La Scimitarra di Budda/30. La guida birmana

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30. La guida birmana

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30.

LA GUIDA BIRMANA


Il tempo era tutt'altro che buono. Fitte masse di vapori si erano ammonticchiate nella profondità del cielo e coprivano le sommità dei monti. Pareva imminente un acquazzone o una grandinata. Infatti, a sei miglia dalla capanna, cadde una grandinata fitta fitta, a larghe zone, denudando con rapidità spaventevole le piantagioni di bambù e tempestando i cavalieri in siffatta guisa da costringerli a ripararsi la testa colle coperte piegate in due. Malgrado ciò, nessuno parlò di ritornare alla capanna o di deviare verso le foreste che coprivano i fianchi dei monti. Tutti e quattro avevano fretta di ritornare sulle rive dell'Irawaddy per noleggiare un battello e discendere fino alla Città degli immortali. Il paese circostante era disabitato, ma ingombro di stagni, dove migliaia e migliaia di uccelli acquatici si sollazzavano, di piantagioni di bambù tulda e di alberi del tek. Alle undici del mattino, essendo tornato il sole, il Capitano ordinò l'alt ai piedi di un tamarindo per lasciar riposare i cavalli. Vi stavano da pochi minuti, quando udirono, a breve distanza, rimbombare una fucilata. In un paese così deserto, un colpo di fucile era da tenersi in conto, ond'è che i viaggiatori furono lesti a raccogliere le carabine e mettersi in guardia.

– Chi ha sparato? – chiese James. – Forse il birmano della capanna?

– Andiamo a vedere, James. Tenete però pronte le armi.

La detonazione era echeggiata nel mezzo di un bosco che si estendeva fino ai primi contrafforti delle montagne. Vi entrarono tendendo ben bene gli orecchi per raccogliere il più piccolo rumore. Dopo dieci minuti sbucavano in una piccola radura, in mezzo alla quale, presso uno stagno, un birmano stava sventrando un cinghiale. A pochi passi da lui, appoggiato ad un albero, c'era un fucile. Quell'uomo era tozzo, robusto, con una faccia arcigna, butterata dal vaiolo asiatico, e di una tinta assai fosca. A prima vista non ispirava fiducia alcuna. Udendo i cavalli a nitrire, s'alzò con sorprendente agilità.

– Sei cacciatore? – gli chiese il Capitano in cinese.

Il birmano lo guardò per alcuni istanti in silenzio, poi rispose pure in cinese:

– Sì, cacciatore.

– Toh! – esclamò l'americano. – Il briccone parla cinese. Che sia anche lui un uomo dipinto?

– Sei birmano? – chiese Giorgio.

– Sì, birmano della Città degli immortali – rispose il cacciatore.

– Noi siamo qui smarriti e dobbiamo recarci ad Amarapura. Vuoi servirci da guida?

Il birmano si passò le mani sulla faccia e, dopo un po' di esitazione, rispose:

– Io non sono ricco.

– Lo so – disse il Capitano. – Quando saremo giunti ad Amarapura vi darò dieci once d'oro.

Il birmano non esitò più e s'impegnò a ricondurli sulle rive dell'Irawaddy, e quindi, per mezzo di una barca, ad Amarapura. Intesisi su di ciò, si misero all'opera per arrostire un pezzo di cinghiale. Il birmano, aiutato dal polacco, terminò di sventrare l'animale, accese un gran fuoco e mise ad arrostire i pezzi più delicati. Mentre sorvegliava l'arrosto, il Capitano trasse il cinese e l'americano in disparte per consigliarsi sul da fare. A dire il vero, l'aspetto di quell'indigeno non era molto rassicurante, tuttavia potevasi comperarlo con una grossa somma e indurlo ad aiutarli nella ricerca della Scimitarra. Questo fu il progetto che il Capitano espose ai suoi compagni. L'americano, che trovava tutto facile e buono, l'appoggiò, ma il cinese non fu d'egual parere e consigliò, prima di dire ogni cosa al birmano e di fargli una proposta, di scandagliare prudentemente il terreno. Il pasto fu fatto in pochi istanti. Il birmano, che lavorava di denti non meno dell'americano, fra un boccone e l'altro, raccontò agli stranieri che si chiamava Bundam, che aveva percorso l'impero dal sud al nord, un giorno come barcaiolo o come soldato, un altro come cacciatore, pescatore, contadino, servo, minatore. Aveva fatto insomma tutti i mestieri. Il Capitano, che non perdeva sillaba, afferrò l'occasione che gli si presentava così opportunamente.

