La Lena/Atto secondo

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Atto secondo

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ATTO SECONDO.




SCENA I.

FAZIO, poi LENA.


Fazio.Chi non si leva per tempo e non opera
La mattina le cose che gl’importano,
Perde il giorno, e i suoi fatti non succedono
Poi troppo ben. Menghin, vô ch’a Dugentola1
Tu vada, e che al gastaldo facci intendere
Che questa sera le carra si carchino,
E che doman le legna si conduchino;
E non sia fallo, ch’io non ho più ch’ardere.
Nè ti partir, che vi vegghi buon ordine;
E dir mi sappi come stan le pecore,
E quanti agnelli maschi e quante femmine
Son nate: e fa che li fasci ti mostrino
C’hanno cavati, e che conto ti rendano
De’ legni verdi c’hanno messo in opera;
E quel che sopravanza, fa che annoveri.

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Or va; non perder tempo. Odi, se avessino
Un agnel buono... Eh no, fia meglio venderlo.
Va, va... Pur troppo...
Lena.                                    Sì, era un miracolo
Che diventato voi foste sì prodigo!
Fazio.Buondì, Lena.
Lena.                       Buondì e buon anno, Fazio.
Fazio.Ti levi sì per tempo? che disordine
È questo tuo?
Lena.                        Saría ben convenevole,
Che poi che voi mi vestite sì nobile-
mente, e da voi le spese ho sì magnifiche,
Che fino a nona io dormissi a mio comodo,
E ’l dì senza far nulla io stessi in ozio.
Fazio.Fo quel ch’io posso. Lena; maggior rendite
Delle mie a farti cotesto farebbono
Bisogno: pur, secondo che si stendono
Le mie forze, mi studio di farti utile.
Lena.Che util mi fate voi?
Fazio.                                    Questo è il tuo solito,
Di sempremai scordarti i beneficii.
Sol mentre ch’io ti do, me ne ringrazii;
Tosto c’ho dato, il contrario fai subito.
Lena.Che mi deste voi mai? Forse ripetere
Volete ch’io sto qui senza pagarvene
Pigione?
Fazio.                Ti par poco? Son pur dodici
Lire ogni anno coteste; senza il comodo
C’hai d’essermi vicina. Ma tacermelo
Voglio per non parer di rinfacciartelo.
Lena.Che rinfacciar? che se talor vi avanzano
Minestre o broda, solete mandarmene?
Fazio.Anch’altro, Lena.
Lena.                              Forse una o due coppie
Di pane il mese, o un poco di vin putrido?
O di lassarmi tôrre un legno picciolo,
Quando costì le carra se ne scarcano?
Fazio.Hai ben anch’altro.
Lena.                                   Ch’altro ho io? deh, ditelo.
Cotte di raso o di velluto?
Fazio.                                             Lecito
Non saría a te portarle, nè possibile

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A me di darle.
Lena.                         Una saja mostratemi,
Che voi mi deste mai.
Fazio.                                      Non vô risponderti.
Lena.Qualche par di scarpacce o di pantoffole,
Poi che l’avete ben pelate e logre, mi
Donate alcuna volta per Pacifico.
Fazio.E nuove ancor per te.
Lena.                                     Non credo siano
In quattro anni tre paja. Or nulla vagliono
Le virtuti ch’io insegno e che continua-
mente ho insegnato a vostra figlia?
Fazio.                                                            Vagliono
Assai, nol voglio negar.
Lena.                                        Che a principio
Ch’io venni abitar qui, non sapéa leggere
Nella tavola2 il pater pure a compito,
Nè tener l’ago;
Fazio.                           È vero.
Lena.                                         Nè pur volgere
Un fuso: ora sì ben dice l’offizio,
Sì ben cuce e ricama, quanto giovane
Che sia in Ferrara: non è sì difficile
Punto, ch’ella nol tolga dall’esempio.3
Fazio.Ti confesso ch’è il vero; non voglio essere
Simile a te, ch’io neghi d’averti obbligo
Dov’io l’ho: pur non starò di risponderti.
Se tu insegnato non le avessi, avrebbele
Alcun’altra insegnato, contentandosi
Di dieci giuli l’anno: differenzia
Mi par pur grande da tre lire a dodici!
Lena.Non ho mai fatto altro per voi, ch’io meriti
Nove lire di più? In nome del diavolo,
Che se dodici volte l’anno dodici
Voi me ne déssi, non sarebbe premio
Sufficïente a compensar la infamia
Che voi mi date; chè i vicini dicono
Pubblicamente, ch’io son vostra femmina.

