La Lena/Atto terzo

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Atto terzo

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Atto secondo Atto quarto
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ATTO TERZO.




SCENA I.

CORBOLO.


Or ho di due faccende fatto prospera-
mente una, e con satisfazione d’animo;
Chè ’l cappone e’ fagiani grassi e teneri
Son riusciti, e ’l pan buono, e ’l vin ottimo.
Non cessa tuttavía lodarmi Flavio
Per uom che ’l suo danajo sappia spendere.
Farò ancor l’altra, ma non con quel gaudio
C’ho fatto questa: m’è troppo difficile
Ch’io vegga a costui spendere, anzi perdere
Venticinque fiorini, e ch’io lo tolleri.
Facile è ’l tôr; sta la fatica al rendere.
Come farà non so, se non fa vendita
Dei panni al fin: ma se i panni si vendono
(Chè so che, a lungo andar, nol potrà ascondere
Al padre), i gridi, i rumori, li strepiti
Si sentiran per tutto; e sta a pericolo
D’esser cacciato di casa. Or l’astuzia
Bisognaría d’un servo, quale fingere
Ho veduto talor nelle commedie,
Che questa somma con fraude e fallacia
Sapesse del borsel del vecchio mungere.
Deh, se ben io non son Davo nè Sosia,
Se ben non nacqui fra Geti nè in Siria,
Non ho in questa testaccia anch’io malizia?
Non saprò ordire un giunto anch’io, ch’a tessere
Abbia fortuna poi, la qual propizia
(Come si dice) a gli audaci suol essere?
Ma che farò, che con un vecchio credulo
Non ho a far, qual a suo modo Terenzio
O Plauto suol Cremete o Simon fingere?
Ma quanto egli è più cauto, maggior gloria
Non è la mia, s’io lo piglio alla trappola?

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Jeri andò in nave a Sabbioncello,1 e aspettasi
Questa mattina: convien ch’io mi prépari
Di quel c’ho a dir, come lo vegga. Or eccolo
Appunto! questo è un tratto di commedia;
Il nominarlo, ed egli in capo giungere
Della contrada, e in un tempo medesimo.
Ma non vô che mi vegga prima ch’abbia la
Rete tesa dove oggi spero involgerlo.


SCENA II.

ILARIO, EGANO, CORBOLO.


Ilario.Non si dovrebbe alcuna cosa in grazia
Aver mai sì, che potendo ben venderla,
Non si vendesse, solo eccettüandone
Le mogli.
Egano.                 E quelle ancor, se fosse lecito
Per legge o per usanza.
Ilario.                                      Non che in vendita,
Ma a baratto, ma in don dar si dovrebbeno.
Egano.Di quelle che non fan per te intelligitur.
Ilario.Ita: non è già usanza che si vendano,
Ma darle ad uso par che pur si tolleri.
D’un par di buoi, per tornare a proposito,
Parlo, che trenta ducati, e tutti ungari...
Corbolo.(Questi al bisogno nostro supplirebbono.)
Ilario.Jeri io vendei a un contadin da Sandalo.2
Egano.Esser belli dovéan.
Ilario.                                Potete credere...
Corbolo.(Io gli voglio, io gli avrò.)
Ilario.                                             Che son bellissimi.
Corbolo.(Son nostri).
Ilario.                      Belli a posta lor: mi piacciono
Molto più questi danari.
Corbolo.                                        (È impossibile
Che non stia forte.)
Ilario.                                Almen non avrò dubbio
Che ’l giudice alle fosse me li scortichi.3

