La Tebaide/Libro quinto
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Traduzione dal latino di Cornelio Bentivoglio d'Aragona (1729)
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LA MORTE DEL BAMBINO OFELTE
Spenta la sete, e saccheggiato e scemo
il fiume d’onde, n’escon fuor le schiere:
più vivace il destrier trita l’arena;
più lieti van per la campagna i fanti;
5ogni guerrier l’usato ardir riprende,
e le prime minacce e i primi voti:
sembra che nuovo fuoco abbian con l’onde
bevuto, e accese a guerreggiar le menti:
torna ciascuno alle sue insegne, a’ duci,
10all’ordin primo; e già schierato il campo
si muove e marcia: alzasi immensa polve,
e al balenar di cotant’armi e a’ lampi
par ne sfavilli la gran selva ed arda.
Sì dal tepido Egitto, ove le nevi
15fuggîr dell’aspro verno, a noi sen viene
stormo di grù dal Paretonio Nilo,
allor che scioglie primavera il ghiaccio:
esse volan gracchiando, ed al rumore
l’aria risuona, e tutte accolte insieme
20fann’ombra colle penne a’ campi e a’ mari:
già piaccion loro i freddi venti e i nembi,
ed han diletto di nuotar pe’ fiumi
sciolti dal gelo, e l’importuna estate
passar su’ monti scarichi di neve.
25 Il figlio allor di Talaone, Adrasto,
d’un orno all’ombra, e d’ogn’intorno cinto
da’ maggior duci, ed appoggiato a l’asta
di Polinice, a Isifile favella:
- O tu, chiunque sei, ch’hai gloria e vanto
30d’aver data salute a tante schiere,
(onor di cui si pregierebbe Giove)
deh ci racconta, ora che stiam d’intorno,
tua gran mercede, alle benefich’onde,
qual la tua patria sia, qual la tua stirpe,
35da qual astro discenda e da qual padre.
Certo, sebben te la fortuna prema,
il tuo sangue è da’ numi, e lo palesi
al nobil volto, e da l’afflitto aspetto
esce splendor che riverenza induce. -
40 Sospira allor la donna, e ’l viso bagna
d’alquante lagrimucce; indi risponde:
- Tu mi comandi, o Re, ch’io rinnovelli
l’acerbe piaghe ed il furor di Lenno,
l’orrido tradimento, e ’l viril sesso
45spento da infame ferro. Ah che di nuovo
parmi veder l’abbominata impresa,
e sento al cuor della gelosa Erinni
il velen freddo. Oh sfortunate donne
da Furie invase! Oh scelerata notte!
50Io quella, o duci (acciocchè a voi sì vile
non sembri il mio soccorso) io quella sono
che, il genitor celando, a morte tolsi.
A che tutti riandar sì lunghi affanni?
Voi chiaman l’armi e i bellici apparati:
55basti saper che Isifile son io,
figlia di Toante, e di Licurgo or serva. -
Stupiro; e parve lor più grande e degna
d’onore, e a cui debban salute e vita;
e di saper suoi casi in lor s’accese
60maggior la brama; onde di nuovo Adrasto:
- Anzi noi ti preghiam, mentre che ’l calle
sgombran le prime schiere, e non sì tosto
saran l’altre spedite in tanta selva
intralciata di rami e d’ombre eterne;
65narra gli altrui misfatti e le tue lodi,
e di Regina chi ti fece ancella.
Giova il dolore mitigar parlando
a’ miseri, e trovar chi li compianga. -
Ed essa allor: - Lenno dall’onde è cinta
70del procelloso Egeo: sovente in essa
Vulcan riposa dagli etnei sudori;
l’Ato sublime tutta intorno intorno
l’isola adombra, e di sue molte selve
stende l’opaca immagine nel mare:
75stanno i Traci a rimpetto a noi fatali,
e d’ogni nostro mal prima cagione.
Di popoli fioriva e di ricchezze
l’isoletta felice; e a Samo, e a Delo
cotanto per gli Oracoli famosa,
80e a quant’altre ne abbraccia il vasto Egeo,
non cedeva di fama e di valore.
Ma piacque a’ Dei turbar le nostre case,
nè senza nostra colpa. I tempii e i fuochi
non fur fra noi a Venere concessi.
85Anche ne’ Dei sdegno si desta; e a noi
giungon con tardo piè le giuste pene.
Fama è che accesa di furor la dea
lasciò l’antica Pafo e i cento altari,
e mutata d’aspetto e d’ornamenti
90si sciolse il cinto coniugal da’ fianchi,
e degl’Idalii augei più non le calse.
Molte vi fur che nella buia notte
la vider penetrar ne’ chiusi alberghi,
di maggior face e maggior dardi armata,
95in mezzo a le tre figlie d’Acheronte.
Ma non sì tosto le più interne stanze
infestò colle serpi, e sparse intorno
odi, timori, gelosie e sospetti,
sparîr da Lenno i lusinghieri amori:
100Imeneo sen fuggì, le nuzïali
tede rimaser spente; e fur incolti
i legittimi letti: alcun piacere
non ha seco la notte; e in dolci e casti
amplessi più non dorme alcun marito.
105Sorgon risse per tutto, ire e rancori,
e in ogni letto la Discordia giace.
Era solo piacer del viril sesso
pugnar co’ Traci negli opposti lidi,
e col ferro domar la fiera gente;
110e benchè in faccia abbian le case e i figli,
aman piuttosto le bistonie nevi
e gli Aquiloni; e di riposo invece
dopo il pugnar, con subite ruine
torrenti udir precipitar da’ monti.
