La Costa d'Avorio/1. Sulle rive dell'Ousme

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1. Sulle rive dell'Ousme

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2. I misteri delle foreste


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Capitolo I

Sulle rive dell’Ousme

— Ci siamo?...

— Aspetta un po’, amico. Sei impaziente di provare la tua carabina?

— Desidero ardentemente di vedere uno di quei mostruosi animali allo stato libero. Non ne ho veduto finora che dei piccini e nei serragli d’Europa.

— Bada che sono formidabili.

— Con un cacciatore abile quanto sei tu non ho paura, e poi non credo che quelle masse enormi siano tanto leste da gareggiare colle mie gambe.

— T’inganni, Antao. Non sono trascorse due settimane, che un povero minaloto del Gran Popos, spintosi qui a cacciare quegli animalacci, è stato tagliato in due.

— Nè più nè meno d’un biscotto?...

— Non lo credi?...

— Ho i miei dubbi, Alfredo.

— Allora ti dirò, Antao, che quel minaloto era un servo della fattoria del signor Zeinger, quell’ottimo alemanno che abbiamo visitato la scorsa domenica.

— Quel minaloto doveva essere lesto come una lumaca grigia del paese degli Ascianti.

— Tutt’altro, amico mio. Era un gran diavolo di negro, agile come una scimmia, ma l’animalaccio, che era stato solamente ferito, si precipitò sul disgraziato cacciatore e prima che questi potesse giungere alla riva lo tagliò in due.

— Ecco una storia che non aumenta di certo il mio coraggio.

— Vorresti tornare alla mia fattoria? [p. 2 modifica]

— Sì, ma rimorchiando un ippopotamo. Non sono venuto in Africa per farmi divorare vivo dalle zanzare della costa entro una stanza, ma per visitare questi paesi e cacciare i grossi animali.

— E per aprire una fattoria portoghese.

— Non ancora, Alfredo. I miei commerci col Brasile mi hanno fatto abbastanza ricco da permettermi....

— Taci!...

— Un ippopotamo?...

— No... taci!... —

I due uomini che così chiacchieravano, inoltrandosi in mezzo ad una splendida vegetazione equatoriale, che li riparava dagli ultimi ma ancora ardenti raggi del sole, erano allora giunti sulle rive d’un corso d’acqua, largo tre o quattrocento passi ed ingombro d’isolotti coperti d’alte erbe e da gruppi di piccoli banani, dalle larghe foglie d’un verde vivo.

Colui che abbiamo udito chiamare Alfredo, si era bruscamente arrestato, curvandosi verso la sponda che era ingombra di paletuvieri, incrocianti in tutti i sensi i loro rami e le loro radici sporgenti dal fondo del fiume, ed aveva girato all’intorno un rapido ma acuto sguardo; mentre il suo compagno, quantunque ignorasse di che cosa si trattasse, si era levato dalla spalla una corta ma pesante carabina, una di quelle armi usate per la caccia dei grossi animali.

Il primo rimase parecchi secondi immobile, tendendo accuratamente gli orecchi e continuando ad investigare, cogli sguardi, le isolette e la sponda opposta coperta da fitti alberi, poi volgendosi verso Antao, disse:

— Mi sono ingannato di certo.

— Cosa avevi udito?...

— Mi era sembrato d’aver udito un grido che mi ricordava un certo uomo....

— Morto forse su questo fiume?...

— Sarebbe stato meglio che fosse morto allora.

— Ma che storia mi racconti?...

— Parlo d’un uomo che da quattro anni mi fa paura.

— A te!... — esclamò Antao, sorpreso. — Eh! via, tu scherzi, Alfredo. Un uomo che in America si è battuto come un leone e che ora gode fama di essere il più audace cacciatore della Costa d’Avorio, non può aver paura di un uomo. [p. 3 modifica]

— Eppure ti ripeto che ho quasi paura e temo sempre un tradimento. Ecco perchè ho lasciato il mio servo Gamani a vegliare in mezzo alla foresta ed i miei porta-fucili alla fattoria.

