La Nascita della Tragedia/Capitolo XV
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Capitolo XV.
Seguendo il senso di tali domande piene di presentimenti, bisogna dichiarare, che l’influenza di Socrate, come le ombre che sempre più avanzano dopo il tramonto, si è estesa sulla posterità fino a questo momento e si diffonderà in tutto l’avvenire; che impone necessariamente e sempre imporrà la rinascita dell’arte, e diciamo, in verità, dell’arte intesa interamente nel senso metafisico più ampio e più profondo; e che con la sua propria infinità ne garantisce l’infinità.
Prima che questo potesse essere riconosciuto, prima che fosse persuasivamente dimostrata l’intima dipendenza di ogni arte dai greci, dai greci da Omero a Socrate, bisognava che noi ci comportassimo con questi greci come gli ateniesi si comportarono con Socrate. Quasi ogni evo e ogni stadio di cultura ha con profondo malumore cercato di liberarsi dei greci, perché tutto ciò che era autentico e genuino e che apparentemente era affatto originale e giustamente ammirato, di botto, come veniva raffrontato con loro, sembrava perdere colore e vita, e incatorzolire in una copia disgraziata, anzi in una vera caricatura. E così tornò sempre a spuntare di nuovo il cordiale rovello contro quel popoluzzo arrogante, che osò di qualificare «barbarica» per tutti i tempi qualunque cosa non fosse stata fatta a casa lorochi sono costoro, tutti si domandavano, costoro i quali ebbero non più che uno splendore storico puramente efimero, non più che istituzioni risibilmente locali e circoscritte, non più che una dubbia bontà di costumi, e anzi sono insigni poivizi turpi, e ciò nonostante si arrogano tra i popoli la dignità e il privilegio, che tra le moltitudini competono al genio? Purtroppo, non si aveva la fortuna di trovare la tazza di cicuta, con cui un popolo così fatto fosse semplicemente levato di tra i piedi; giacché qualunque veleno, che l’invidia e la calunnia e il livore alimentano in seno, non arrivava ad annientare quella magnificenza contenta di sé, sufficiente. E così davanti ai greci si provava vergogna e paura: bisogna dunque che uno stimi la verità al disopra di tutto e quindi osi confessare anche a sé stesso questa verità: che i greci hanno nelle mani, come guidatori di cocchi, la nostra e qualunque civiltà; ma quasi sempre cocchi e cavalli sono di qualità troppo scadente, impari alla gloria dei guidatori, i quali d’altronde tengono per burla cacciare siffatti equipaggi nel precipizio: essi le scavalcano alla brava, col salto di Achille.
A dimostrare che spetta anche a Socrate la dignità di cotesto grado direttivo, basta riconoscere nella sua persona il tipo di una mentalità non mai esistita prima di lui, il tipo, cioè, dell’uomo teoretico: il nostro cómpito immediato ora è di intenderne la significazione e il fine. Anche l’uomo teoretico, del pari che l’artista, trova un’infinita soddisfazione in ciò che esiste, e questa soddisfazione lo preserva, come preserva l’artista, dall’etica pratica del pessimismo e dall’occhio linceo del pessimismo che luce solo nell’oscurità. Vale a dire, se l’artista a ogni rivelazione della verità rimane sospeso con gli occhi rapiti unicamente a ciò che anche dopo la rivelazione continua a essere un velame, l’uomo teoretico gode e si appaga di scostare il velame, e trova il massimo godimento del fine raggiunto proprio nel processo di una rivelazione sempre felice, che avviene per forza propria. Non vi sarebbe alcuna scienza, se le fosse assegnato solamente di occuparsi di quell’unica dea nuda, e null’altro. Perché allora i suoi iniziati si troverebbero nella stessa condizione di animo di coloro, che volessero scavare un foro attraverso il globo; dei quali ciascuno vede che, anche dedicandovi il massimo sforzo dell’intera vita, non riescirebbe a penetrare più che in un piccolo tratto della enorme profondità, tratto che sotto i suoi stessi