115Io era allor in giovinetta etade
vergine ancora e d’ogni cura scarca.
Ma le donne di Lenno afflitte e immerse
in un continuo lutto, ora con gli occhi
pendon da’ tracii lidi, ora il dolore
120cercano insieme mitigar parlando.
Tenea sospeso in su ’l meriggio il carro
Febo, come se stesse e i suoi destrieri
riprendessero lena; e d’ogn’intorno
era sereno e senza nubi il cielo:
125quando ben quattro volte orribil tuono
udissi, e quattro volte il mar turbossi
senza venti e procelle; ed altrettante
gli antri del nostro Dio vomitâr fiamme.
Ed ecco uscir contro l’usato fuori
130del chiuso albergo dalle Furie invasa
la canuta Polisso: appunto come
suol Menade Baccante, allor che il Nume
l’eccita e chiama alle sue feste insane,
al suon de’ bossi, onde rimbomba il monte.
135Costei torve le luci e sanguinose,
orribile in sembianza e furibonda,
la deserta città confonde e turba:
batte le porte, e un reo concilio aduna.
Dietro le vanno gl’infelici figli.
140Ella insta e preme; e già lasciati i tetti,
tutte corriamo alla Palladia rocca:
senz’ordine e confuse empiamo il tempio.
Ma la crudele impon silenzio, e ’l ferro
nudo tenendo in man, feroce parla:
145 - Vedove donne, al memorabil fatto,
che ispirata da’ Numi io vi propongo,
gli animi ergete, ed obblïate il sesso.
Se in odio è a voi nelle deserte case
viver solinghe, e dell’etade il fiore
150veder marcir negletto, e menar gli anni
sempre infecondi in su le fredde piume:
il modo io so (nè mancheranne il Cielo)
di trovar nuove nozze e nuovi amori,
pur ch’eguale all’affanno in voi si desti
155valor, ed or da l’opra io ’l riconosca.
E chi di voi (e già la terza neve
veduta abbiam) ne’ maritali letti
gustò piaceri occulti? E chi nel seno
si scaldò del marito in casti amplessi?
160Chi Lucina invocò? Chi portò il ventre
gonfio, co’ voti accelerando i mesi?
Giungonsi insieme pur e fere e augelli;
e noi sole staremo? O vili! O pigre!
Potè di ferro alle donzelle greche
165le mani armare il padre e i dolci sonni
de’ generi mirar sparsi di sangue.
E noi imbelle vulgo inulte stiamo?
Che s’uopo è ancor di più vicini esempi:
la gran donna di Tracia a far vendetta
170v’insegni ultrice dell’offeso letto,
che diè al marito i propri figli in cibo.
Nè innocente tra voi sola e sicura
essere io voglio: io mostrerò il cammino.
Molti scherzano a me nelle paterne
175case miei figli e miei sudori insieme:
quattro n’ho meco, cura e amor del padre:
vo’ recarmeli in grembo, e questo ferro
(nè riterranmi i loro amplessi e i pianti)
loro immerger nel cuore, e de’ fratelli
180mischiarvi insieme il sangue, e ’l genitore
trucidar su’ cadaveri spiranti.
Ma chi di voi s’offre compagna all’opra?".
Più volea dir, quando da l’alto mare
lungi fur viste biancheggiar più vele:
185l’armata era di Lenno; allor l’offerta
occasïon Polisso abbraccia, e segue:
"Ecco, dio ce li manda: a tanto invito
sarem noi sorde? Ei ce li pone in mano,
e a le nostr’ire gli abbandona e guida,
190e l’impresa giustissima seconda.
Non fur vani i miei sogni: a me nel sonno
Venere armata apparve, e così disse:
A che perder l’etade? Ite, e purgate
da’ perfidi mariti i vostri letti.
195Io poi v’accenderò novelle faci,
e darò nuove nozze. E questo ferro,
partendo, mi lasciò cader sul letto.
A che più consultar, se ’l tempo è questo
d’eseguire il gran fatto? Ecco già spuma
200percosso il mar da’ remi, e in ogni nave
forse vien qualche barbara consorte".
Questa fu l’esca ch’ogni petto accese
di rabbia e di furor; e orribil grido
tutte ad un tempo alzâr fino alle stelle.
205 Con eguale rumor scendon da’ monti
le Amazzoni feroci in curva schiera,
qualora il padre lor pon l’armi in mano
ed apre della guerra il chiuso tempio.
Nè già fra lor, come del vulgo è stile,
210son diversi i pareri: un sol furore
in tutte è fermo: desolar le case;
e la canuta e l’ancor fresca etade
mandar a morte; e i teneri bambini
soffocar tra le tumide mammelle;
215e col ferro passar per tutti gli anni.
Vicino al tempio di Minerva siede
un sempre verde bosco, e a tergo s’alza
sublime un monte, e nella gemin’ombra
rimane oscuro e quasi spento il Sole.
220Quivi si dier la fede, e fur presenti
Proserpina e Bellona; e non chiamate
venner le Furie; e non veduta serpe
Venere in ogni petto; e ’l ferro in mano
essa ci pone; essa ne istiga e accende.
225Fu d’uman sangue il sacrificio, e l’empia
di Caropo consorte il proprio figlio
vittima offerse nel concilio orrendo.