– Dimmi un po', hai udito parlare della Scimitarra di Budda?

– Sì, e tanto.

– L'hai vista tu?

– No, perché non è più visibile. Dopo che alcuni sacrileghi tentarono di rubarla, l'imperatore la fece nascondere.

– E dove?

– Chi lo sa? Alcuni dicono in Amarapura, altri nella città di Pegù.

– E non la ruberesti tu, se ti si presentasse l'occasione?

– Io! – esclamò il birmano con indignazione. – Io derubare il mio imperatore? Mai! Mai!

Il Capitano corrugò la fronte. Si trovava dinanzi ad un uomo incorruttibile; tuttavia volle tentare un ultimo colpo.

– E se ti si offrisse una somma tanto grossa da poter vivere da signore per tutta la vita, accetteresti?

Il birmano lo guardò con profondo stupore, coi lineamenti leggermente alterati. Un lampo sinistro, rapido, attraversò i suoi occhi.

– Avresti forse... l'idea di rubare la Scimitarra di Budda? – domandò esitando.

– Mai più! – esclamò il Capitano, che s'accorse di essere andato tropp'oltre. – Avrei paura di venire fulminato dal dio irritato.

Il birmano finse di credere alle parole del Capitano e cangiò discorso parlando del paese, dei suoi abitanti, delle cacce e degli animali. La conversazione durò animata fino alle nove del mattino, ora indicata per la partenza. Il birmano salì in sella dietro il piccolo cinese, e la cavalcata partì percorrendo alcuni sentieri appena visibili, intersecati di quando in quando da impetuosi torrenti che correvano verso est. Tutta la giornata i cavalieri si tennero presso le montagne, attraversando spesso belle foreste e piantagioni d'indaco, di cotone, di piante medicinali e di mimose chatecu. Alcune casupole furono viste qua e là, appollaiate come aquile sulle cime delle rupi e così pure qualche fortino, sul quale vedevasi sventolare la bandiera imperiale.

Alle otto di sera, quando il Capitano comandò la fermata, l'ultima traccia d'abitato era scomparsa da parecchie ore. Non v'erano che montagne e grandi boschi. Il polacco s'affrettò ad accendere il fuoco, ma quando volle empire la pentola s'accorse che la sua fiasca era affatto vuota e che vuote erano pure quelle dei compagni. Stava per sellare il cavallo onde tornare all'ultimo torrente, quando il birmano si offrì di recarli ad una fonte che trovavasi in mezzo ai monti. I viaggiatori acconsentirono. Bundam, caricato il moschettone e prese le fiaschette, si allontanò con passo rapido cacciandosi sotto le oscure foreste. Passò mezz'ora, ma il birmano non ritornò, quantunque il Capitano gli avesse raccomandato di far presto. L'americano, che vedeva il fuoco spegnersi, cominciò a impazientirsi. Era trascorsa un'altra mezz'ora, quando sulla cima della montagna più vicina apparve una fiammata che ben presto prese proporzioni gigantesche, illuminando i boschi e i picchi circostanti.

– Oh! – esclamò l'americano. – Cosa significa quel fuoco?

– Guardate, sir James – disse il polacco. – Non vedete un uomo gettare in aria dei tizzoni?

– Infatti lo vedo. Ma il nostro birmano dove si è cacciato? Che sia lui che ci fa dei segnali? Oh! Oh!

La doppia esclamazione gli fu strappata dal fatto di vedere un altro fuoco ardere sulla cima di un'altra montagna assai lontana. I due falò durarono cinque minuti, poi si spensero quasi contemporaneamente.

– È strano – disse il Capitano, diventato inquieto. – Quei fuochi sono senza dubbio dei segnali.

Il birmano non comparve che dopo un'altr'ora, colle fiaschette piene d'acqua.

Il Capitano, vedendolo madido di sudore e affannato come se avesse fatto una lunga corsa, gli chiese di dove veniva.

– Dalla fonte – rispose Bundam. – Ho impiegato molto tempo perché il cammino era ingombro di piante assai fitte.

– E hai veduto dei fuochi?

– Sì, li ho visti. Mi trovavo allora sulla cresta di una rupe.

– Sai dirmi cosa significano?