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Egano.Faceste ben: quest’è la via. Potendovi
Far piacer, comandatemi.
Ilario.                                          Addio, Egano.
Corbolo.(La quaglia è sotto la rete; io vô correre
Innanzi, far ch’ella s’appanni e prendasi.)
Io non so che mi far, dove mi volgere,
Poichè non c’è il patron.
Ilario.                                          (Oh! che può essere
Questo?)
Corbolo.               Ma che accadéa partirsi a Flavio?
Ilario.(Questa fia qualche cosa dispiacevole!)
Corbolo.Molto era meglio aver scritto una lettera
Al padre, e aver mandato un messo subito...
Ilario.(Oimè, occorsa sarà qualche disgrazia!)
Corbolo.Che andarvi egli in persona.
Ilario.                                                (Che puot’essere?)
Corbolo.Megli’era ch’egli stesso il fêsse intendere
Al duca.
Ilario.              (Dio m’ajuti!)
Corbolo.                                       Come Ilario
Lo sa, verrà volando a casa.
Ilario.                                                Corbolo!
Corbolo.Non la vorrà patire, e farà il diavolo.
Ilario.Corbolo!
Corbolo.              Ma che farà anch’egli?
Ilario.                                                     Corbolo!
Corbolo.Chi mi chiama? Oh patron!
Ilario.                                                Che c’è?
Corbolo.                                                              V’ha Flavio
Incontrato?
Ilario.                    Che n’è?
Corbolo.                                   Non eran dodici
Ore ch’uscì della cittade, e dissemi
Che veniva a trovarvi.
Ilario.                                      Che importanzia
C’era?
Corbolo.            Voi non sapete a che pericolo
Egli sia stato?
Ilario.                         Pericolo? Narrami:


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Che gli è accaduto?
Corbolo.                                 Può dir, patron, d’essere
Un’altra volta nato. Quasi morto lo
Hanno alcuni ghiottoni: pur, Dio grazia,
Il male...
Ilario.               Ha dunque mal?
Corbolo.                                           Non di pericolo.
Ilario.Che pazzía è stata la sua di venirsene
In villa, s’egli ha male, o grande o picciolo?
Corbolo.L’andare a questo mal suo non può nuocere.
Ilario.Come no?
Corbolo.                 Non, vi dico; anzi più agile
Ne fia.
Ilario.            Dimmi: è ferito?
Corbolo.                                          Sì, e difficile-
mente potrà guarir; non già che sanguini
La piaga...
Ilario.                  Oimè, io son morto!
Corbolo.                                                    Ma intendetemi
Dove.
Ilario.          Di’.
Corbolo.                Non nel capo, non negli omeri,
Non nel petto o ne’ fianchi.
Ilario.                                             Dove? spacciala.
Pur ha mal!
Corbolo.                      N’ha pur troppo, e rincrescevole.
Ilario.Esser non può ch’egli non stia gravissimo.
Corbolo.Anzi troppo leggiero.
Ilario.                                   Oh, tu mi strazii!
Ha male, non ha mal: chi ti può intendere?
Corbolo.Ve ’l dirò.
Ilario.                 Di’, in mal punto.
Corbolo.                                                Udite.
Ilario.                                                          Seguita.
Corbolo.Non è ferito nel corpo.
Ilario.                                      Nell’anima
Dunque?
Corbolo.               È ferito in una cosa simile.
Flavio con una brigata di giovani
Si trovò iersera a cena; e a me, andandovi,
Disse che, come cinque ore sonavano,
Andassi a tôrlo con lume. Ma (rendere

