La Nascita della Tragedia/Capitolo XXI
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Capitolo XXI.
Tornando dalle voci esortative alla pacatezza che si addice al pensatore, io ripeto, che solo dai greci è dato apprendere ciò che importi all’intima ragion di vita di un popolo un siffatto miracoloso e repentino risveglio della tragedia. Quello che combatte le battaglie persiane è il popolo dei misteri tragici; ed è naturale che il popolo che ha condotto quelle guerre abbia bisogno poi della tragedia come della necessaria medicina salutare. Chi mai, proprio in cotesto popolo, dopo che per più generazioni era stato agitato nell’intimo dalle più forti scosse del demone dionisiaco, avrebbe supposto un’espansione così regolatamente potente del più semplice senso politico, del più naturale istinto della patria, della voglia originariamente virile della lotta? Se però in ogni considerevole diffusione di sommovimenti dionisiaci si avverte sempre, che la liberazione dionisiaca dalle catene dell’individualità principia col manifestarsi come uno sminuimento degl’istinti politici che va a mano a mano fino all’indifferenza, anzi Ano all’avversione, d’altra parte è pur certo, che Apollo formatore di stati è anche il principium individuationis, e che lo stato e il senso della patria non possono vivere senza l’affermazione della personalità individuale. Per uscire dall’orgiasmo un popolo ha una sola via, la via che mena al buddhismo indiano, il quale non è concepibile in genere nella sua anelanza al nulla, se non col concorso di quei singolari stati dell’animo che si eleva al disopra dello spazio, del tempo e dell’individualità: stati di animo, che a loro volta richiedono una filosofia, la quale insegni a superare con una idea l’indescrivibile disgusto degli stati intermedi. La medesima necessità spinge un popolo, mosso dall’assoluto valore degl’istinti politici, sulla via dell’estrema affermazione mondana e mondiale, la cui espressione più grandiosa, ma anche la più terribile, è il romanum imperium.
Situati tra l’India e Roma e spinti a una scelta seducente, riuscì ai greci di ricavare in classica purezza una terza forma, non certamente atta per lungo tempo a un vero uso, ma appunto per questo data all’immortalità. Giacché la morte precoce dei prediletti degli dèi ha riscontro, sì, in tutte le cose, ma è altrettanto certo, che essi poi vivono eternamente in seno agli dèi. Al più nobile di tutti non si domanda la durevole tenacità del cuoio: la compatta durabilità, quale fu propria, per esempio, dell’istinto nazionale romano, verosimilmente non fa parte dei predicati necessari della perfezione. Se però domandiamo quale farmaco rese possibile ai greci, nei loro grandi tempi e tra le forze straordinarie dei loro istinti dionisiaci e politici, di non esaurirsi né nel torpore estatico né nella logorante cupidità del dominio e della gloria mondiali, ma di raggiungere la stupenda contemperazione che è propria di un vino generoso, conciliante al fervore insieme e alla contemplazione, ebbene, bisogna che volgiamo la mente al prodigioso potere della tragedia, che commosse tutta la vita popolare e la purificò ed alleviò; tanto che del suo supremo valore avremo intendimento solo quando essa si presenterà a noi, del pari che ai greci, come il compendio di tutte le virtù salutari profilattiche, come la mediatrice e la disposi trice fra le più vigorose e per sé stesse predestinate qualità del popolo.