S’accinsero all’impresa, e ’l molle petto
degno di maraviglia, anzi d’amore,
230squarciâr co’ ferri; e colle destre unite,
e sul sangue fumante e vivo ancora
giurâr la sceleraggine gradita.
Volò intorno alla madre l’ombra esangue.
Ahi qual mi feci allor! Quale mi scorse
235orror per l’ossa! Qual mi tinsi in viso!
Così cervetta intimorita e cinta
da sanguinosi lupi, e che sol una
speranza ha nella fuga, il corso affretta,
e la salute sua fidando al piede,
240teme ognor d’esser presa, e a tergo sente
suonar a vuoto l’avide mascelle.
Giunt’erano le navi, e ne le prime
spiagge molte arenârsi; i padri e i sposi
saltano da le poppe e da le sponde
245precipitosi e impazïenti a terra.
Miseri, cui non spense il tracio ferro
in valorosa impresa, o il mar crudele
non affondò ne’ vortici spumosi!
Traggon l’ostie votive a’ sacri tempii:
250fuman gli altari, e nera fiamma sorge,
e in ogni fibra è difettoso il Nume.
Giove mosso a pietà, finchè ’l permise
l’immutabil Destino, in ciel sospese
l’umida notte, e con paterna cura
255tardò il corso degli astri, e sovra noi
(già spento il Sol) venner più lente l’ombre.
Sorsero alfin le stelle; e Paro, e Taso
per molti boschi ombrosa, e le frequenti
Cicladi ne splendean di chiara luce.
260Tra le tenebre sola ascosa giace
Lenno e da nebbie involta, e sopra lei,
per non mirar, s’ammantò ’l ciel di nubi;
nè la vider da l’alto i naviganti.
Già gli uomini infelici, e per le case
265sparsi e pe’ sacri boschi, a laute mense
siedon festosi, e tracannando il vino
vuotano gli aurei nappi insin al fondo;
e raccontando van l’aspre battaglie
del Rodope, di Strimone e dell’Emo.
270Stanno fra lor cinte di serti il crine,
e de’ più vaghi fregi adorne e belle
le crudeli consorti. In quell’estreme
ore Venere avea degl’infelici
sposi placati i cuori, e breve fiamma
275in loro accesa, e momentanea pace.
Posto fine a’ conviti, a poco a poco
cessano i salti e i giuochi e de la prima
notte il tumulto. E di già il Sonno asperso
d’infernale vapor, e de la Morte
280fratello, versa sopra il viril sesso
grave e mortal sopor da tutto il corno.
Ma le spose e le vergini al delitto
vegliano attente: ognuna il ferro arruota,
ognuna ha in petto la sua propria Erinne.
285 Non altrimenti le leonze ircane
da fame spinte a lo spuntar del giorno,
per gli scitici campi i vili armenti
cingon d’intorno, e gli avidi lor parti
aspettan desïosi il nuovo latte.
290 In dubbio sto, buon Re, qual pria, qual poi
di tanti casi, a te parlando, esponga.
Alto dormia sopra tappeti assirii
Edimo il crin cinto di frondi, e ’l vino
iva esalando: allor l’iniqua Gorge
295il sen gli scopre, e cerca ove più certa
faccia la piaga; e ’l sen gli fere: ei muore,
e nel morir si sveglia, e gli occhi gira,
e l’inimica sua d’amplessi cinge:
ella senza pietade il crudo ferro
300nuovamente gl’immerge infra le coste
a dentro sì, che fuor del petto uscendo
a piagar giunge di se stessa il seno.
Ei langue e manca, e con tremante sguardo
in lei rimira, e singhiozzando dice:
305- Gorge, o mia Gorge, - e da l’indegno collo
non sa staccar l’innamorate braccia.
Taccio le stragi de l’ignobil vulgo,
benchè crudeli; e sol del regio sangue
scegliendo narro, e di mia stirpe, i lutti.
310Dirò di voi (che meco aveste il latte)
figli del padre mio, ma d’altra donna;
di te, biondo Cidon, di te, Cremea,
cui le non tronche chiome in su le spalle
ondeggiavan lascive; e del feroce
315Gía mio vicino sposo, e da me al pari
e temuto e bramato; che per mano
de la fiera Mirmidona cadéro.
Stava Opopeo cinto di serto il crine
tra le mense scherzando e i lieti cori;
320e la madre crudel da tergo il passa.
Geme su Cidimone a lei fratello,
ed eguale d’età, fatta pietosa
Licaste disarmata: il volto mira
già vicino al morir, che a lei somiglia,
325e le fiorite guance e i biondi crini,
ch’essa ornò di sua mano; e geme e plora:
giunge la fiera madre che ’l consorte
svenato aveva, e la minaccia e spinge
al fratricidio, e in man le pone il ferro.
330 Come fiera, cui placido custode
tolto abbia l’uso del natio furore,
lenta si mostra a l’ira, e ancor che punta
sia da’ colpi talor di sferza cruda,
non però torna a la fierezza antica:
335così Licaste s’abbandona e cade
sovra ’l fratello, e nel cader lo fere,
e in sen ne accoglie lo stillante sangue,
e col lacero crin la piaga preme.
Ma quando vidi Alcidame spietata
340portar in man del venerabil padre
il capo tronco e mormorante ancora,
mi s’arricciâr le chiome, e per le vene
mi scorse un freddo orrore: il mio Toante
allor mi venne in mente; e la mia destra
345di ferro armata abominando, io corsi
turbata e mesta a le paterne case.