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Che venir possa il morbo a mastro Lazzaro,
Che mi arrecò alle man questa casipola!
Ma non ci voglio più star dentro: datela
Ad altri.
Fazio.                Guarda quel che tu di’.
Lena.                                                       Datela;
Non vô che sempremai mi si4 rimproveri,
Ch’io non vi paghi la pigione ed abiti
In casa vostra: s’io dovessi tôrmene
Di dietro al Paradiso una o nel Gambaro,5
Non vô star qui.
Fazio.                              Pensaci bene, e parlami.
Lena.Io ci ho pensato quel ch’io voglio: datela
A chi vi pare.
Fazio.                         Io la truovo da vendere,
E venderòlla.
Lena.                        Quel che vi par fatene;
Vendetela, donatela ed ardetela:
Anch’io procacciarò trovar ricapito.
Fazio.(Quanto più fo carezze, e più mi umilio
A costei, tanto più superba e rigida
Mi si fa; e posso dir di tutto perdere
Ciò ch’io le dono: così poca grazia
Me n’ha! vorría potermi succhiar l’anima.)
Lena.Quasi che senza lui non potrò vivere!
Fazio.(E veramente, oltrechè non mi pagano
La pigion della casa, più di dodici
Altre lire ella e ’l marito mi costano
L’anno.)
Lena.                Dio grazia, io son anco sì giovane,
Ch’io mi posso ajutar.
Fazio.                                      (Spero d’abbattere
Tanta superbia. Io non voglio già vendere
La casa, ma sì ben farglielo credere.)
Lena.Non son nè guercia nè sciancata.
Fazio.                                                        (Voglioci

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Condurre o Biagïolo o quel dall’Abbaco
A misurarla, e terrò in sua presenzia
Parlamento del prezzo, e saprò fingere
Un comprator. Non han danar nè credito
Per trovarne alcun’altra: si morrebbono
Di fame altrove. Vô con tanti stimoli
Da tanti canti punger questa bestia,
Che porle il freno e ’l basto mi delibero.)


SCENA II.

LENA.


Vorrebbe il dolce senza amaritudine;
Ammorbarmi col fiato suo spiacevole,6
E strascinarmi come una bell’asina,
E poi pagar d’un — gran mercè. — Oh che giovine,
Oh che galante a cui dar senza premio
Debbia piacere! Fui ben una femmina
Da poco, ch’a sue ciance lasciai volgermi
E sue promesse; ma fu il lungo stimolo
Di questo uomo da niente di Pacifico,
Che non cessava mai: — Moglie, compiacilo;
Sarà la nostra ventura: sapendoti
Governar seco, tutti i nostri debiti
Ci pagarà. — Chi non l’avría a principio
Creduto? Maria in monte7 (come dicono
Questi scolari) promettéa; poi datoci
Ha un laccio che lo impicchi come merita.
Poi che attener non ha voluto Fazio
Quel che per tante sue promesse è debito,
Farò come i famigli che ’l salario
Non ponno aver che co’ padroni avanzano;
Che gl’ingannano, rubano, assassinano.
Anch’io d’esser pagata mi delibero
Per ogni via, sia lecita o non lecita;
Nè Dio, nè il mondo me ne può riprendere.
S’egli avesse moglier, tutto il mio studio
Saría di farlo far quel che Pacifico

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È da lui fatto: ma ciò non potendosi,
Perchè non l’ha, con la figliuola vogliolo
Far esser quel ch’io non so com’io nomini.


SCENA III.

CORBOLO, LENA.