La tragedia assorbe in sé il sommo orgiasmo musicale, tanto da condurre diviato alla perfezione la musica, presso i greci come presso di noi; ma per di più le pone accanto il mito tragico e l’eroe tragico, il quale, simile a un poderoso titano, si carica sul dorso l’intero mondo dionisiaco e ce ne disgrava; mentre per mezzo dello stesso mito tragico essa nella persona dell’eroe tragico sa d’altra parte liberarci dall’avida brama di questa esistenza, e con mano sapiente ci accenna e richiama a un altro essere e a una gioia più alta, a cui l’eroe preso tra le sue lotte si prepara pieno di presentimento, e vi si prepara col suo soccombere, non con la sua vittoria. Tra il valore universale della sua musica e l’ascoltatore dionisiacamente sensibile la tragedia interpone una sublime allegoria, il mito, e suscita nell’ascoltatore quasi l’illusione, che la musica non sia altro che un mezzo supremo di rappresentazione per accendere di vita il mondo plastico del mito. Confidando in questo generoso inganno, essa può movere le membra alla danza ditirambica e abbandonarsi con franchezza a un sentimento orgiastico di libertà, nel quale, come musica per sé stessa, senza quell’inganno, non le sarebbe lecito di arrischiarsi di folleggiare. Il mito ci protegge dalla soverchianza della musica, nello stesso modo come, d’altro canto, conferisce ad essa la suprema libertà. Perciò la musica, in ricompensa, concede al mito tragico una significazione metafisica così penetrante e persuasiva, quale non raggiungerebbero mai, senza l’unico suo ausilio, la parola e l’immagine; e precisamente per sua virtù è riserbato allo spettatore tragico il sicuro pregusto di quella suprema gioia, a cui conduce la via che passa tra la rovina e l’annientamento, tanto che gli sembra di udire il più profondo abisso delle cose parlargli a chiare note.
Se a questo mio arduo concetto forse non mi è venuto fatto di dare nelle ultime proposizioni più che un’espressione provvisoria, accessibile a pochi, mi corre l’obbligo, proprio a questo punto, di non trascurare d’indurre gli amici a un altro tentativo, e di pregarli che si preparino all’intelligenza della tesi generale sopra un singolo esempio della nostra comune esperienza. Con questo esempio io non mi rivolgo a coloro, che si giovano delle immagini dell’azione scenica, delle parole e degli affetti dei personaggi per mettersi in grado, con questo aiuto, di avvicinarsi al sentimento musicale; giacché tutti costoro non sentono la musica come propria lingua materna e perciò, ad onta del detto aiuto, non vanno oltre il vestibolo della percezione musicale, senza poterne punto toccare gl’intimi santuari; anzi qualcuno di loro, come Gervinus, non arriva per quella via nemmeno al vestibolo. All’opposto io devo appellarmi solamente a quelli che, stretti parenti della musica, possiedono in essa, per così dire, il loro seno materno, e sono legati con le cose intorno quasi unicamente per mezzo d’inconsapevoli relazioni musicali. A queste schiette nature musicali io domando, se sanno figurarsi un uomo che sia in grado di ascoltare il terzo atto del «Tristano e Isotta» privo dei sussidi della parola e dell’immagine, puramente come prodigiosa creazione sinfonica, senza esalare lo spirito in una tensione convulsa di tutte le ali dell’anima. Un uomo che, come qui avviene, ha accostato l’orecchio, per così dire, al cavo cardiaco della volontà dell’universo, donde sente espandersi la folle brama dell’esistenza, e con questa espandersi esso medesimo, come un torrente in tempesta o come un dolcissimo rivo smarrito, in tutte le arterie del mondo; in che modo mai potrebbe non spezzarsi d’un colpo? Nel povero velo vitreo della sua corporea individualità umana, come resisterebbe egli all’ascolto dell’eco degl’innumerevoli richiami di gioia e di angoscia prodotti «dall’ampio spazio della notte dei mondi», senza strapparsi a questa ridda pastorale della metafisica e rifuggirsi inarrestabilmente nella sua patria primordiale? Che se pure una tale opera possa venir percepita nella sua complessa totalità senza l’annientamento dell’esistenza individuale, se una tale creazione fu potuta esser creata senza mettere in brani il suo creatore, ebbene, donde attingeremo la soluzione di una contraddizione siffatta?