Desto ei giaceva: e chi può gli occhi al sonno
chiuder tra mille cure? Ancor che lungi
da la città l’albergo avesse, a lui
350era giunto il susurro: - E donde mai
(tra sè dicea) il gran tumulto nasce?
Qual rumor ne la notte? E perchè i sonni
turbati son da fremiti e lamenti?
Tutto per ordin narro: qual dolore
355le donne instighi; quel c’han fisso in mente:
chè nulla puote a la lor rabbia opporsi.
Vieni meco, infelice: in su le porte
già ci son quelle Furie: e se più tardi,
forse insieme cadremo. - Egli commosso
360balza dal letto. Per rimote vie
la deserta città passiam scorgendo
(cinti d’intorno di mirabil nube)
accatastati in ogni parte i morti,
ne gli atti stessi e in quella stessa guisa
365che la notte crudel pe’ sacri boschi
gli avea sparsi e distesi: altri del letto
alle morbide piume affissa tiene
la morta faccia, altri supino in seno
immerso ha il brando insino all’elsa; i tronchi
370miransi qui de l’aste infrante, ed ivi
su’ freddi corpi le squarciate vesti;
qua rovesciati i vasi, e là disperse
le vivande nuotar ne l’empia strage,
e a le tazze tornar quasi torrente
375da le fauci trafitte il vin col sangue.
Giaccion confusi i giovani feroci
e i venerandi vecchi, che da l’armi
esser dovean sicuri, e sovra i padri,
languidi e moribondi, i semivivi
380figli, che a lo spuntar de la prim’alba
trovâr del viver lor l’ultima sera.
Non con tanto furor su ’l gelid’Ossa
turban le mense i Lapiti feroci,
se i Centauri biformi e della nube
385figli muovongli a sdegno: appena i volti
veggons’impallidir, dar segno d’ira,
che sossopra le tavole volgendo,
corrono a l’armi minacciosi e insani.
Trepidi fuggivam, quando fra l’ombre
390Bacco n’apparve, e d’improvvisa luce
ne rischiarò il cammin, gli estremi aiuti
mesto portando al figlio suo Toante.
Il riconobbi: ei non avea le tempie
cinte di frondi, e non il crine adorno
395di pampinosi fregi: il volto a terra
mesto teneva; e benchè Nume, in pianto
gli occhi stillando, a lui pietoso parla:
"Fin tanto, o figlio, che a te diede il Fato
di Lenno possedere il nobil regno,
400e farlo formidabile e temuto
a le straniere genti, ogni paterna
e giusta cura in tuo favore oprai.
Ma le crudeli Parche il primo stame
han già troncato; nè le preci e i pianti,
405che vanamente io sparsi, hanno potuto
Giove mutar, nè disturbar la strage.
Egli quest’empio onor diede a la figlia.
Affrettate la fuga. E tu ben degna
d’uscir dal sangue mio, vergine illustre,
410colà conduci il padre, ove in due braccia
diviso il muro si distende al lido:
là da quell’altra porta, ov’è maggiore
lo strepito e ’l tumulto, armata stassi
Venere infesta, e le furiose donne
415instiga e accende. E donde mai cotanto
sdegno e furor nell’amorosa Dea?
Chi guerra le ispirò nel molle petto?
Tu vanne, e ’l padre affida al mar profondo".
Così parlando, in aria si disciolse,
420e ’l calle tenebroso a noi segnato
lasciò con striscia di mirabil luce.
Seguo il celeste segno; e ’l genitore
a cavo legno affido, e a quanti Numi
regnano in mare il raccomando, e a’ venti
425e a l’Egeo che le Cicladi circonda.
Mai non avremmo posto fine a’ pianti,
nè a gli amplessi reciprochi, se in cielo
non vedevam Lucifero cacciarsi
le stelle innanzi, e già spuntar l’aurora.
430Ci dividiamo alfine: io mi divello
da lui, dal lido, rivolgendo in mente
molti funesti e timidi pensieri;
e de lo stesso Dio mi fido appena.
Io vado, e col pensiero indietro torno,
435e non ho pace. Febo sorge intanto;
e da ogni colle io vo guardando il mare.
Ma già risplende il vergognoso giorno,
e Febo nel varcar gli usati segni
torce il lume da Lenno, e tra ’l suo carro
440e i nostri monti una dens’ombra stende.
Scopriro allor gli empii furor notturni
le insane donne, e benchè ree del pari,
guardârsi in viso, e n’ebber onta e scorno.
Altre celan sotterra il reo misfatto
445e l’empia strage; altre con presti fuochi
i cadaveri tronchi ardono in fretta.
Da l’afflitta città partono intanto
l’Eumenidi spietate, e di vendetta
Venere già satolla. Allor potero
450riconoscer le misere il lor fallo,
e strapparsene i crini e pianger tardi.
Un’isola di campi e di molt’oro
ricca, e famosa per mirabil sito,
d’armi e d’eroi possente, e via più chiara
455fatta pur or dal getico trïonfo;
non da l’aria nociva, non dal mare,
non da’ nemici vinta, orba rimase
del viril sesso, e svelta fu dal mondo:
non resta alcun che con gli aratri solchi
460i campi, e colle navi il mar sonante:
tutte le case alto silenzio ingombra;
scorre a torrenti per le strade il sangue,
tutto è lordo di strage; e in così vasta
città sole noi siamo, e sole intorno
465gemon l’ombre sdegnose a’ nostri tetti.