occhi verrebbe a essere ricoperto dal lavoro del vicino; tanto che a un terzo parrebbe più opportuno scegliere per le sue braccia un altro posto al tentativo di foratura. Ma se uno di loro si mostra persuaso che per questa via diretta non si raggiunge lo scopo di arrivare agli antipodi, e ciò nonostante continua a scavare nel vecchio foro, vuol dire che egli frattanto non si tiene mai pago di trovare pietre preziose o di scoprire leggi naturali. Perciò Lessing, il più leale degli uomini teoretici, osò dichiarare, che a lui importava più la ricerca della verità che la verità stessa: con che è stato rivelato il segreto foudamentale delia scienza, a stupore, inizi a dispetto degli scienziati. Senza dubbio accanto a questa confessione solitaria viene ad aggiungersi, come un eccesso di probità, se non di presunzione, la profonda e convinta illusione, apparsa la prima volta al mondo con la persona di Socrate, di quella fede imperturbabile, la quale crede che il pensiero, mercè il filo conduttore della causalità, arrivi fino ai più profondi abissi dell’essere, e che il pensiero sia in grado non solo di conoscere, ma anche di correggere l’essere. Questa nobile illusione metafisica vale come istinto della scienza, e la riconduce sempre ai suoi confini, sui quali bisogna che si converta in arte: alla quale propriamente mira per mezzo di questo meccanismo.
Contempliamo ora Socrate alla luce di cotesta idea: egli ci appare come il primo, che in preda a questo istinto della scienza seppe non solo vivere ma, ciò che è ben più, anche morire; onde l’immagine del Socrate morente, come un blasone dell’uomo che il sapere e la ragione liberano dal timore della morte, è sospesa sulla porta d’entrata della scienza, e ne ricorda a ognuno l’ufficio, che è quello, cioè, di far apparse intelligibile e quindi giustificata l’esistenza: ufficio al quale senza dubbio, se il ragionamento non vi riesce, deve in conclusione servire anche il mito, che io anzi ho or ora designato come conseguenza necessaria, di più, come mira e scopo della scienza.
Chi si rende chiaro conto, che dopo Socrate, il mistagogo della scienza, le scuole filosofiche si sono succedute l’una all’altra come onda a onda; che fino ai più remoti dominii del mondo incivilito una universalità non mai prima presentita della brama di sapere sospinse la scienza, come vera e propria missione delle menti più idonee, a quell’altezza oceanica da cui in seguito non si potè mai più ricacciarla interamente; che cotesta universalità distese per la prima volta la rete comune dell’umano pensiero su tutto quanto il globo, e, per giunta, con la mira d’includere tra le sue leggi un intero sistema solare; chi tiene presente tutto ciò e, insieme, contempla la stupenda elevatezza della piramide scientifica dell’età presente, non può negare di riconoscere in Socrate il solo asse e il cardine della così detta storia universale. Si pensi infatti che cosa sarebbe avvenuto, se tutta cotesta incommensurabile somma di forza, che fu assorbita da quella tendenza universale, fosse stata impiegata non già in servizio del conoscere, ma negli scopi pratici, vale a dire egoistici, degl’individui e dei popoli. È verosimile, che nelle universali lotte di sterminio e nelle continue migrazioni dei popoli il piacere istintivo della vita si sarebbe affievolito talmente, che, divenuto il suicidio un’abitudine, il singolo avrebbe finito forse, come ultimo avanzo del sentimento del dovere, col tenersi obbligato, figlio, a strozzare i genitori amico, l’amico, secondo che usano gli abitanti delle isole Figi: un pessimismo pratico, che avrebbe potuto ingenerare perfino l’orribile etica dell’eccidio dei popoli per compassione; e che, del resto, esiste ed è esistito da per tutto nel mondo, dovunque, cioè, non è apparsa l’arte in qualsiasi forma, specialmente nella forma di religione e di scienza, a far da rimedio e da difesa contro una tal peste.