Qui tra la nostra suprema eccitazione musicale e la musica interviene il mito tragico e l’eroe tragico, in fondo non più che come allegoria dei fatti universalissimi, dei quali solo la musica ha potestà di parlare in via diretta. Se non che il mito, quale allegoria, ove lo sentissimo come puri esseri dionisiaci, rimarrebbe senza effetto e senza l’adeguato apprezzamento, né ci distoglierebbe un sol momento dal tendere l’orecchio all’eco degli universalia ante rem. Ma qui sorge la potenza apollinea, rivolta a ripristinare l’individuo quasi annientato, col balsamo salutare di un’illusione deliziosa: immantinente noi crediamo di vedere niente altro che Tristano, quando immoto e cupo si domanda: «la canzone antica: che cosa mi desta?» E ciò che prima c’invadeva come un sospiro profondo dal centro dell’essere, ora ci dice solamente che «deserto e vuoto è il mare». E dove noi senza fiato credevamo di spegnerci in una tensione convulsa di tutti i sensi, e un punto solo ci teneva legati a questa esistenza, ecco che ora udiamo e vediamo unicamente l’eroe ferito a morte, ma non morente, che esclama in un disperato singulto: «Desiderio! sospiro! Morendo io sospiro di non morire di desiderio!» E se prima il suono giubilante del corno in una tale sovrabbondanza e un tale eccesso di angosce divoranti ci spezzava il cuore come l’angoscia estrema, adesso invece tra noi e cotesto «giubilo in sé stesso» s’interpone l’esultante Kurwenal, rivolto alla nave che si porta Isotta. Pei quanto potentemente la compassione ci ricerchi l’anima, pure in un certo senso la compassione ci salva davanti al dolore primordiale del mondo, nello stesso modo come l’immagine allegorica del mito ci salva davanti all’intuizione immediata della suprema idea del mondo, e come ci salvano il pensiero e la parola davanti all illuvione irrefrenabile dell’inconscia volontà. In virtù di cotesta magnifica illusione apollinea ci sembra quasi, che lo stesso regno dei suoni ci mova incontro come un mondo plastico; ci sembra quasi, che in esso sia unicamente conformato ed effigiato ed impresso, come in una sostanza dolcissima e ubbidiente alla figura, il destino di Tristano e Isotta.
In tal guisa il senso apollineo ci strappa all universalità dionisiaca e c’invaghisce degl’individui: a questi vincola la nostra compassione, per mezzo di questi appaga il sentimento della bellezza, che anela alle grandi e sublimi forme: esso ci fa scorrere davanti le immagini della vita e c’invoglia a indagarne e intenderne col pensiero il nucleo vitale riposto. Mercè l’efficacia enorme dell’immagine, del concetto, della dottrina etica, della commozione simpatica, il senso apollineo solleva l’uomo dall’orgiastico annientamento di sé stesso, e lo inganna e fa passare sull’universalità del processo dionisiaco inducendolo nella credenza illusoria, che egli vede una singola immagine del mondo, per esempio quella di Tristano e Isotta, e la vede per mezzo della musica unicamente al fine di poterla vedere anche meglio e nell’intimo. Che cosa non può fare la magia risanatrice di Apollo, se può suscitare in noi l’illusione, che essa abbia effettivamente la virtù di porre la potenza dionisiaca al servigio dell’apollinea e di accrescerne l’efficacia e gli effetti, e che anzi la stessa musica sia essenzialmente un’arte rappresentativa dal contenuto apollineo?
In forza di cotesta armonia prestabilita che fonde il dramma perfetto con la sua musica, il dramma raggiunge quel sommo grado di evidenza rappresentativa, che altrimenti sarebbe inaccessibile al semplice dramma parlato. Come tutte le figure vive della scena, nelle linee melodiche che procedono indipendenti, si semplificano davanti a noi per la chiarezza della linea che risalta, così il complesso di queste linee ci suona all’orecchio nella vicenda armonica che simpatizza e si confonde nel modo più delicato con gli avvenimenti dell’azione in corso: vicenda di armonie, mercè la quale le relazioni delle cose tra loro riescono percepibili ai nostri sensi, e non già in modo astratto, ma immediatameute apprensibili, nel modo stesso come anche per mezzo di quelle armonie riconosciamo, che solo nelle relazioni delle cose si rivela con purezza 1 essenza di un carattere e di una linea melodica. E mentre la musica ci costringe così a vedere di più e più addentro che mai, e ad estendere davanti a noi la cortina delle scene come un tessuto cedevole, il mondo del teatro davanti ai nostri occhi addestrati a guardare le cose nell’intimo si amplia all’infinito, come per una luce che lo illumini dal di dentro in fuori. Che cosa potrebbe offrir di simile il librettista, che aiutandosi con un meccanismo di troppo più imperfetto, per via indiretta, partendo dalla parola e dal concetto, si affatica a ottenere quell’ampliamento interiore del mondo scenico contemplato, e l’intimo lume con cui lo rischiara l’anima dello spettatore? Anche la tragedia musicale prende a compagna, sì, la parola; ma essa può insieme porre in luce la cagione recondita e il punto dove è nata la parola, e della parola chiarire dal di dentro tutto il divenire.