Anch’io frattanto del mio regio albergo
ne’ più segreti chiostri alzo una pira
di vasta fiamma, e l’armi e l’aureo scettro
del padre, e ’l manto e le reali insegne
470sopra vi gitto; indi col ferro in pugno
tinto di sangue assisto al rogo e a’ fuochi,
e pianger fingo sovra il corpo vano
per timor de le femmine omicide;
ma prego i Dei che sia l’augurio vano,
475e cessi ogni timor de la sua morte.
Tal merto m’acquistò l’ordito inganno,
che lo scettro paterno a me le donne
ne diero in premio, e fu supplicio e pena.
Come negar da le lor forze cinta?
480A lor voler m’arresi; ma co’ Numi
protestai la mia fede, e le mie mani
de lo scettro del padre essere indegne.
Prendo l’imbelle impero, e senza forze
Lenno deserta. O infame gloria! O regno!
485Già fra noi cresce il pentimento, e deste
ci tien le menti, e le flagella ed ange.
Non son più occulti i pianti; e ’l lor delitto
detestan tutte, ed han Polisso in ira.
Già si permette alzar altari a l’ombre,
490e chieder pace al cenere sepolto.
Così qualor le attonite giovenche
vider squarciato da leon Massile
il lor duce e marito, e delle selve
gloria, e decoro dell’adulto gregge;
495meste van senza guida; e ’l Rege estinto
piangon i campi e i fiumi e i muti armenti.
Ed ecco intanto con ferrata prora
fender l’intatto mar tessala nave,
vêr noi prendendo il rombo. I Minii audaci
500ne son duci e nocchieri: e d’ambo i lati
l’Egeo diviso ne biancheggia e freme.
Diresti qui dalle radici svelta
nuotar Ortigia, o sopra l’acque un monte.
Ma poi ch’in alto fur sospesi i remi,
505e tacque il mare, da l’eccelsa poppa
voce n’uscì più dolce e più soave
de’ moribondi cigni e della cetra
del gran nume di Delo; ed al concento
corse Nettuno, e avvicinossi al legno.
510Era il cantor (come fu poscia noto)
d’Eagro il figlio, l’immortale Orfeo,
che in mezzo a tanti eroi sedendo in alto,
coll’aureo plettro a lor rendea soavi
le magnanime imprese e le fatiche.
515Essi il lor corso verso il freddo Scita
avean drizzato, e a’ perigliosi vadi
delle Ciani sassose: e noi credemmo
che fosse un legno trace a noi nemico.
Corriamo per le strade e per le case
520timide a guisa di smarrite agnelle,
o di fugaci augelli. Ahi dove allora
eran le Furie? Indi ascendiamo al porto,
e sovra il muro che circonda i lidi
e su l’eccelse torri; e sassi e travi
525quivi portiamo, e de’ consorti estinti
trepide prendiam l’armi e i lordi ferri
dell’ancor fresca strage: i petti imbelli
copriam d’usberghi, e i delicati visi
chiudiam negli elmi; e non n’abbiam vergogna.
530Mirocci Palla, ed arrossissi in volto;
e il Dio guerriero rimirocci e rise.
Da le attonite menti allor si scosse
il passato furor; e quella nave
più che nave ci parve, e che de’ Numi
535la vendetta portasse a noi su l’onde.
Già fatta era vicina un tirar d’arco:
quando sovra di lei ceruleo nembo
di pioggia colmo condensò il Tonante;
più non riluce il Sole; e un denso velo
540il Cielo ammanta, e se n’oscuran l’acque;
spezzan le cave nubi i venti in guerra,
e sconvolgono il mare, e gli spumosi
vortici turban l’arenoso lido;
su le penne de’ venti insino al cielo
545il mar s’inalza, indi ricade al centro.
Non ha più certo corso il legno afflitto,
ma gemendo si scuote, ed ora in alto
lo solleva Tritone, or il deprime.
De’ Semidei guerrieri è vana ogni opra.
550L’albero ondeggia, e pria l’eccelsa poppa
flagella; indi si spezza, e in giù ruina,
e piombando nel mare il fende e solca.
Cade su’ banchi resupina, e suda
la ciurma, e i remi tornan vuoti al petto.
555Mentr’essi in pugna stan col mar, co’ venti,
noi pure da gli scogli e da le torri
lanciamo (o folle ardire!) imbelli dardi
contro il gran Talamon, contro Peleo,
e gli archi nostri osan sfidare Alcide.
560Al novello periglio i generosi
raddoppiano i ripari, e con gli scudi
altri copron la nave, ed altri al mare
rendono il mare; altri al pugnar s’accingono,
ma non stan fermi, e vanno i colpi a vuoto.
565Noi lanciam aste e dardi, e ’l ferreo nembo
col turbine gareggia e colle nubi:
volano e sassi e travi, e faci ardenti
cadon or su la nave, or dentro l’onde.
Scrosciano i tavolati; ed apre i fianchi
570il tormentato pino. In cotal guisa
di grandine iperborea i verdi campi
Giove copre talor: armenti e fere
cadon oppressi, e non v’ha augel che scampi:
s’atterrano le spiche: i fiumi inondano;
575e d’orribil fragor suonano i monti.
