La Scimitarra di Budda/31. Sull'Irawaddy

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31. Sull'Irawaddy

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31.

SULL'IRAWADDY


Liberatisi del traditore, i viaggiatori si calarono in acqua tenendosi saldi ai bordi della zattera onde offrire minor bersaglio alle palle che grandinavano intorno a loro. I birmani, poiché non potevano essere che tali, sfogavano la loro ira con frequenti scariche e con urla che salivano fino al cielo. Visto che l'apparecchio scendeva sempre con la corrente, si misero a correre sulla riva intimando ai fuggiaschi di approdare. Uno, più ardito degli altri, si gettò in acqua per raggiungerli, ma una palla di Casimiro lo fece colare a fondo.

– Animo, amici – disse il Capitano. – Spingiamo la zattera sulla riva opposta. Se non ci affrettiamo, siamo perduti.

Tenendosi sempre aggrappati ai bambù, si misero a spingere di traverso l'apparecchio, nonostante la rapidità della corrente. Per un po' di tempo tutto andò bene, malgrado le palle che fischiavano in tutte le direzioni, ma poi un enorme tronco di tek che seguiva il filo dell'acqua, urtò così fortemente la zattera che questa si sfasciò.

– Andiamo a picco! – gridò l'americano.

Quel grido fu udito dai birmani, i quali spararono in quella direzione forando il cappello del polacco.

– Zitto! – disse il Capitano.

– Ma andiamo a picco!

– Aiutatemi a riunire i bambù prima che la corrente se li porti via. Ehi! Casimiro, tieni alta la faccia se non vuoi diventare bianco. Non scordarti che siamo dipinti.

La zattera continuava a sfasciarsi, minacciando di perdere le armi, i viveri, le munizioni e le coperte che portava. Bisognava assolutamente riunirla. Il Capitano e Casimiro, aiutandosi colle mani e coi piedi, si issarono a bordo tentando di rannodare i legami, ma ben presto si convinsero della inutilità dei loro sforzi.

– Aggrappiamoci ai ventricoli dei cavalli – disse il Capitano.

– E i birmani? – chiese James.

– Non li odo più. Orsù, carichiamoci delle armi e delle munizioni.

Si legarono i fucili e le munizioni sulla testa, si appoggiarono ai galleggianti e si diressero verso la riva, ma giunti a pochi passi scorsero con terrore delle nere ombre che vagavano qua e là, mugolando e miagolando. Non ci volle molto a riconoscerle per tigri. Il Capitano si diresse verso l'altra riva, ma non ebbe miglior fortuna. Anche qui c'erano delle belve in gran numero.

– Decisamente questo fiume non fa per noi – disse l'americano, che ne aveva fino ai capelli di quel bagno forzato.

– Attendiamo l'alba – disse Giorgio. – Fortunatamente i birmani sono scomparsi.

– Quel cane di Bundam ci ha fatto un gran brutto tiro, Giorgio. Chi avrebbe mai sospettato in lui un traditore?

– Quell'uomo era più furbo di noi. Egli s'era accorto che non eravamo cinesi delle frontiere.

– Che abbia avuto dei complici?

– Certamente, James.

– Allora fu Bundam ad accendere il fuoco sulla montagna.

– Non ho più alcun dubbio.

– Ehi! – gridò in quel momento il cinese, che nuotava in testa a tutti. – Badate ai piedi!

Non aveva ancor finito che l'americano sentì strapparsi la pelle delle uose da alcune punte aguzze. Si lasciò calar giù e toccò il fondo del fiume.

– Abbiamo un banco sotto i piedi – diss'egli.

– E un isolotto dinanzi – disse Giorgio. – Avanti, e approdiamo.

Lacerandosi i piedi, inciampando e rialzandosi, cacciati innanzi dalla furia della corrente, in breve tempo guadagnarono l'isolotto segnalato, che era coperto di bellissimi alberi e di altissimi bambù.

– Siamo soli? – chiese l'americano.

