño mio! Come potevo negare un pezzo di pane a quella disgraziata stasera? Tu lo sai! io non sono fatta per certe parti!...

- Potevi darle dei denari e mandarla via - brontolò Paolo, che si sentiva svaporare la collera a quel discorso, che in fondo gli dimostrava il buon cuore della ragazza.

- Ma se non ne ho avuto il tempo! se mi ha presa d’assalto, prima che potessi riflettere! Via, niño, sii buono... Te amo tanto yo! Un po’ di pietà alla fine, por tu pobre querida...

- Andiamo! andiamo! - disse Paolo, un po’ calmato, buttando il mozzicone di sigaro sul pianerottolo, ed entrando in casa. L’Amalia, come nulla fosse, veniva dietro ciarlando a bassa voce con Marianna la cameriera.

Il conte Paolo, ancora molto giovane, di temperamento fantastico e debole, mentre si esagerava troppo ogni impressione esterna, grata o sgradevole, non durava poi molta fatica a lasciarsi sviare dai proponimenti fatti in quel primo bollore dell’affetto; e al più si contentava di covar segretamente la sua stizza, accresciuta per di più del dispetto contro se stesso, per la propria dappocaggine. Così quella sera, egli sedette a tavola, ma con tanto di viso lungo, con le due donne: le quali, del resto, l’una, Amalia, per calcolo, l’altra Leona, per ingenuità, non se ne dettero per intese; e seguitarono a ragionare e a ridere fra loro come se lui neanche ci fosse. Leona domandava notizie delle compagne, a bocca piena, in un gergo volgare, dando rilievo ai particolari più crudi con quel suo riso secco e acuto e quella sua voce arrochita dal vizio.

- E la Cesira?

- Ah quella lì, mica bestia! La sa lunga, lei! Tu ti ricordi, eh, quel vecchio macaco che veniva da Genova, ogni settimana, per vederla? Quando lei fiutò che l’uomo era stracco, senti che la ti fa... Scusi, veh, se mi verso ancora un bicchiere di vino; ma l’è bonino sai, parola d’onore - soggiunse, forbendosi la bocca con il dorso della mano.

- È Borgogna! - disse Leona, ridendo.

- Borgogna? ci trattiamo bene - fece l’altra, con gli occhi lustri, ammiccando silenziosamente a Paolo, che se ne stava in disparte. E, ripigliando il suo racconto.

- Dunque sta a sentire - esclamò. - Lei già, tu lo sai meglio di me, brutta come il peccato, ha avuto sempre fortuna. Eh, nascere, cara mia! Basta. Dunque, una sera l’amico viene in casa. Si mettono a tavola, mangiano e bevono come, con rispetto parlando, due porci; poi a letto. Nel meglio, bum! bum! bum! alla porta. Che è, che non è, lei salta a sedere sul letto, si mette le mani nei capelli, e dice: - Mio marito. - Sai, Tonio, quello dei cani ammaestrati: vivono assieme da due anni, e se ne danno, se ne danno... Basta, entra Tonio. Il genovese, mezzo morto dallo spavento, si caccia, in camicia com’era, sotto il letto. Tonio, freddo, lo tira fuori per un braccio - tu sai se è forte quel diavolo! - lo mette a sedere sopra una sedia davanti al tavolino, e cava di tasca una cambiale e un coltellaccio. L’altro tremava come una foglia. Gli dice: - Niente paura, caro lei! Ha violato il mio domicilio coniugale; lo potrei scannare come un coniglio, che non lo pagherei un soldo: se vuole uscire vivo di qui, da bravo, mi firmi questa cambiale. - Il poveraccio firmò diecimila lire! -

- Che brigante, però! - disse Leona.

- Brigante quanto tu vuoi: ora se ne stanno a Milano, e fanno i signori.

- E di David ne sai nulla? - domandò curiosamente Leona.

- Ah! ah! - fece l’altra ridendo maliziosamente - volevo dire io che non mi domandavi di David. Di’ la verità: tu hai sempre avuto un debole per quello lì...

- Ma sei matta! sta zitta! - mormorò Leona volgendo rapidamente un’occhiata su Paolo, che era diventato livido.

- Bel giovane, veh! oh, per quello! Ho del gusto, io. David? Quando si sciolse la compagnia entrò come primo cocchiere in casa di una vecchia russa, la contessa Libumiski, Labrumiski, so nulla io? che, dice, i cocchieri giovani li tiene in palma di mano.