Corbolo.(Un uom val cento, e cento uno non vagliono:
Questo è un proverbio che in esperïenzia
Questa mattina ho avuto.)
Lena.                                             Parmi Corbolo
Che di là viene; è desso.
Corbolo.                                          (Chè, partendomi
Di qui per far quanto m’impose Flavio,
Vo in piazza, e tutta la squadro, e poi volgomi
Lungo la loggia, e cerco per le treccole,
Indi innanzi al Castello, e i pizzicagnoli
Vo domandando s’hanno quaglie o tortore.)
Lena.Vien molto adagio; par che i passi annoveri.
Corbolo.(Nulla vi trovo: alcuni piccion veggovi
Sì magri, sì leggieri, che parevano
Che la quartana un anno avuto avessino.)
Lena.Pur ch’egli abbia i danari!
Corbolo.                                             (Un altro toltoli
Avería, e detto fra sè: — Non ce n’erano
De’ migliori: c’ho a far8 che magri siano
O grassi, poichè non s’han per me a cuocere? —
Lena.Vien col braccio sinistro molto carico.
Corbolo.(Ma non ho fatt’io così; chè gli ufizii,
E non le discrezioni, dar si dicono:9
Anzi, alla porta del Cortil10 fermandomi,
Guardo se contadini o altri appajono,
Che de’ migliori n’abbian. Quivi in circolo
Alcuni uccellator del duca stavano,
Credo, aspettando questi gentiluomini
Che di sparvieri e cani si dilettano,

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Che a bere in Gorgadello li chiamassero.
Mi dice un d’essi, ch’è mio amico: — Corbolo,
Che guardi? — Io glielo dico, e insieme dolgomi
Che mai per alcun tempo non si vendono
Salvadigine11 qui, come si vendono
In tutte l’altre cittadi; e penuria
Ci sia d’ogni buon cibo; nè si mangino
Se non carnacce che mai non si cuocono.
E perchè12 non son care! Si concordano
Tutti al mio detto.)
Lena.                                 Io vô aspettarlo, e intendere
Quel ch’egli ha fatto.
Corbolo.                                    (Io mi parto: mi séguita
Un d’essi, e al canto ove comincian gli Orafi,13
Mi s’accosta, e pian pian dice: — Piacendoti,
Un pajo di fagian grassi, per quindici
Bolognini gli avrai. — Sì sì, di grazia; —
Rispondo, ed egli:— In vescovado aspettami;
Ma non cantare;14 — ed io: — Non è la statua
Del duca Borso15 là di me più tacita. —
In questo mezzo un cappon grasso compero,
Ch’avea adocchiato, e tolgo sei melangole,
Ed entro in vescovado; ed ecco giungere
L’amico coi fagian sotto, che pesano
Quanto un pai’ d’oche. Io metto mano, e quindici
Bolognin su ’n altar quivi gli annovero:16
Mi soggiunge egli: — Se te ne bisognano
Quattro, sei, sette, diece paja, accennami,
Purchè tra noi stia la cosa. — Ringraziolo...)
Lena.Par che molto fra sè parli e fantastichi.
Corbolo.(E gli prometto la mia fede, d’essere
Segreto. Ma mi vien voglia di ridere,
Che ’l signor fa con tanta diligenzia,
E con gride e con pene sì terribili,

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Guardar la sua campagna; e li medesimi
Che n’hanno cura son quei che la rubbano.)
Lena.Spíccati, che spiccata ti sia l’anima!
Corbolo.(Non pônno a nozze ed a conviti pubblici
Li fagiani apparir sopra le tavole,
Chè le grida ci sono; e nelle camere
Con puttane i bertoni se li mangiano.
Questi arrosto, e ’l cappone ho fatto cuocere
Lesso, e qui nel canestro caldi arrecoli.
Ecco la Lena.)
Lena.                         Hai tu i danari, Corbolo?
Corbolo.Io gli avrò.
Lena.                   Non mi piace udir rispondere
In futuro.
Corbolo.                 Contraria all’altre femmine
Sei tu, che tutte l’altre il futtur17 amano.
Lena.Piacciono a me i presenti.
Corbolo.                                           Ecco, presentoti
Cappon, fagiani, pan, vin, cacio: portali
In casa. Farmi che saría superfluo
Aver portati piccioni, vedendoti
Averne in seno due grossi bellissimi.
Lena.Deh, ti venga il malanno!
Corbolo.                                             Lascia pormivi
La man, ch’io tocchi come sono morbidi.
Lena.Io ti darò d’un pugno. I danar, dicoti.
Corbolo.Finalmente ogni salmo torna in gloria.
Tu non ti scordi: tra mezz’ora arrecoli.
Io trovai che nel letto anch’era Giulio:
Gli feci l’ambasciata, ed egli mettere
Mi fe li panni su ’na cassa, e dissemi
Ch’io ritornassi a nona. In tanto cuocere
Il desinare ho fatto, e posto in ordine.
Ma le fatiche mie. Lena, che premio
Hanno d’aver? ch’io son cagion potissima
Che i venticinque fiorin ti si diano.
Lena.Che vuoi tu?
Corbolo.                       Ch’io tel dica? Quel che dandomi,
E se ne déssi a cento, non puoi perdere.
Lena.Io non intendo.