– Non vedo nessuno – disse il polacco.

– In tal caso possiamo chiudere gli occhi. Io non mi reggo più.

S'accomodarono fra gli alberi e i bambù e, malgrado il fragore della corrente che frangevasi e rifrangevasi contro l'isolotto, i barriti degli elefanti, i miagolii delle tigri e i muggiti dei bufali che venivano alle sponde del fiume, s'addormentarono profondamente come fossero dentro una solida capanna. Verso le sei del mattino, il polacco fu improvvisamente svegliato da uno sbattere di remi e da un allegro vociare. S'alzò lentamente e, senza far rumore, strisciò verso la riva nascondendosi sotto un cespuglio. Una bella barca dalle forme svelte, dalla stazzatura di venticinque o trenta tonnellate, munita di due alberetti armati di vele, cercava di approdare all'isolotto.

– Buono! – mormorò il polacco. – Quella bella barca fa per noi.

Mentre i birmani che la montavano gettavano l'àncora, egli corse a svegliare i compagni e li mise al corrente di tutto.

– C'imbarcheremo, allora – disse James. – Andiamo, compagni.

Raggiunsero la riva e si presentarono ai barcaioli che erano già sbarcati. Giorgio chiese del capitano e lo pregò di prenderli a bordo fino ad Amarapura. La proposta fu accettata di buon grado, essendo costretta la barca, che era diretta a Prome con un carico di riso, a passare dinanzi alla capitale dell'impero.

Mezz'ora dopo il Rangun, tale era il nome della bella barca, lasciava l'isolotto scendendo rapidamente la gran fiumana, che svolgevasi maestosamente fra immense pianure. Gli avventurieri, dopo aver visitato il legnetto, s'abbandonarono ad un profondo sonno che né il cannone, né la gran campana di Pechino sarebbero stati capaci di rompere. Una russata non interrotta di dodici ore ridonò loro le forze, logorate dalle fatiche sopportate in quel meraviglioso viaggio attraverso la gran penisola indocinese. Fumando, cianciando, progettando e soprattutto divorando, passarono quattro bei giorni, durante i quali il Rangun, guidato dall'abile mano del capitano Nan-Yua, continuò a filare verso il sud, passando dinanzi a cittadelle, a villaggi, a borgate e a fortezze, a vastissime foreste, a sconfinate piantagioni d'indaco e di cotone, di tabacco e a risaie, sulle quali vedevansi svolazzare migliaia e migliaia di cornacchie, arditissimi volatili che si introducono sfrontatamente nelle abitazioni per saccheggiare le provvigioni. Il 18 settembre la navigazione divenne più rapida dei giorni precedenti e più variata. Ad ogni istante si incontravano bastimenti di piccola portata, senza dubbio varati sui celebri cantieri di Prome, cannoniere dello stato, barconi, battelli e canoe lunghe assai, svelte, munite di quindici, venti e persino trenta pagaie e che filavano rapide come frecce, condotte da robusti barcaioli bizzarramente tatuati e vestiti con calzoncini a smaglianti colori.

Verso il mezzodì, il Rangun passò dinanzi a Tsengu-mjo, cittadella di qualche importanza, situata sulla riva sinistra. Alle quattro apparvero le cittadelle di Schenmaga e di Yedo-Yua, poi splendide ville, attruppamenti di capanne, forti, fortini, campi trincerati, cantieri e gran numero di templi. Il movimento del fiume si accrebbe straordinariamente. Da tutti i punti delle rive staccavansi barche che prendevano frettolosamente il largo; in tutti i villaggi, borghi e ville, caricavansi le preziose derrate del paese. Alle dieci di sera, il Rangun imboccava il canale che mena alla capitale birmana. Quindici minuti dopo appariva una massa imponente di cupole di pagode, di tetti, d'antenne. Nan-Yua tese il braccio verso quella città sorta quasi improvvisamente fra le tenebre, esclamando:

– Amarapura!