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Non ne so la cagion) prima che fossero
Le quattro, si partì, e sol venendone
E senza lume, come fu a quei portici
Che al dirimpetto son di Santo Stefano,
Fu circondato da quattro, ed aveano
Arme d’asta, ch’assai colpi gli trassero.
Ilario.E non l’hanno ferito? Oh che pericolo!
Corbolo.Come è piaciuto a Dio, mai non lo colsero
Nella persona.
Ilario.                       O Dio, te ne ringrazio.
Corbolo.Egli voltò loro le spalle, e messesi,
Quanto più andar poteano i piedi, a correre.
Un gli trasse a la testa.
Ilario.                                      Oimè!
Corbolo.                                                  Ma colselo
Nella medaglia d’ôr ch’aveva, e caddegli
La berretta.
Ilario.                     E perdèlla?
Corbolo.                                        No: la tolsero
Quelli rubaldi.
Ilario.                        E non gliela renderono?
Corbolo.Renderon, eh!
Ilario.                        Mi costò più di dodici
Ducati, coi puntal d’oro che v’erano.
Lodato Dio, che peggio non gli fecero.
Corbolo.La robba fra le gambe avviluppandosi,
Chè gli cadea da un lato, fu per metterlo
Tre volte o quattro in terra: al fin, gettandola
Con ambedue le mani, sviluppòssene.
Ilario.In somma, l’ha perduta?
Corbolo.                                          Pur la tolsero
Quei ladroncelli ancora.
Ilario.                                        E se la tolsero
Quei ladroncelli, non ti par che Flavio
L’abbia perduta?
Corbolo.                              Non credéa che perdere
Si dicesse alle cose ch’altri trovano.
Ilario.Oh, tu sei grosso! Mi vien,4 con la fodera,

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Ottanta scudi. In somma, non è Flavio
Ferito?
Corbolo.             Non nella persona.
Ilario.                                             U’ diavolo,5
In altra parte ferir lo poteano?
Corbolo.Nella mente, che si pon gran fastidio
Pensando, oltre al suo danno, alla molestia
Che voi ne sentirete risapendolo.
Ilario.Vide chi fosser quei che l’assalissero?6
Corbolo.No; che la gran paura e l’oscurissima
Notte non gliene lasciò alcun conoscere.
Ilario.Pôr si può a libro dell’uscita.
Corbolo.                                                  Temone.
Frasca, perchè non t’aspettar, dovendolo
Tu gir a tôr?
Corbolo.                       Vedete pur...
Ilario.                                           Ma un asino
Sei tu però, che non fosti sollecito
A ir per lui.
Corbolo.                      Cotesto è il vostro solito;
Me degli errori suoi sempre riprendere.
Aspettar mi doveva, o non volendomi
Aspettar, tôr compagnia; chè sarebbono
Tutti con lui venuti, dimandandoli.
Ma non si perda tempo: ora prendetici,
Patron, che ’l male è fresco, alcun rimedio.
Ilario.Rimedio? e che rimedio poss’io prenderci?
Corbolo.Parlate al podestade, ai segretarii,
E se sarà bisogno, al duca proprio.
Ilario.E che diavolo vuoi che me ne facciano?
Corbolo.Faccian far bandi.
Ilario.                               Acciò ch’oltre a la perdita,
Sia il biasmo ancora. Non direbbe il popolo
Che côlto solo e senza armi l’avessino,
Ma che assalito a paro a paro, e toltogli

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Di patto7 l’armi e li panni gli fossero
Stati. Or sia ancor, ch’io vada al duca, e contigli
Il caso; che farà, se non rimettermi
Al podestade? E ’l podestade subito
M’arà gli occhi alle mani, e non vedendoci
L’offerta, mostrerà che da far abbia
Maggior faccende; e se non avrò indizii
O testimonî, mi terrà una bestia.
Appresso, chi vuoi tu pensar che sieno
I malfattori, se non i medesimi,
Che per pigliar li malfattor, si pagano?
Col cavalier dei quali, o contestabile,
Il podestà fa a parte; e tutti rubbano.8
Corbolo.Che s’ha dunque da far?
Ilario.                                          D’aver pazienzia.
Corbolo.Flavio non l’avrà mai.
Ilario.                                    Converrà bêrsela,
O vogli o no. Poich’è campato, reputi
Che gli abbia Dio fatto una bella grazia.
Egli è fuor del timore e del pericolo
Senz’altro mal; ma son io, che gravissima-
mente ferito nella borsa sentomi.
Mio è il danno, ed io, non egli ha da dolersene.
Una berretta gli farò far subito,
Com’era l’altra, e una robba onorevole:
Ma non sarà già alcuno ch’a rimettere
Mi venga nella borsa la pecunia
Ch’avrò speso, perchè egli non stia in perdita.
Corbolo.Non saría buon che i rigattieri fossino
Avvisati e gli Ebrei, che se venissero
Questi assassini ad impegnare o vendere
Le robbe, tanto a bada li tenessino,
Che voi fossi9 avvisato, sì che, andandovi,
Le riavessi, e lor facessi prendere?
Ilario.Cotesto più giovar potría che nuocere:

