La lanterna di Diogene/VI
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VI.
Il signor Capitano.
Oltre al postino, oltre a paron Jusèf — vecchie conoscenze — ho salutato con piacere Pirùzz e ho invidiato la sua vita.
Egli si leva prima del dì, e pensa — come un uomo primitivo — a procurarsi la vita con le sue mani. Caccia o pesca secondo la stagione ed il tempo. Ha sempre fatto così, e in conseguenza conosce tutte le abitudini dei pesci da spiaggia, ripete d’incanto tutte le voci degli uccelli. Le ante della sua botteguccia di tabaccaio cantano al sole dalle infinite gabbiette.
Questa abitudine di convivere con le bestie, gli ha conferito un’indole molto allegra.
Ritorna a casa, si siede su d’uno sgabelletto all’aperto e lì sventra in tutta pace rane, bisatti; spela spippole, farlotti; li monda, risciacqua poi, accende la stipa; trae religiosamente da una credenza antica l’ampollina dell’olio e il bussolotto, ben chiuso, del pepe e cuoce. Si vanta d’essere un «cuoco finito».
Certo è che con quelle due gocce d’olio e quel pizzico d’aroma opera a meraviglia, o su la teglia, o sul testo, o in graticola. Evidentemente egli non conosce soltanto la vita, ma anche la morte degli animali. Cotto, il cibo è versato in un’unica scodella, completata da due forchette: la scodella è posta su d’un tavolinuccio zoppo; ad un lato lui, di fronte siede la moglie Placidia, la cui prosperità contrasta col nome bizantino.
Mi domandano se voglio favorire. Ma io non voglio favorire la vostra colazione; io vorrei favorire la vostra placida lietezza coniugale. Senza tovaglia, un piatto unico di coccio, due forcine di stagno! Ecco il segreto per non far volare le stoviglie su la mensa coniugale.
— Piruzz, via, andiamo a bere un bicchiere dall’oste!
Lo conduco a stento.
— Ma perchè?
Crolla il capo, poi dice: — Veda, dopo mi viene troppo vigore. E mo’ vera, Placidia?
Quando fummo dall’oste — e Placidia non c’era — si morse l’indice ripiegato, e sospirò un «Eh!» comicissimo, rivolto al Signore. Io scoppiai dal ridere.
— Alla vostra età, Piruzzo? Vergogna!
— Ma io non me ne accorgo mica d’avere sessant’anni! È che queste... donne vogliono vedere la bella gioventù!
Evidentemente — io pensavo — al tempo dei trogloditi non usavano pomate per la calvizie, non usavano stimolanti. Si dirà: Perchè non c’era il progresso!
Ma no; perchè non c’era di bisogno!
Più giustamente osservava Piruzz: — Guai, veda, se il contadinaccio dovesse bere vino e mangiar carne tutti i giorni! Non si salverebbe nessuno.
*
Con piacere anche maggiore ho riveduto il signor conte, ex-capitano dei granatieri. Egli appartiene ad una piccola compagnia — gente che viene qui per l’estate — la quale fa circolo al mattino attorno al deschetto del calzolaio della borgata: circolo aristocratico, perchè c’è anche un marchese. Ma in Romagna la nobiltà ha costumanze alquanto diverse.
Io amo di stare vicino al signor capitano non soltanto perchè è una garbata persona, ma anche perchè produce un effetto refrigerante, con l’immacolato e profumato candore delle sue vesti.
Da molti anni ha abbandonato il servizio militare, e il periodo avventuroso della sua vita cadde in quel tempo in cui gli ufficiali portavano le gambe imprigionate da calzoni a maglia?
Egli sin da allora prediceva il tempo della libertà per le gambe entro calzoni razionali, e ne dava l’esempio.
Ma quei calzoni venivano considerati dai superiori come un esempio non di razionalità ma di strafottenza.
A quel tempo non esisteva nell’esercito la propaganda anti-militarista e perciò gli indumenti ipertrofici del signor conte avevano l’onore di essere considerati con più importanza che non meritassero.
Eccettuato l’affare dei calzoni, il signor conte serba il più gradito ricordo della milizia.
Divenuto cittadino libero, egli è rimasto fedele ai suoi calzoni, ed io non posso pensare a lui senza avere davanti agli occhi un barbaglio refrigerante di tele candide e finissime, dal soave profumo, sostenute da calze ciclistiche di seta nera e scarpette lucidissime.
Da quella candidezza di vestimenta viene fuori un faccione bonario, arsiccio, che non sarebbe stato brutto se la natura l’avesse ritoccato e raddrizzato; invece se ne dimenticò e lo piantò lì, appena abbozzato. Una densa capigliatura, quasi bianca, contrastando con due corti, puntuti, ispidi baffi rimasti quasi neri, appiccicati nello spazio, grande, che divide il naso dal labbro, mi porge l’illusione di una di quelle parrucche con cui sono rappresentati i granatieri del Piemonte Reale nel secolo XVIII. È scapolo; ma gode di tutti i vantaggi della famiglia — convivendo a suo modo — con la famiglia del fratello, gentiluomo campagnuolo, cara persona anche lui.
La pratica della bicicletta, di cui fece conoscenza soltanto in questi ultimi anni, ha segnato il colmo della sua felicità di abitare in questo mondo.