— Ma chi è quell’uomo?...

— Un negro.

— Lo si cerca e lo si uccide con una buona fucilata.

— È lontano.

— Si va a trovarlo.

— È potente, Antao.

— Si raccoglie una truppa d’uomini risoluti e lo si va ad assalire.

— Nel Dahomey?...

— Là!... Ecco un nome che fa venire i brividi!... Brutto paese di macellai feroci. Diavolo!... Vorrei conoscere quest’istoria che ti mette indosso tante preoccupazioni.

— Te la racconterò, ma più tardi. Ora pensiamo agli ippopotami. Spero di essermi ingannato su quel grido e che nulla accadrà nella mia fattoria durante la nostra assenza.

— Vi sono i tuoi uomini che vegliano sul tuo nipotino e sulle tue ricchezze.

— Taci: ci siamo. —

Alfredo, che aveva continuato il cammino durante quella conversazione, seguendo sempre la riva destra del fiume, erasi arrestato dinanzi ad un grande albero del cotone, il quale si curvava verso la sponda e sul cui tronco si vedevano parecchie profonde incisioni che parevano fatte da poco tempo.

Il cacciatore l’osservò attentamente come volesse essere certo di non ingannarsi, poi s’inoltrò prudentemente fra i paletuvieri che si arrampicavano confusamente su per la sponda, afferrò una fune che stava legata attorno ad una grossa radice e diede una violenta strappata.

Tosto fra quell’ammasso di rami, di foglie e di radici, si vide avanzarsi uno di quei pesanti canotti scavati nel tronco d’un albero col ferro e col fuoco e colle punte assai aguzze, usati sui fiumi della Costa d’Oro e dell’Avorio.

Alfredo vi balzò dentro invitando il compagno a seguirlo, afferrò due remi dalla larga pala e spinse la pesante imbarcazione nella corrente, dirigendosi verso un isolotto coperto d’una fitta vegetazione che si trovava quasi in mezzo al fiume.

In pochi minuti attraversò la distanza e arenò l’imbarcazione [p. 4 modifica]su di un bassofondo che pareva si collegasse all’isolotto e che impediva d’accostarsi di più a quel brano di terra.

— Bisogna prendere un bagno? — chiese Antao.

— Non vi sono che due palmi d’acqua, — rispose Alfredo.

— Sono almeno sicure le nostre gambe? Mi hanno detto che sull’Ousme i coccodrilli non sono rari.

— È vero, ma non osano assalire gli uomini bianchi e poi a quest’ora dormono. In acqua, amico.

— Una parola ancora. Gli ippopotami non faranno a pezzi la nostra barca?...

— È probabile, se manchiamo ai nostri colpi, ma procureremo di mandare le palle a destinazione. Orsù, in acqua. —

I due cacciatori presero le loro carabine e abbandonarono la imbarcazione, scendendo sul banco.

Alfredo non si era ingannato. Vi era così poca acqua in quel bassofondo, che a malapena toccava i polpacci dei due uomini.

In pochi istanti attraversarono il banco e giunsero sull’isolotto, celandosi fra le folte piante che lo coprivano.

Quel brano di terra situato in mezzo all’Ousme, uno dei più notevoli fiumi della Costa dell’Avorio e che scaricasi nelle paludi di Porto Novo, non misurava più di cinquanta metri di circonferenza ed era così basso, che la più piccola piena doveva coprirlo.

Nondimeno su quell’umido terreno, fertilizzato dagli avanzi vegetali trasportati durante la stagione delle piogge, erano cresciuti rigogliosi bambù altissimi dalle lunghe foglie verdi pallide, mangifere splendide, arbusti acquatici e anche dei mazzi enormi di banani selvatici, i quali rizzavano arditamente le loro lunghe e larghe foglie, talune delle quali misuravano tre o quattro metri.