A questo punto, Paolo si levò e, senza dire una parola, uscì dalla stanza. Leona mosse incontro all’amica, i pugni alzati, bianca dalla collera, e le disse stringendo i denti in uno di quei suoi scatti terribili:

- Va via! va via! o ti rompo il grugno!

- Ohè! ohè! - disse l’altra, dando indietro come poteva, sulle gambe che la reggevano a fatica.

- Va via! va via! - seguitava Leona, sempre più inferocita.

- Ma che ti piglia? diventi matta! - rispose balbettando l’Amalia, che non intendeva se non confusamente, tra i vapori del vino, la ragione di quel congedo così brusco.

- Va via!... va via!

L’Amalia uscì barcollando. Ma quando fu sulla porta della scala, non poté più frenare la lingua, e gridò a squarciagola:

- Già tutte compagne, pidocchi rifatti!

Leona colse il suono, non il senso di quelle parole. E corse in camera da letto per trovare Paolo; non c’era. Attraversò il salotto, cercò nella sala da fumo, passò nella sala da bagno, si slanciò nell’anticamera: non c’era, non c’era! Chiese a Marianna:

- Dov’è il signore?

- È uscito - rispose la cameriera.

- Quando?

- Poco prima di quella signora.

- Pobre, pobre de mi! - mormorò la ragazza, palpandosi con le mani le tempie, e fissando al suolo gli occhi largamente aperti come quelli di una pazza. Si riscosse, si mise in fretta la pelliccia e il cappello, e mosse verso la porta.

- Che fate, signorina, che fate! - le gridò dietro Marianna.

Leona non rispose; aprì la porta e si precipitò per le scale. In pochi minuti si ritrovò sulla piazza del Plebiscito: soffiava un brezzone acuto che tagliava la faccia. Andò avanti: si fermò davanti al caffè d’Europa e per i vetri appannati guardò se egli ci fosse. Il caffè era spopolato: solo tre o quattro signori, nella gran luce cruda, sorbivano lentamente una bevanda calda. Uno di loro le fece un gesto e un sorriso: ella trasalì, e guardò più attentamente: non era lui. Il signore si alzava: ella, invasa dalla paura, fuggì. Dietro a lei un venditore di giornali gridava in tono lamentoso e nasale, come se ripetesse qualche preghiera:

- O pungolo! O piccolo!

Ella risalì via Toledo, di fretta, tra le bancarelle ancora rimaste in piedi e le poche botteghe ancora aperte, senza guardare nessuno, senza vedere nessuno. Si trovò al largo della Carità, dove la statua di Carlo Poerio pareva vigilare nell’ombra: due o tre passanti si fermarono, la guardarono, poi le tennero dietro per un poco: quando si accorsero che fuggiva, scrollarono le spalle e tornarono indietro. Ella correva, correva, senza prendere fiato: ogni tanto si guardava attorno, se vedeva degli uomini, senza fermarsi. Una volta le parve di riconoscere Paolo: il cuore le diede un balzo; corse diritta a quell’uomo, che si fermò, e le disse:

- Buona sera, carina!

Non era lui: fuggì. L’uomo rimase trasecolato. Quando ella si trovò in piazza Dante, quasi deserta, si fermò ansante, e bisognò che si appoggiasse con le spalle a un chiosco chiuso. Si mise la mano sul cuore, e pensò: - Che fare? che fare? come ritrovarlo, a quell’ora? Oh Signore! e se egli non fosse tornato mai più? - Delle lacrime cocenti le gonfiarono gli occhi. Ora il freddo le raggricciava la pelle e le penetrava nelle ossa. Se avesse almeno potuto indovinare dove egli si trovava! Forse in un caffè, forse in un albergo, forse in giro, per la città, per quella oscura città sterminata. Disse fra sé con fervore devoto, giungendo le mani: - Dio mio! fatemelo trovare... - E improvvisamente le venne un’ispirazione, di quelle che parrebbero meravigliose a qualcuno, se non fosse accaduto a tutti di averne. Soggiunse riconfortata: - Deve essere tornato in casa. - Si accostò a una vettura pubblica, i cui fanali gialli languivano fra una nebbia sottile: il vetturino, avvolto in un gran pastrano, dormicchiava in serpa. Salì in vettura, e gli gridò l’indirizzo di casa sua. La vettura partì.

Dopo qualche minuto, ella si ritrovò davanti al portone. Suonò, reprimendo a stento i battiti del cuore; Marianna venne ad aprire, e le disse subito, a bassa voce:

- È tornato, è tornato. Benedetta voi: perché siete uscita?