Non si creda però che il signor conte sia una folgore della bicicletta. No, la sua bicicletta va molto blanda e spaventa solo col fragore della tromba la quale è della proporzione del berretto e delle braghe.
Questo entusiasta del ciclismo ha sempre rifiutato le proposte di piccole gite, con scuse di dubbia fede.
Ciò mi ha fatto molto meraviglia, ed ho cercato di scoprire la cagione.
Eccola quale il signor conte mi fece capire: appena i pori del suo corpo cominciano a traspirare, egli sente imperioso il bisogno di copiose abluzioni, il suo passo, quindi, è regolato sulla secrezione sudorifera dei pori: ora, dato il calore del luglio e il polverone delle vie, egli si trova ridotto alla quasi immobilità.
Però un giorno che un grande acquazzone avea rinfrescato l’aria e spento la polvere, vedo il signor capitano di ritorno in bicicletta.
«Ma questo è un carro bagagli» — dissi fra me vedendolo arrivare, e arrivava dolcemente, ma con cupo rombo del corno. Egli aveva non soltanto la borsa fra il telaio, ma su la ruota posteriore un suggesto, carico di roba.
— Vengo da X...., — esclamò festosamente da lungi, alzando la mano e cessando dal premere il corno: indi come fu disceso, disse: — Ventiquattro chilometri fatti splendidamente: non abbiamo avuto una panna! Le pare ancora un poco grave? — aggiunse, scrutando con occhio strategico la sua bicicletta.
— Io direi, — risposi.
— Eppure è ridotto ai minimi termini.
— E lei intende con questo bagaglio di recarsi a Parigi?
— Certamente. La partenza è stabilita con data improrogabile la primavera ventura. Ora sto allenandomi.
La visita a Parigi è necessaria al completamento della sua vita. Un mussulmano non muore in pace se non ha adorato la Mecca: un archeologo se non ha visitato Atene. Per il signor capitano Parigi è la Mecca e l’Atene di quell’amabile galanteria in cui trascorse la sua giovinezza rumorosa e serena. Ma non si pensi male, non si creda che malsani e inverecondi desideri allignino in lui: la sua gioventù fu ben consumata, come il suo vistoso patrimonio fu ben assottigliato. Ora che i capelli sono bianchi, egli è diventato semplicemente un erudito, un antiquario — ma un antiquario sereno e filosofo — della galanteria.
Nella stanza silenziosa e grande della sua villa, egli colleziona, trascrive, compulsa i documenti delle donne che furono famose nell’esercizio della galanteria aristocratica.
Un dotto, seguace del metodo storico, può essere premiato in un concorso del ministero della Pubblica Istruzione se colleziona una serie di documenti inediti, poniamo intorno ad Elena, moglie di Menelao. Il signor conte — unicamente per suo diletto e senza vista ambiziosa — collezionava i documenti, invece che su le «donne antique», su le donne contemporanee.
Aveva cimeli, codici, autografi di gran valore.
Siccome però in casa c’erano delle nipotine, già giovanette, così egli possedeva una chiave segreta della sua biblioteca da sfidare ogni curiosità.
Le conversazioni su gli studi archeologici del signor conte erano del più alto diletto e sommamente istruttive per la serenità filosofica da cui erano improntate.
Ho potuto constatare che egli non aveva letto le opere lombrosiane intorno alla natura del genio: eppure — se avesse avuto piena coscienza del valore de’ suoi studi — avrebbe potuto aggiungere un capitolo ragguardevole alla psico-fisica del genio; includendovi la genialità della donna. La galanteria era la forma con cui si manifestava la genialità della donna. Esistono peculiari stigmate somatiche del genio della donna, come per il genio dell’uomo. Il genio-maschio può svilupparsi in ogni classe sociale, così il genio-femmina: v’è la duchessa che diventa zingara, come v’è la zingara che diventa duchessa. Il genio-maschio è essenzialmente intuitivo: così il genio-femmina. V’è anche nelle donne la geniale, e la genialoide. Patrimoni saltati per aria, cervelli fatti saltare, straordinari avvenimenti, anche nella politica, sono conseguenza del genio-femmina. Il genio-maschio fa progredire a grandi impulsi la civiltà: il genio-femmina è il propulsore di quasi tutto il lavoro dell’uomo. L’uomo geniale è rivoluzionario; la donna geniale rivoluziona tutte le teorie morali, sconvolge l’ordine delle leggi, disorienta i cervelli e le famiglie.
Si nasce geni. E perciò è spregevole l’uomo che spinge la donna su la carriera della genialità. Il signor conte non ha rimorsi da questo lato: egli ogni volta che vide la donna, circondata dalle nobili spine della virtù, ha fatto il saluto, da lungi!
E gentiluomo compiuto, senza alcuna smanceria senile, rimane coi suoi capelli bianchi.
Distribuisce ai bambini un grande numero di gianduia e di caramelle. — Oh, piccolo tributo, invero, per un individuo che è rimasto esente dal grave peso della paternità!
— Ancora, signor conte, — dissi io, depositario segreto di questi studi, — quella monografia geniale è straordinariamente interessante.
Sarà per un’altra volta.
Guardò l’orologio. — È tardi, — disse, — e devo condurre le mie nipotine alla messa.
Era domenica: e poco dopo passò il calesse del signor conte, che conduceva le belle e buone nipotine alla parrocchia lontana.