Davanti a cotesto pessimismo pratico Socrate è il prototipo dell’ottimista teoretico, che, partendo dalla fede specifica nella penetrabilità della natura delle cose, attribuisce al sapere e alla conoscenza la virtù di una medicina universale e intende l’errore come male in sé stesso. L’uomo socratico giudicava come la più nobile, anzi come l’unica missione veramente umana il penetrare le cause supreme e liberare dall’apparenza sensibile e dall’errore la vera conoscenza; talché da Socrate in poi il meccanismo del concetto, del giudizio e dell’inferenza fu stimato superiore a tutte le altre facoltà, come l’efficienza suprema e il più meraviglioso dono della natura. Anche le più elevate azioni morali, i moti della compassione, del sacrifizio, dell’eroismo, e quella tranquillità dell’animo tanto diffìcile a raggiungere che il greco apollineo chiamava sofrosine, da Socrate e dai seguaci del suo pensiero fino ai giorni nostri furono dedotti dalla dialettica del sapere e per conseguenza designati come apprendibili. Chi ha sperimentato di persona il piacere della conoscenza socratica e sente che questa per cerchi sempre più ampi cerca di abbracciare l’intero rnoudo dei fenomeni, non avverte tra gli stimoli che lo attaccano all’esistenza nessuno più forte della brama di compiere la conquista, e tessere impenetrabile e infrangibile la rete della cognizione. Allora il Socrate platonico a un uomo in tale disposizione di animo appare come il maestro di una forma affatto nuova di «serenità greca» e di eudemonia; forma che cerca di effondersi nell’azione, e trova questa effusione quasi tutta negli effetti maieutici ed educativi esercitati su nobili giovani, al fine di suscitare il genio.
Così, spronata dalla sua potente illusione, la scienza corre verso i propri confini, dove naufraga il suo ottimismo nascosto nell’essenza della logica. Giacché la periferia del cerchio della scienza consta d’infiniti punti; e nel momento stesso in cui non è dato vedere come mai il cerchio possa essere interamente misurato, pure l’uomo di nobile animo e ingegno, prima ancora di essere giunto a mezzo della sua esistenza, incontra inevitabilmente siffatti punti terminali della periferia, dove si arresta nello sgomento dell’inesplicabile. Qui, a suo sbigottimento, come vedo che la logica si ravvolge su sé stessa e infine si morde la coda, gli si erge davanti la forma nuova della conoscenza, la conoscenza tragica, la quale, per venire semplicemente sopportata, abbisogna dell’arte come usbergo e rimedio.
Se ora contempliamo con lo sguardo rafforzato e riconfortato sui greci le supreme sfere del mondo che ci ondeggia d’intorno, verifichiamo che si è convertita in rassegnazione tragica e in esigenza artistica la brama dell’insaziabile conoscenza ottimistica, che ebbe a suo primo modello Socrate; laddove la stessa brama, nei suoi gradi inferiori, deve senza dubbio manifestarsi ostile all’arte, e principalmente aborrire nell’intimo l’arte dionisiaco-tragica, come prova l’esempio della lotta combattuta dal socratismo contro la tragedia eschilea.
E qui, con l’animo commosso, noi battiamo alle porte del presente e dell’avvenire: quella «conversione» condurrà a una configurazione sempre nuova del genio, e precisamente al Socrate musicista? La rete dell’arte stesa sull’esistenza, sia pure sotto il nome della religione o della scienza, sarà intrecciata sempre più salda e più soave, oppure in questo agitarsi e turbinare irrequieto e barbarico, che oggi si chiama «la modernità», è destinata a stracciarsi in sbrendoli? Impensieriti, ma non sconsolati, noi ci teniamo alquanto da parte, come spettatori a cui è permesso di essere testimoni di quelle contese e di quei trapassi prodigiosi. Ahi! Il fascino di tali contese è proprio questo, che chi le guarda deve cacciarvisi anch’esso!