Ma poi che Giove fulminò da l’alto,
e squarciò il nembo, e rischiaronne il cielo,
e chiaro ci mostrò de’ grandi eroi
la terribil sembianza, a noi di mano
580cadder l’armi non nostre e ’l folle ardire,
e ripigliammo la viltà del sesso.
V’erano i figli d’Eaco e d’Anceo,
che minacciavan crudelmente i muri;
ed Ifitone, che spezzava i scogli
585con asta noderosa; e sbigottite
fra lor vedemmo torreggiare il grande
figlio d’Anfitrione, e col suo peso
far inclinar or l’una, or l’altra sponda,
e ad or ad or star per lanciarsi in mare.
590Ma veloce Giason (Giasone, ahi lassa!
non a me noto ancor) sen va scorrendo
per li banchi e pe’ remi e sovra ’l dorso
de’ naviganti afflitti, e chiama e spinge
or Talaone, or Ida, ora d’Eneo
595il magnanimo figlio, ed ora i figli
di Tindaro, di spuma aspersi e molli,
e con la voce e con i cenni esorta
i figli d’Aquilon, ch’erano ascesi
nelle paterne nubi, e che all’antenna
600gían raccogliendo le squarciate vele.
Sferzan costoro or con i remi il mare,
ora coll’aste fanno a’ muri offesa;
ma il mar non cede, e l’aste e l’armi indietro
ricadono nell’onde o sopra il legno.
605Lo stesso Tifi impallidito e lasso
siede al timone, e lo governa appena.
Muta spesso comandi, ed or rivolge
la prora a destra, or a sinistra, e i flutti
seconda, e schiva i perigliosi scogli.
610Quando dal bordo dell’estrema nave
il figliuolo d’Eson sospese in alto,
a Mopso tolto, un ramuscel d’oliva,
e (fremendone gli altri) a noi richiede
accordo e pace. Le procelle e i venti
615cen portaron la voce. Allor cessaro
le nostre offese, e quasi a un tempo stesso
si calmò la tempesta, e ’l Sole apparve
pallido ancora e con incerta luce.
Gittano il ponte, e baldanzosi a terra,
620deposte l’ire, e placidi in sembiante,
que’ cinquanta guerrier scendono insieme,
gloria e splendor de’ padri; e ci fur noti
a le divise lor famose e conte.
In cotal guisa scendon giù dall’etra
625(se il ver narra la fama) i Numi eterni,
qualor piacer li prende a parche mense
dentro i tugurii de gli Etiopi adusti,
abitatori del purpureo mare,
seder gustando il villereccio pasto:
630dan luogo i monti e i fiumi, e sotto l’orme
del divin piede si rallegra il suolo,
e si riposa dal suo peso Atlante.
Era fra questi il gran Teseo superbo
del maratonio onore; e li due figli
635de l’ismaro Aquilon, ch’ambe le tempie
aveano armate di purpuree penne;
e Admeto, a cui degnò servire Apollo;
e Orfeo, che nulla in sè ritien di Trace;
e ’l calidonio Meleagro; e ’l prode
640genero di Nereo; li due simíli
di Tindaro gemelli ivan del pari,
de gli occhi inganno: ambi uno stesso manto
adorna e copre; ambi hanno un’asta in pugno;
ambi nude le spalle, e liscio il volto;
645e portan ambi un’egual stella in fronte.
Colle tenere piante Hila fanciullo
osa l’orme seguir del grande Alcide;
e benchè tardo il generoso muova
i lenti passi, egli, correndo appena
650è che l’aggiunga; e di scudiero in vece
dietro l’armi gli porta; e sudar gode
de la faretra sotto il grave peso.
Ecco di nuovo ne’ feroci petti
de le donne di Lenno occulta serpe
655Venere, e seco il lusinghiero Amore;
e le tenta e le infiamma; e Giuno istessa
più vaghi a noi dimostra i nuovi visi,
gli abiti nuovi e le famose imprese
de gli estrani guerrieri. Apriamo a gara
660i chiusi alberghi, e gli ospiti novelli
allegre riceviamo; ardon le fiamme
di nuovo in su gli altari, ed i nefandi
passati errori ricopriam d’oblio:
allor lieti conviti, allor felici
665sonni godiamo, allor tranquille notti.
Nè certo fu senza voler de’ Numi,
che confessando noi le colpe nostre
piacemmo a’ Semidei: ma forse, o duci,
qual trovi scusa al fallo mio amoroso
670saper vi giova. In testimonio io chiamo
de gli antenati miei le Furie e l’Ombre:
non da lascivo amor, non di mio grado
corsi a straniere nozze (e ben lo sanno
l’eterne Menti); il lusinghier Giasone,
675pur troppo avvezzo ad ingannar donzelle,
me pur deluse: de’ suoi finti amori
fede può farne il crudel Fasi e Colco.
Ma già in sè stesso rientrando l’anno,
sciolte le nevi con più lunghi Soli,
680rendea tepidi il cielo, e gli astri e ’l mondo;
e Lenno già di non sperata prole
era ripiena, e già s’udian per tutto
il gemito e ’l vagir de’ nuovi Alunni.
Io pur dal nostro non spontaneo letto
685ebbi due figli ad un medesmo parto;
e benchè sposa a barbaro marito,
a l’un del mio Toante il nome imposi.
Dal dì che li lasciai, qual sia lor sorte
dir non saprei; ma se Licaste mia
690(qual mi promise) ha di lor cura preso,
il quarto lustro avran compiuto appena.