– Lo ignoro.

Il Capitano non insistette ed aiutò i compagni a preparare il pasto della sera.

Quella notte Giorgio dormì con un sol occhio e altrettanto fece Min-Sì. Entrambi diffidavano ormai del birmano. La domane gli avventurieri volevano partire per tempo, ma il birmano, accusando forti dolori, fece ritardare la marcia fin dopo il mezzodì.

Dopo poche ore di cammino, le montagne che fino allora eransi mantenute altissime, cominciarono ad abbassarsi. Ben presto apparvero delle colline, poi delle piccole alture e infine delle immense pianure verdeggianti, in mezzo alle quali scorgevasi qualche abitazione.

– Ci avviciniamo all'Irawaddy – pensò il Capitano.

Infatti tutto indicava la vicinanza del grande fiume: la moltitudine di fiumicelli che correvano all'est, la fertilità straordinaria del terreno ingrassato dalle piene periodiche, le immense risaie, l'aria stessa, umida e fresca. I cavalieri stimolavano i cavalli, ma il birmano li guidava attraverso sentieri così pantanosi e ingombri di cespugli spinosi che la marcia diventava faticosissima. Si sarebbe detto che quell'uomo voleva, chissà mai con quali fini, ritardarla. Nondimeno era ancor giorno, quando, affranti, arrostiti dal sole, giunsero sulle sponde dell'Irawaddy. Il fiume era affatto deserto e scendeva tranquillo come se le acque fossero oliate, trascinando con sé molti alberi e ammassi di lunghi bambù. Le due rive, lontane un buon miglio l'una dall'altra, erano coperte di fitti boschi e non appariva, a prima vista, nessun villaggio né a sud, né a nord.

– E come attraverseremo il fiume? – chiese James.

– Costruiremo una zattera – rispose Bundam.

– E i cavalli?

– Peuh! – fece il birmano alzando le spalle. – Sono così slombati che valgono due once tutti e quattro. Adopereremo i loro ventricoli per rendere più galleggiante l'apparecchio.

Nulla vi era da ridire. Il birmano sgozzò i cavalli e li sventrò con sorprendente abilità, gonfiando e poi chiudendo ermeticamente i ventricoli. Giorgio, James, il polacco e il cinese abbatterono parecchi grossi bambù e costruirono una bella zattera, munendola di un largo timone. Non restava che da imbarcarsi. Il Capitano e i suoi compagni salirono a bordo. La notte era così oscura, che distinguevasi a mala pena la riva opposta. La zattera, spinta al largo, cominciò a scendere il fiume, assai sostenuta dai ventricoli dei cavalli. Ma non aveva ancora percorso mezzo chilometro, che un razzo partì dai boschi della riva opposta, descrivendo una grande curva.

– Che significa ciò? – chiese il Capitano, che presentiva un tradimento.

– Siamo in settembre – rispose il birmano. – Avete paura di un razzo?

– No – disse il Capitano, tornando al remo. – Amici, guardate attentamente le due rive.

In quell'istante s'udì, sulla riva opposta, un chiocciare strano.

– Oh! – esclamò l'americano. – È forse un segnale?

– È un fagiano – disse Bundam.

Il Capitano armò la carabina, guardò attentamente la riva, ma nulla vide di sospetto. La zattera tirò innanzi cinquanta o sessanta passi tagliando obliquamente la corrente. Era giunta in mezzo al fiume, quando un nuovo razzo venne a scoppiare a pochi passi dai naviganti. Il polacco mandò un grido:

– Degli uomini!

Non aveva ancor terminato, che una fucilata risuonò in mezzo ad un boschetto, seguita da urla indescrivibili. Una banda d'uomini si slanciò sulla riva agitando freneticamente le armi.

– Tradimento! – gridò Giorgio, afferrando la carabina.

Una dozzina di fucilate furono sparate contro la zattera. Il Capitano stava per far fuoco, quando ricevette una spinta così forte da cadere. Tentò di sollevarsi nel mentre i suoi compagni scaricavano le armi, ma due braccia di ferro lo tennero fermo. Volse la testa e vide sopra di sé Bundam con un coltello in pugno.

– Ah, miserabile! – urlò Giorgio furibondo. – Aiuto! Aiuto!

James accorse, piombò sul birmano, l'atterrò; indi, afferratolo pei capelli, lo scaraventò in mezzo alla corrente, che lo inghiottì.