Leona non rispose, e si avviò diritta in camera. Alzò la portiera, vide Paolo seduto su una poltrona ai piedi del letto e, senza neanche levarsi il cappellino, corse e gli si gettò ai piedi, singhiozzando come una disperata.

Il giovane, che non si aspettava quella uscita, rimase un po’ interdetto. Ma riacquistò subito il suo sangue freddo, e mettendo la mano sulla testa di Leona che gliela aveva appoggiata sui ginocchi, le domandò dolcemente:

- Che hai? perché piangi?

- Piango... piango... - rispose lei stentando a profferire la sillaba - perché tu te ne sei andato.

- Me ne sono andato, sicuro: non volevo mica stare ad ascoltare la storia delle tue tenerezze con i tuoi compagni del Circo rispose il giovane amaramente.

- Non è vero: non è vero! quella donna era ubriaca! - gridò la ragazza, levando la faccia tra le lacrime.

- Sarà - disse Paolo con aria incredula.

- Ah, tu non mi credi! - disse la donna piangendo più forte e torcendosi le mani - e pure tu lo sai - soggiunse, levando in atto di amore e di rimprovero, i begli occhi neri sul suo amante - e pure tu lo sai, lo sai, che non sono stata mai di altri che tua!

Il suono e il senso di quelle parole, l’accento stesso con cui erano dette, disarmarono Paolo, che rivide nella memoria le prime ore di ebbrezza passate, in quel suo appartamentino di via delle Quattro Fontane, con lei, paurosa e tremante fra le sue braccia. Ogni ira cadde; rialzò la fanciulla, che singhiozzava ancora, se la tirò a sedere sulle ginocchia, la circondò delle braccia e cominciò a baciarla pianamente e a consolarla.

- Via, andiamo, non fare la bambina! Sì, lo confesso, ho avuto torto di dar retta per un momento ai discorsi di quella sgualdrina; ma anche tu, perché hai voluto che rimanesse a cena con noi? È della gentaglia, quella: meno la si tratta, meglio è.

- Ma io l’ho fatto per troppo buon cuore! - insisteva Leona.

- Buon cuore o altro, tu sai che qui, in casa mia, comando io - ripigliò Paolo con fermezza indulgente - e prima di fare qualunque cosa, bisogna interrogare me.

- Non lo farò più - seguitava a gridare lei, con l’accento di una bambina colta in fallo - quando ti giuro che non lo farò più.

Intanto Paolo le aveva preso fra le mani la bella testa onde il cappellino era caduto sul tappeto, e le metteva baci sugli occhi, sui capelli, sul collo, sulla bocca, dappertutto. Quelle lacrime, quel viso tutto rosso e languente, quella commozione onde ella vibrava ancora tutta, eccitavano stranamente i sensi del giovane; il quale, a mano a mano che si accendeva, dimenticava il recente litigio per le ore di acuto piacere che già pregustava con il desiderio.

Suonò il campanello elettrico. Comparve Marianna, la quale, vedendo la signorina sulle ginocchia del signorino, sorrise.

- Porta dei dolci, delle frutta, dello sciampagna; metti ogni cosa su quel tavolincino; poi accendi il fuoco nel camino e vattene a letto.

La donna eseguì in fretta gli ordini ricevuti. Una bella fiammata riscaldò la camera parata di seta celeste, dalle portiere celesti, dalle tende celesti davanti alle finestre, dal tappeto alto di felpa celeste per terra. Un grande specchio teneva tutta una parete, riproducendo, fra due leggeri armadi laccati di bianco e dorati, una mirabile copia del gruppo di Amore e Psiche del Canova. Delle ottomane larghe e profonde, ricoperte di damasco azzurro, ricorrevano lunge le pareti attorno il letto che si levava a foggia di conchiglia, sotto un baldacchino stilizzato alla Luigi XIV, nell’alcova, e dipinto in giro di Ninfe e di Satiri, da quel decoratore squisito che fu il secentista Giovanni Lanfranco.

Una gran pelle bianca, dalle lunghe ciocche setose di capra di Mongolia, era distesa ai piedi del letto. Sui bracciali di una sedia pendeva un lungo paio di calze ricamate: delle babbucce rosse trapunte d’oro ammiccavano presso il letto, nell’ombra. Sul marmo di un cassettone, pure laccato di bianco e dorato, degli anelli, dei diamanti, delle pietre di valore scintillavano in una coppa di cristallo di rocca: un odore vago di essenze impregnava l’aria.