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Pur non ci spero; chè questi che prestano
A usura, esser rubaldi non è dubbio;
E quest’altri che compran per rivendere,
Son fraudolenti, e ’l ver mai non ti dicono:
Nè l’altre cose più volentier pigliano
Delle rubate, perchè comperandole
Costan lor poco; e se danar vi prestano
Sopra, sanno che mai non si riscuotono.
Corbolo.Avvisiamoli pur; facciamo il debito
Nostro noi.
Ilario.                 Se ’l ti par, va dunque, avvisali.


SCENA III.

CORBOLO, PACIFICO.


Corbolo.La cosa ben procede; posso metterla
Per fatta. Non mi resta altro a conchiuderla,
Che farmi i pegni rendere da Giulio;
Di poi mandarli per persona incognita
Ad impegnar quel più che possa aversene.
Il vecchio, so, li riscuoterà subito
Che saprà dove sien. Ma vô che Flavio
L’intenda, acciò governar con Ilario
Si sappia, e i nostri detti si conformino.
Ecco Pacifico esce.
Pacifico.                                Ti vuol Flavio.
Corbolo.A lui ne vengo, e buone nuove apportogli.
Pacifico.Le sa, chè ciò c’hai detto, dal principio
Al fine abbiamo inteso; ch’ambi stati le
Siamo a udir dietro all’uscio, ne perdutone
Abbiam parola.
Corbolo.                         Che ve ne par?
Pacifico.                                                  Diamoti
La gloria e ’l vanto di saper me’ fingere
D’ogni poeta una bugía. Ma fermati,
Chè non ti vegga entrar qua dentro Fazio:
Come sia in casa e volga le spalle, entraci.


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SCENA IV.

FAZIO, PACIFICO.


Fazio.Perchè non vi vorrei giunger, Pacifico,
Improvviso, fra un mese provvedetevi
Di casa, chè cotesta son per vendere.
Pacifico.L’è vostra, a vostro arbitrio disponetene.
Fazio.Il compratore ed io ci siam nel Torbido10
Compromessi, ch’è andato a tôr la pertica
Per misurarla tutta. Non mi dubito
Che si spicchi da me senza conchiudere.
Pacifico.L’avessi jer saputo, chè assettatola
Un po’ l’avrei: mi cogliete in disordine.
Fazio.Or va, e al me’ che puoi, tosto rassettala;
Chè non può far indugio che non vengano.
Pacifico.Non oggi, ma diman fate che tornino.
Fazio.Non ci potrebbe costui che la compera,
Esser domane, chè vuol ire a Modena.


SCENA V.

PACIFICO, CORBOLO.


Pacifico.Come faremo, Corbolo, di ascondere
Il tuo padron, che costor non lo vegghino?
Chè, senza dubbio, se lo vede Fazio,
S’avvisarà la cosa, e sarà il scandolo
Troppo grande.
Corbolo.                         Ècci luogo ove nasconderlo?
Pacifico.Che luogo in simil casa, misurandola
Tutta, esser può sicur che non lo trovino?
Corbolo.Or non c’è alcuna cassa, alcun armario?
Pacifico.Non ci son altre che due casse picciole,
Che Santino11 in giuppon non capirebbono.
Corbolo.Dunque facciamlo uscir prima che venghino.
Pacifico.Così spogliato?
Corbolo.                         Io vo a casa, ed arrecogli

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Un’altra veste.
Pacifico.                          Or va, e ritorna subito,
Chè qui t’aspetto.
Corbolo.                                Io veggo uscire Ilario.