Se non che del processo ora descritto sarebbe altrettanto esatto dire, che esso è meramente una magnifica apparenza, vale a dire è l’illusione apollinea mentovata poc’anzi, per effetto della quale veniamo a essere sollevati dalla oppressura e dall’eccesso dionisiaci. In fondo, anzi, il rapporto della musica col dramma è precisamente l’inverso: la musica è la vera e propria idea del mondo, il dramma è meramente un riflesso di questa idea, un suo singolo fantasma staccato. L’identità fra la linea melodica e la figura vivente, fra l’armonia e i rapporti caratturistici di quella figura, è vera in un senso opposto a quale ci possa sembrare assistendo allo spettacolo della tragedia musicale. Per quanto noi possiamo movere, nel modo più evidente allo sguardo, la figura, e animarla e illuminarla dal di dentro, pure essa continua a essere non più che il fenomeno, dal quale non c’è ponte che meni alla vera realtà, all’intimo cuore del mondo. Soltanto la musica è la voce che parla dal fondo di questo cuore; e innumerevoli fenomeni di quella specie potrebbero bene passare attraverso la stessa musica, e non ne esaurirebbero mai l’essenza, bensì ne sarebbero sempre niente altro che immagini commutabili. Con l’opposizione popolare e interamente falsa di anima e corpo non si spiega, certo, nulla del difficile rapporto di musica e dramma, e si sconcerta tutto; ma la grossolanità afilosofica di quella opposizione sembra esser diventata proprio per i nostri esteti, chi sa per quali ragioni, un articolo di fede volentieri professato, mentre, nel tempo stesso, non hanno imparato nulla dall’opposizione di fenomeno e di cosa in sé, oppure, per ragioni parimente ignote, nulla hanno voluto imparare.
Se abbiamo dimostrato con la nostra analisi che lo spirito apollineo nella tragedia ha, in virtù della sua illusione, riportato piena vittoria sull’elemento originario dionisiaco della musica, e che questa a sua volta ha giovato ai fini apollinei, vale a dire ha giovato a conferire al dramma La massima chiarezza, certamente però bisogna apportare a ciò una restrizione molto importante; ed è, che nei punti più essenziali l’illusione apollinea è rotta e annullata. Il dramma, che col sussidio della musica ci si svolge davanti con una chiarezza, così intimamente illuminata, di tutti i movimenti e figure, come se vedessimo nascere un tessuto sul telaio nell andirivieni della spola, raggiunge come totalità un effetto, che è riposto di là da tutti gli effetti artistici apollinei. Lo spirito dionisiaco nell’effetto totale della tragedia riprende la prevalenza: essa si chiude con una risonanza, che non potrebbe mai salire dal dominio dell’arte apollinea. E così l’illusione apollinea si rivela per quella che è, ossia come il continuo velame gettato sul vero e proprio effetto dionisiaco per tutta la durata della tragedia; effetto, il quale è pure così potente, che alla fine spinge lo stesso dramma apollineo in una sfera, dove comincia a parlare con sapienza dionisiaca, e dove nega sé stesso e il suo appaiamento apollineo. Talché bisognerebbe effettivamente simboleggiare il difficile rapporto dello spirito apollineo e del dionisiaco nella tragedia con l’immagine di un affratellamento delle due divinità: Dioniso parla il linguaggio di Apollo, ma Apollo finisce col pai lai e il linguaggio di Dioniso: con che vien conseguito il fine supremo della tragedia e, in generale, dell’arte.