Prima di ritirarsi, la buona Marianna disse con accento materna: - E buona notte di Natale ai signori! - Grazie - risposero insieme i due giovani: la cameriera disparve, la portiera pesante si abbassò: rimasero soli e abbracciati, davanti il tavolincino coperto di bottiglie e di dolci.

Leona era invasa da un vago stupore sonnolento, dopo l’angoscia di quelle ore: un singulto, di quando in quando, le scuoteva ancora il petto. Mangiucchiò qualcosa, sempre di magro, perché scrupolosa com’era in fatto di pratiche religiose, non aveva voluto trasgredire il precetto di non mangiare carne, di vigilia; bevve una coppa di sciampagna, lentamente, debolmente, a piccoli sorsi, come una malata. Paolo, intanto, le baciava gli occhi e le mani, le preparava i bocconcini più ghiotti, le diceva piano all’orecchio:

- Mi vuoi bene?

- Sì - rispondeva lei languidamente.

- Quanto?

- Mucho.

- No, è poco.

- Todo - soggiungeva lei sorridendo, e scrutandolo dolcemente di sotto in su, tra i capelli neri che le si erano arruffati sugli occhi.

Egli la guardava, e un senso di tenerezza infinita l’invadeva tutto. Era così piccola, così sola nel mondo! che avrebbe fatto senza di lui? Certo, non aveva un’educazione raffinata: ma che colpa ne aveva lei, poverina? Del resto, non le era piaciuta così, non l’aveva conosciuta prima di prenderla? Che cosa si aspettava? che venuta in casa sua avesse a trasformarsi di botto in una principessa del sangue? Era bella, era anche onesta: che importava se qualche volta si dimostrava un po’ triviale? Doveva pensarci lui a raggentilirla.

In queste meditazioni seguitava a carezzarla: le ravviava i capelli, la baciava piano sull’orecchio; le poneva la testa sul seno, silenziosamente. Ella gli disse:

- Giurami che non mi lascerai più, mai più.

- Lo giuro - rispose Paolo.

Allora ella gli mise le braccia attorno al collo, e gli diede un gran bacio sulla bocca. Egli ebbe un fremito, e si avviticchiò, tutto, vibrando, al corpo di lei. Ma come ella gli vide luccicar gli occhi di desiderio, si alzò, e protendendo le mani, gli comandò dolcemente:

- No, non si può!

- Perché non si può? - fece lui con voce bassa, un po’ arrantolata.

- Porque es la Noche Buena!

Egli non seppe tenersi dal ridere. Dove diavolo mai andava a cacciarsi la religione! La ragazza soggiunse, esitando e arrossendo:

- È anche troppo che, una notte come questa, siamo in peccato mortale.

Il pensiero del matrimonio, che balenò a quelle parole nella mente del giovane, gli produsse un senso invincibile di paura e di ripugnanza. Egli non aveva riflettuto mai a questo: ora, l’idea che ella ci riflettesse, gli produsse, insieme a un grande imbarazzo, un’improvvisa freddezza. Che quella donna non fosse la grande innocente che egli si era immaginato fino allora?

Oh, ma se calcolava su quello, aveva fatto molto male i suoi conti!

Leona gli dovette leggere in viso ciò che accadeva nel cuore di lui, perché riprese con voce triste, ma ferma:

- Non parlavo di te, io! non sei tu che devi rendere conto a Dio del nostro peccato. Tu non puoi fare altrimenti: lo sapevo, lo so. Tu non mi devi sposare - soggiunse più piano, come se si vergognasse di profferire quella parola.

Paolo, debole come al solito, ma non cattivo, rimase male a quella dichiarazione tanto più onesta del suo silenzio. Non sapendo che cosa rispondere, cercò di sviare il discorso. Disse, un po’ burberamente:

- E allora che cosa facciamo?

- Se vuoi essere gentile - rispose la donna - conducimi alla messa di mezzanotte.

Egli fece con la spalla un gesto di dispettoso consentimento; l’aiutò a rimettersi la pelliccia e il cappellino; poi egli pure si mise il cappello, prese il bastone e le chiavi di casa, spense i lumi, e uscirono. La scala era buia. Paolo provò la sensazione, per la prima volta in quella casa, di uscire da un albergo, di nascosto del padrone, con una donna raccattata per via.

Aprì la porta di strada, e si trovarono all’aria aperta. Era un freddo acuto: in alto, nel cielo vasto e profondo, le stelle scintillavano, pure e innumerabili. Egli offrì il braccio a Leona, che vi si appoggiò mollemente. Una campana lontana chiamava i fedeli alla messa di mezzanotte.