Alcuni pappagalli grigi vi avevano preso domicilio e schiamazzavano allegramente, spennacchiandosi agli ultimi raggi del sole.

I due cacciatori fecero il giro dell’isolotto per accertarsi che non vi fosse qualcuno di quei piccoli serpenti chiamati dai naturalisti echidni nasicorni, il cui morso è mortale e che sono così numerosi in quelle regioni; poi si sdraiarono sotto la fresca ombra di un gruppo di banani.

— Ed ora, dove sono questi ippopotami? — chiese Antao. — Ho guardato attentamente il fiume e le sue sponde, ma ti confesso che non ho veduto nemmeno un coccodrillo. [p. 5 modifica]

— Manca mezz’ora al tramonto — rispose il cacciatore. — Quando il sole sarà scomparso, li vedrai venire.

— Qui?...

— Sì, Antao. Verranno a saccheggiare questi vegetali.

— Sei certo?...

— Gamani li ha veduti venire per tre notti di seguito.

— Non si mostrano di giorno?

— Dormono in fondo al fiume; sono prudenti, mio caro. Accendi la tua sigaretta e fuma tranquillo come faccio io. —

Il cacciatore aveva levato da una tasca una scatola di sigarette, ne offrì all’amico, ne accese una, poi si accomodò fra le erbe, mettendosi la carabina sulle ginocchia.

Quei due cacciatori, che si avventuravano soli sugli isolotti dell’Ousme ad attendere i mostruosi ippopotami, anche a prima vista si riconoscevano per due persone appartenenti a nazioni diverse, quantunque avessero entrambi la pelle bruna, capelli e occhi nerissimi, distintivi particolari della razza latina.

Colui che abbiamo udito chiamare Alfredo e che sembrava il più pratico di quei luoghi selvaggi e anche il più intrepido cacciatore, era uno di quei tipi che s’incontrano così di frequente nelle regioni dell’Italia meridionale e sulle coste Albanesi.

Era un uomo sulla quarantina, di statura superiore alla media, tutto muscoli e nervi, dal profilo ardito, reso più fiero da una folta barba nerissima, dagli occhi vivissimi, lampeggianti e dalla pelle bruna, dovuta forse più di tutto all’ardente sole dell’Africa equatoriale.

Indossava un vestito di tela bianca stretto alla cintura da una larga fascia di lana rossa, come usano portare i pescatori napoletani, sormontata da una cartucciera, ed un elmetto pure di tela bianca gli copriva i folti capelli, che il clima della Costa dell’Avorio aveva già cominciato ad incanutire.

Il suo compagno Antao invece, dal nome e dall’aspetto, s’indovinava appartenente alle razze bianche dei climi ardenti. Era un giovanotto di ventiquattro o venticinque anni, di statura bassa piuttosto, ma di corpo robusto, dalla pelle quasi olivastra, dagli occhi grandi, neri, vellutati e tagliati a mandorla, con due baffettini pure neri ed i capelli ricciuti, quasi crespi come quelli dei negri.

Portava sul capo l’elmetto, cappello indispensabile in quei climi, ma invece della giacca indossava una semplice camicia [p. 6 modifica]di flanella azzurra, adorna di rabeschi ai polsi ed al colletto, stretta da una cartucciera elegantissima di pelle rossa ed aveva i calzoni di velluto olivastro e grandi uose di pelle gialla con fibbie d’argento.

Entrambi poi erano armati di splendide carabine da caccia, a canna corta, pesanti, ma capaci di abbattere un elefante con una sola palla ben aggiustata e dei larghi coltelli da caccia, chiusi in guaine di cuoio naturale a punta d’acciaio.

Mentre fumavano le loro sigarette conservando un silenzio assoluto, il sole tramontava rapidamente dietro i grandi boschi.