SCENA VI.

ILARIO, CORBOLO, CREMONINO.


Ilario.Non sarà se non buono, oltra che Corbolo
V’abbia mandato, s’anch’io vo; chè credere
Io non debbo ch’alcun più diligenzia
Usi nelle mie cose, di me proprio.
Ma eccol qui. C’hai fatto?
Corbolo.                                             Isaac e Beniamin
Dai Sabbioni12 ho avvisato: ora vô volgermi
A i Carri: quei da Riva13 saran gli ultimi.
Ilario.Che domanda colui che va per battere
La nostra porta?
Corbolo.                              È il Cremonino. (Oh diavolo,
Siamo scoperti!)
Ilario.                            Che domandi, giovane?
Cremon.Domando Flavio.
Ilario.                              Oh, quella mi par essere
La sua veste.
Corbolo.                      A me ancor: vedete simile-
mente la sua berretta. (Or ajutatemi
Bugíe; se non, semo spacciati.)
Ilario.                                                  Corbolo,
Come va questa cosa?
Corbolo.                                      Li suoi proprii
Compagni avran fatto la beffa, e toltosi,
Credo, piacer d’averlo fatto correre.
Ilario.Bel scherzo in verità.
Cremon.                                    Mio padron Giulio
Gli rimanda i suoi pegni, e gli fa intendere
Che quel suo amico...
Corbolo.                                  Che amico? Odi favola!
Cremon.Quel che prestar su questi pegni...

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Corbolo.                                                       Chiacchiare.
Cremon.Gli dovéa li danari, che tu, Corbolo...
Corbolo.Oh che finzion!
Cremon.                         Venisti oggi a richiedergli...
Corbolo.Io?
Cremon.      Tu, sì.
Corbolo.                Guata viso! come fingere
Sa bene una bugía!
Ilario.                                Corbolo, pigliali
E riponli. Va va, tu; va, di’ a Giulio,
Che questi scherzi usar non si dovrebbeno
Con gli amici...
Cremon.                       Che scherzi?
Ilario.                                             E convenevoli
Non sono alli par’ suoi.
Cremon.                                        Non credo ch’abbia
Mio padron fatto... Che m’accenni, bestia?
Vô dir la verità...
Corbolo.                              Accenno io?
Cremon.                                                  E difendere
Il mio padron, ch’a torto tu calunnii.
S’avesse avuto egli i danar, prestatogli
Li avrebbe volentier.
Corbolo.                                    Danari? Pigliati
Piacer? Ti sogni forse? o noi pur scorgere
Credi per ubbriachi o per farnetichi?
Cremon.Or non portasti queste vesti a Giulio,
Tu, questa mane?
Corbolo.                               A pie a cavallo? Abbiamoti
Inteso.
Cremon.            Pur anco m’accenni?
Corbolo.                                                Accennoti?
Ilario.Oh, che ti venga il mal di Santo Antonio!14
Non t’ho veduto io che gli accenni?
Corbolo.                                                          Accennoli
Per certo, a dimostrar che le malizie
Sue conosciamo, e ch’a noi non può venderle.
Cremon.Malizie son le tue.
Ilario.                              La vô intendere.
Onde hai tu avute queste robbe?