Ma già calmati i burrascosi venti
invita l’Austro i naviganti al mare:
la stessa nave par che aborra il porto,
695e spezzar brami il canape dal lido.
Dispongono la fuga i Minii ingrati,
e Giasone i compagni affretta e guida.
Deh così ’l vento in più remote spiagge
sospinto avesse il traditor, cui nulla
700de’ figli calse e de la data fede!
Dicesi ch’egli del Monton di Frisso
in Grecia abbia portato il vello d’oro.
Ma poi che Tifi da le note stelle
conobbe, e dal rossor de l’Occidente,
705sereno il nuovo giorno e la stagione
di già fatta sicura: al nuovo albore
intimò la partita. Allor fra noi
si rinnovaro i pianti, e l’aspra notte
fu di nuovo per noi la notte estrema.
710Appena spuntò il dì, che da la poppa
diede Giasone il segno e fe’ dal lido
scioglier la nave, ed ei primier la fune
tagliò d’un colpo. Noi da gli alti scogli
e dal monte miriam veloce il pino
715fender con lungo solco il mar spumante,
fin che fur stanchi gli occhi, e la distanza
ci fe’ parer che ’l mar s’unisse al cielo.
Giunge intanto novella che Toante
de la fraterna Chio regna sul trono,
720che fur vani i miei roghi e che innocente
sola fra tante fui. Freme l’iniqua
turba; e ’l rimorso suo vie più l’inaspra,
e del mio non peccar ragion mi chiede,
e già fra ’l vulgo il mormorar ne cresce.
725Costei sola pietosa, e noi crudeli
de la strage godemmo? Ah non lo soffra
il nume e ’l Fato che su noi presiede!
Da cotai voci spaventata io veggio
già certa la mia morte, e che non giova
730a mia salute il regno. Occulta e sola
m’involo, e scendo al lido ove già ’l padre
fuggì poc’anzi, e in abbandono io lascio
la funesta città; ma non già allora
Bacco a me venne: una crudel masnada
735di corsari rapimmi, e in questi regni
al re Licurgo mi vendè per serva. -
Mentre in tal guisa con gli argivi duci
Isifile rinnova i propri affanni
ed inganna il dolor con lungo pianto,
740posto in obblio (così volendo i Fati)
l’Alunno, che lasciò tra’ fiori e l’erba:
ei dopo aver pargoleggiato assai,
sul fiorito terren posa le membra
e gli occhi gravi in dolce sonno chiude:
745ha una man sotto ’l capo, e l’altra, stesa
sul prato, carpe leggermente l’erba.
Quand’ecco che sen viene orribil angue,
nato dal suolo, sacro orror del bosco,
che dispiegando le ritorte squamme,
750del corpo enorme parte innanzi spinge,
parte addietro ne lascia, ed in se stesso
ora rientra e si raccoglie, or n’esce:
ha di livida fiamma i lumi accesi,
e di verde velen spuman le fauci:
755ha tre schiere di denti, e vibrar sembra
tre lingue, e d’aurea cresta ha ’l capo adorno.
Disser gli agricoltor che al loro Giove
sacro era il drago, e ne guardava il luogo
e i boscherecci altari e ’l parco culto.
760Ei con lubrici giri or ne circonda
il tempio, or nel passar la selva scuote,
or co’ suoi nodi i pini atterra e gli olmi.
Sovente avvien che nel varcare i fiumi,
posa col capo su una sponda, e l’altra
765colla coda ancor preme, e da le squamme
l’onda divisa ne gorgoglia e bolle.
Ma poi che per voler del Dio Tebano
seccârsi l’acque, e l’assetate Ninfe
si nascoser negli antri, ei più feroce
770di qua, di là con tortuosi giri
si tragge e volge, e si dibatte e smania
per lo calor de l’arido suo tosco:
serpe per stagni e laghi, e cerca i fonti,
e gli arsi letti de gli asciutti fiumi;
775e di sè incerto colle fauci aperte
or l’umid’aria attragge, ora solcando
lo squallido terren, cerca fra l’erbe,
se di segreto umor fossero pregne;
ma da qualunque parte il capo ei volga,
780il pestifero fiato ogni erba strugge;
e al sibilar muoion d’intorno i campi.
Tale divide il ciel con dritta riga
da l’Artico gelato al Mezzogiorno
il celeste Dragon da polo a polo:
785tale, o Febo, fu quel che ’l tuo Parnaso
attorcigliando, fe’ crollar più volte,
finchè da cento e più piaghe trafitto
portò una selva de’ tuoi strali addosso.
Qual Dio, picciol fanciul, ti diede in sorte
790morir oppresso da sì grave fato?
E perchè mai ne gli anni tuoi primieri
da sì grande avversario estinto giaci?
Forse per far alle pelasghe genti
sacro il tuo nome? E la tua picciol’ombra
795render più degna di sì illustre avello?
Passa il serpente, e coll’estrema coda,
senza mirare, il tocca e sì l’uccide.
Si risente il meschino, e gli occhi aprendo
l’ultima volta, li riserra in morte:
800qual uom che sogna e parla in tronchi accenti,
ma non può intera proferir parola,
mise un vagito, ed in eterno tacque.
Isifile sentillo, e semiviva
e tremante se stessa al corso affretta:
805già del suo mal presaga il guardo gira
per tutto e ’l cerca, e coll’usate voci
invan lo chiama. Il reo velen consunto
l’avea così che non ne appar vestigio.