La luce decresceva a vista d’occhio e le tenebre s’addensavano frettolosamente nei più cupi recessi della foresta. I pappagalli grigi, dopo d’aver lanciati gli ultimi e più strepitosi chiacchierii, cominciavano a tacere; le aquile pescatrici, dopo d’aver fatta un’ultima volata sulle acque fangose del fiume, erano tornate ai loro nidi, situati sulle più alte cime dei giganteschi baobab; le scimmie subukumbaka, che fino allora si erano divertite a sollazzarsi fra i rami dei sicomori saccheggiandoli dei loro fichi, avevano cessato dall’emettere i loro acuti hu-ul-hu-ul che si odono a parecchi chilometri di distanza, e in aria cominciavano ad apparire i primi volatili delle tenebre.

Bande immense di pipistrelli, abbandonati i rami ai quali fino allora si erano tenuti appesi col capo in giù e le fredde ali avviluppate intorno al corpo, giungevano da tutte le parti, guidate da qualche gigante della specie, da qualche cinonittero delle palme o cane notturno, orrendo volatile dalle ali lunghe un metro e dal corpo lungo perfino trenta centimetri, dalla testa grossa somigliante a quella d’un piccolo bull-dog, traforata da due occhiacci e dal pelo aranciato sul petto e sul collo e grigiastro sul dorso e verso la coda.

Dei rauchi brontolii, dei soffi potenti, delle urla acute e degli scrosci di risa, annunciavano che le fiere abbandonavano i loro covi per cominciare le loro caccie notturne, ma Alfredo rimaneva impassibile, come uomo da lunga pezza abituato a quei concerti più paurosi che veramente terribili. Il suo giovane compagno invece, da poco sbarcato in quelle regioni, si agitava, tormentava la batteria della sua carabina, mentre i suoi sguardi si fissavano sulle due sponde con una certa ansietà.

— Diavolo!... — mormorò ad un tratto. — Ma qui pare di essere in un serraglio. [p. 7 modifica]

— Colla differenza però che le fiere non sono chiuse dentro le gabbie e che non si farebbero alcuno scrupolo a mangiarti, se lo potessero.

— E Gamani che hai lasciato solo in mezzo alla foresta?... Che domani non lo troviamo più?...

— Gamani è un coraggioso e sa che tutti questi animali non sono capaci di arrampicarsi sugli alberi. Si sarà accomodato fra i rami di un sicomoro e vedrai che lo troveremo vivo.

— Ma i leopardi sono buoni arrampicatori, Alfredo.

— È vero, ma Gamani ha una buona carabina e sa servirsene. Ti dirò poi...

— Che cosa?... —

Invece di rispondere, il cacciatore si era bruscamente alzato, in preda ad un’improvvisa emozione. Con una mano tesa verso il compagno, come per invitarlo a non muoversi, ascoltava con profonda attenzione, senza osare respirare.

— Hai udito nulla? — chiese dopo alcuni istanti, con voce alterata.

— Assolutamente nulla, — rispose il portoghese, stupito.

— Mi era sembrato di aver udita una lontana detonazione.

— Dove?...

— Verso la mia fattoria.

— Ti sei ingannato, Alfredo.

— Dio lo voglia. Io ho paura di quell’uomo.

— Ma di chi?... Spiegati una volta!...

— Sì.... ma.... guarda laggiù!...

— Cosa vedi?...

— Non hai udito?...

— Un sordo respiro?...

— Sì, Antao.

— E mi pare di vedere l’acqua agitarsi presso la riva del fiume.

— È la preda che attendiamo.

— Un ippopotamo?...

— Arma la carabina!... Eccolo che si avanza verso l’isolotto.... Non mi ero ingannato conducendoti qui, lo vedi. —

Il portoghese non rispose ma si accovacciò fra le alte erbe, sotto la cupa ombra dei banani, armando risolutamente la grossa e pesante carabina.