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Corbolo.                         Io ’l dirò chiaro.
Lena.                                                       Portami
I danar, ch’io non so senz’essi intendere.
Corbolo.Son dunque i danar buoni a fare intendere?
Lena.Me sì, e credo anco non men tutti gli uomini.
Corbolo.Saría, Lena, cotesto buon rimedio
A far ch’udisse un sordo?
Lena.                                             Differenzia
Molta è, babbion, tra l’udire e l’intendere.
Corbolo.Fa che anch’io sappia questa differenzia.
Lena.Gli asini ragghiar s’odono alla macina,
Nè s’intendon però.
Corbolo.                                 A me par facile,
Sempre ch’io gli odo, intenderli: vorrebbono
Appunto quel che anch’io da te desidero.
Lena.Tu sei malizïoso più che ’l fistolo.
Or che l’arrosto è in stagion,18 vien’, andiamone
A mangiar.
Corbolo.                    Vengo. Dimmi, ov’è la giovane?
Lena.Dove sono i danari?
Corbolo.                                 Credo farteli
Aver fra un’ora.
Lena.                            Ed io credo la giovane
Far venir qui come i danar ci siano.
Andiam, chè le vivande si raffreddano.
Corbolo.Va là, ch’io vengo. — Possino esser l’ultime
Che tu mangi mai più; ch’elle ti affoghino!
Mi debbo, dunque, esser con tale studio
Affaticato a comperarle e a cuocere,
Perchè una scrofa e un becco se le mangino?
Ma non avran la parte che si pensano,
Chè anch’io me ne vô il grifo e le mani ungere.




Note

  1. Villa del Ferrarese. — (Barotti.)
  2. Esempio ottimo a confermare la dichiarazione che la Crusca ebbe posta sotto uno de’ suoi paragrafi: «Quella carta contenente l’alfabeto, sulla quale i fanciulli imparano a leggere.»
  3. Non sappia ritrarre, imitandolo, dal suo esemplare.
  4. Ant. stamp.: si (o ) mi.
  5. Paradiso è palazzo, così detto, in Ferrara, ad uso presentemente di Studio pubblico; dietro al quale sono diversi vicoli con casette, ricoveri anticamente di femmine da partito. Il Gambero è un’altra stradella di fianco alla Giovecca, dove abitavano donne simili; com’è detto più espressamente nell’atto V, sc. XI, di questa stessa Commedia. — (Barotti.)
  6. Erroneamente le stampe antiche: «col fatto suo piacevole.»
  7. Maria et montes, proverbio noto, qui corrotto per ignoranza. — (Molini.)
  8. Che m’importa?
  9. Traduce in altri termini il più volgare ditterio: «Si conferisce l’impiego, ma non la capacità.»
  10. All’arco detto del Cavallo, col quale finisce il Cortile (di cui ne’ Suppositi, atto II, sc. 1), e comincia la piazza del Duomo. — (Barotti.)
  11. Così le antiche stampe, secondo la provinciale pronunzia dell’autore.
  12. Da aggiungersi ai già molti rammemorati nella nota 2 a pag. 244.
  13. Ove comincia la via degli Orefici, sul termine della piazza del Duomo. — (Barotti.)
  14. Non cicalarne con alcuno.
  15. La statua di bronzo, a canto all’arco del Cavallo, rappresentante Borso Estense, primo duca di Ferrara. — (Barotti.)
  16. Pose qui il Barotti questa nota: «Il poeta mette in veduta un abuso de’ suoi giorni.»
  17. Così la stampa del Giolito.
  18. È in punto; intendi, per esser mangiato. — (Tortoli.)