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Corbolo.                                                  Giulio
Jeri stette alla posta.
Ilario.                                 Da lui vogliolo,
E non da te, saper.
Corbolo.                                 Ti darà a intendere
Qualche baja, chè sa troppo ben fingere.
Cremon.Fingi pur tu.
Corbolo.                       Or, guatami, e non ridere.
Cremon.Che rider? che guatar?
Corbolo.                                          Va va, di’ a Giulio,
Che Flavio sarà un dì buono per renderli
Merto di questo.
Ilario.                           Non andar, no. Lievati
Pur tu di qui, ch’io vô da lui informarmene;
E non da te.
Corbolo.                       Non fia vero ch’io tolleri
Mai che costui vi dileggi.
Ilario.                                          Che temi tu
Che le parole sue però m’incantino?
Ma dammi queste robbe. Va via, levati
Tu di qui.
Corbolo.                    Pur volete dargli udienza?
Quanti torcoli son per la vendemmia
Non gli potrebbon15 far un vero esprimere.
Cremon.Dirò la verità.
Corbolo.                         Così è possibile,
Come che dica il pater nostro un asino.
Ilario.Lascialo dire.
Cremon.                       Io vi dirò il vangelio.
Corbolo.Scopriamci il capo, perchè non è lecito
Udire a capo coperto il vangelio.
Ilario.Per ogni via tu cerchi d’interrompere:
Ma se tu parli più!... Deh vien: lasciamolo
Di fuora: entra là in casa. Mi delibero
Di saper questa giuntería, ch’altro essere
Non può. Ma serriam fuor questa seccaggine.


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SCENA VII.

CORBOLO, PACIFICO.


Corbolo.Noi siam forniti: a quattro a quattro corrono
I venticinque fiorini; ma e’ corrono
Tanto, che più non c’è speme di giungerli.
Come n’ha fatto un bel servigio Giulio!
Per dio! sempre gli abbiamo d’aver obbligo.
Mi dice: — Tornerai fra un’ora a intendere
Quanto sia fatto; — e poi m’ha, contra all’ordine,
Mandato questo pecorone a rompere
Le fila ordite, e ch’io stavo per tessere.
Pacifico.Che sei stato costì tanto a contendere?
Dove è la veste che tu arrechi a Flavio?
Non indugiam, cancar ti venga, a metterlo
Fuor di casa. Ch’aspetti? ch’entri Fazio,
E che lo vegga?
Corbolo.                           S’io non posso in camera
Entrar! se m’ha di fuor serrato Ilario!
Pacifico.Come faremo?
Corbolo.                        Vedi di nasconderlo
In casa.
Pacifico.              Non c’è luogo.
Corbolo.                                        Dunque mettilo
Fuore in giuppon. Di due partiti prendine
L’uno: o l’ascondi in casa, o in giuppon mandalo
Di fuor.
Pacifico.              Nè l’un nè l’altro vogl’io prendere.
Corbolo.Che farai dunque?
Pacifico.                                Or mi torna in memoria
C’ho in casa una gran botte, che prestatami
Quest’anno al tempo fu della vendemmia
Da un mio parente, acciocchè adoperandola
Per tino, le facessi l’odor perdere
Ch’avea di secco: egli di poi lasciata me
L’ha fin adesso. Io ve lo vô nascondere
Tanto che questi che verran con Fazio,
Cercato a lor bell’agio ogni cosa abbiano.
Corbolo.Vi capirà egli dentro?
Pacifico.                                     Ed a suo comodo.

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È già più giorni, io la nettai benissimo,
E posso a mio piacer levare e mettere
Un fondo.
Corbolo.                 Andiamo dunque: consigliamoci
Con esso lui.
Pacifico.                    Credo che questi siano
Appunto quei ch’entrar qua dentro vogliono:
Son dessi certo, ch’io conosco il Torbido.
Forniam noi quel ch’abbiamo a far.
Corbolo.                                                          Forniamolo.
Pacifico.Dunque vien dentro.
Corbolo.                                 Va là, ch’io ti seguito.


SCENA VIII.

TORBIDO, GIMIGNANO, FAZIO.


Torbido.Poi ch’io l’avrò misurata, la pertica
Mi dirà quanto ella vai, fino a un picciolo.
Gimign.Dunque tal volta le pertiche parlano?
Torbido.Sì; ben anco parlar fanno, stendendole
In sulle spalle altrui. Ma ecco Fazio.
Ch’abbiamo a far?
Fazio.                                Quel c’ho detto: mettetevi
A misurar quando vi par: cominciano
Qui le confine, e quel segno non passano.
Torbido.Cominciarem qui dunque.
Fazio.                                           Cominciateci.
Torbido.Una: méttevi in capo il coltello.16
Gimign.                                                     Eccolo.
Torbido.E dua; e questo appresso. Appunto mancano
Dua sesti, chè tre piedi non ponno essere.
Andiamo or dentro.
Fazio.                                 La matita prendere
Potete, e notar questo.
Torbido.                                      Io lo noto; eccolo.


SCENA IX.

GIULIANO.


Or ora su in palazzo ritrovandomi,
Ho veduto segnare una licenzia
Dal sindico, di tôr pegni a Pacifico

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Per quaranta tre lire, ch’egli è a Bartolo
Bindello debitore; e son certissimo
Che non si truovi tanto ch’abbi ascendere
Alla metà ne al terzo di tal debito.
Per questo sto in tremor che non gli tolghino
Una mia botte, di che alla vendemmia
Per bollire il suo vin gli feci comodo.17
Meglio è, prima che i sbirri glie la lievino,
E ch’abbi a litigar poi e contendere
E provar che sia mia, s’io vo a pigliarmela:
E poichè l’uscio è aperto, alla dimestica
Entrarò. Vien, facchin, vien dentro; seguimi.




Note

  1. Villa del Ferrarese, sul Po di Volano. — (Barotti.)
  2. Altra villa del Ferrarese. — (Barotti.)
  3. Quando l’Ariosto compose questa Commedia, scavavansi le fosse della città sotto la direzione di un perito che chiamavasi Giudice delle fosse; e chiunque aveva buoi era obbligato dal principe a mandarli coi carri al lavoro una volta la settimana. — (Barotti e Molini.)
  4. Esempio notabile di questo verbo, quando, applicato a conteggi, prende la significazione di Costare; che nell’uso parlato, dicesi più di frequente e con meno eleganza: Venir a stare.
  5. Così è scritto, ma senza l’apostrofo, nelle antiche edizioni. Il Barotti vi aggiunse un h, tramutandolo in segno di esclamazione. Così difatti pronunciasi in molti luoghi l’Oh enfatica; ma potendo ancora intendersi Ove diavolo in altra parte, per In qual altra parte mai, o simile, seguitiamo il Pezzana ed il Tortoli, rimettendo il disputarne più oltre a chi nelle dispute di tal sorta stimi bene impiegato il suo tempo.
  6. Così l’edizione del Giolito. Tutte le altre: assalirono.
  7. A patto di non offenderlo altrimenti.
  8. In un tempo in cui menasi sì gran lamento sulla indebolita autorità dei governi, non mancherà chi seriamente facciasi a riflettere sopra queste ed altre pubbliche infamazioni, che in questa Commedia s’incontrano, dei delegati del principe, pronunziate (come tutto fa credere) alla presenza del principe stesso.
  9. Ant. stamp.: fosse.
  10. Cognome di un agrimensore ferrarese, in credito ai tempi del poeta. — (Molini.)
  11. Santino era forse nome di persona nota per la sua piccolezza o soverchia magrezza. — (Molini.) — In giuppon e da intendersi come: spogliato in giubbone.
  12. Vedi a pag. 298, ver. 12 e no. 2.
  13. Il banco dei Carri e quello da Riva erano banchi da prestiti occupati allora da Ebrei. — (Molini.)
  14. Vedi a pag. 244, ver. 5 e nota 1.
  15. Ant. stamp.: potrebbe.
  16. Significazione non osservata.
  17. Far comodo altrui di una cosa, per Accomodamelo, Prestargliela, è assai bel modo, e già raccolto dai compilatori del Vocabolario di Bologna.