Vede il serpente, che gran tratto ingombra
810il prato intorno, ancor che in sè ristretto
e in mille giri avvolto, e sotto il ventre
tenga celato il capo: inorridisce
la misera, e d’un lungo acuto strido
tutta fa risuonar l’ampia foresta.
815Ei, come nulla fosse, immoto giace.
L’udiro i Greci, e l’arcade garzone
al comandar del Re vola, e ritorna,
e ’l caso espone; e muovon tutti insieme.
Al balenar de l’armi, e de’ guerrieri
820al fremito e al rumor la sozza belva
si scuote, spiega il dorso e gonfia il collo.
Corre il feroce Ippomedonte, e un sasso
svelle (meta de’ campi), e l’alza e ’l vibra
contro il dragon crudel con quella forza
825che macchina mural l’avria sospinto;
ma torce il collo la volubil fera,
e cade il colpo a vuoto: il suol ne trema,
e vanno in schegge della selva i rami.
Ma Capaneo colla ferrata trave
830innanzi passa, e se gli ferma a fronte,
e, - Tu non fuggirai (grida) i miei colpi,
immane belva, o che del sacro bosco
tu sia custode, o che agli Dei sii caro.
Ed oh fossi tu pur diletto a’ Numi?
835Non se sul dorso tuo stesse un gigante
a tua difesa. - Vola l’asta, ed entra
per l’anelante bocca, e la trisulca
lingua recide, e l’arruffate squamme
penetra sì, che tra l’altera cresta
840del rilucente capo il ferro uscendo,
s’immerge entro il terreno infra le immonde
cervella e l’atro sangue; in sì gran mole
tardi si sparse della piaga il duolo.
Ei l’asta annoda co’ suoi giri e svelle;
845e corre al tempio, e a piè de’ sacri altari
vendetta chiede, e spira l’alma e ’l tosco.
Voi lo piangeste, perchè forse trasse,
laghi Lernei, dalla vostr’Idra il sangue;
voi che di fior l’incoronaste, o Ninfe;
850e tu, campo Nemeo, per cui strisciando
sen giva; e infrante le sonore canne
lo pianser vosco i Fauni e i Dei Silvani.
E Giove stesso il fulmine avea chiesto;
e già correano e turbini e procelle;
855pur per allor frenò lo sdegno, e l’ira
ritenne, e riserbollo a maggior dardo.
Ma dal fulmine scosso un lampo scese,
che le creste lambìgli in su l’elmetto.
Poi che il mostro fuggissi, allor di Lenno
860fatta sicura l’infelice Donna
pallida cerca il caro pegno, e giunta
a quel cespuglio ove lasciollo, il vede
porporeggiar di sanguinose stille:
corre trafitta dal dolore, e certa
865scopre la sua sciagura. Ella sen cade
qual da fulmin percossa in su l’infame
terreno, e della strage al primo aspetto
resta senza aver voce e senza pianto;
sol bacia i mesti avanzi, e par che voglia
870l’anima intorno errante in sè raccorre:
più non si scorge in lui d’uomo sembianza;
il viso ’l petto deformati, l’ossa
di carni ignude, le compagi e i nervi
sudan di nuovo inusitato sangue,
875e fatto è il corpo suo tutta una piaga.
Così poichè sovra d’un’elce ombrosa
salì un serpente, e gli augelletti e ’l nido
desertò, divorò: torna la madre,
e in non sentir del suo loquace albergo
880il solito garrir sospesa resta,
e si libra in su l’ali, e ’l cibo lascia
cader di bocca; e fuor che sangue e piume
da che null’altro scorge, e geme e plora.
Ma quando l’infelice in grembo accolse
885le misere reliquie, e le coperse
col biondo crin disciolto, alfin concesse
libero il varco a’ gemiti e a’ lamenti:
- O dolce immago de’ lasciati figli,
Archemoro, e del mio perduto regno
890e di mia povertà solo conforto,
gioia ed onor del mio servile stato,
unica mia delizia e mio contento;
qual crudel Nume mi ti ha tolto? Ahi lassa!
Io pur qui ti lasciai ridente e lieto
895brancolante su l’erba: or qual ti trovo?
Ove il bel volto? Ove la dolce voce
e i tronchi accenti? Ov’è il vezzoso riso,
e ’l balbettare da me sola inteso?
O quante volte a te di Lenno e d’Argo
900cantando i casi in placido riposo
ti chiusi gli occhi! In guisa tal sovente
consolava i miei danni; e già qual madre
ti porgeva le poppe. Or a chi serbo
questo mio latte, che ridonda e stilla
905su le ferite tue misto al mio pianto?
Conosco i Numi infesti, e i duri sogni
del ver presaghi: non apparve indarno
a l’attonita mente in mezzo all’ombre
Venere minaccevole e sdegnosa.
910Ma perchè i Numi incolpo? E già sicura
della vicina morte il vero adombro?
Qual follia mi sedusse? E qual mi prese
oblio di tanto prezïoso pegno?
Io mentre troppo ambizïosa narro
915l’origin nostra e i femminil furori,
io quella fui che allor t’esposi a morte.
Quest’è la mia pietà? quest’è l’amore?
Or sei pur paga, o Lenno: o duci, o Regi,
se a voi fu caro il beneficio mio,
920ch’or sovra me ricade; e s’a’ miei detti
fede prestaste e onore: ah mi guidate
al crudel drago, o colle vostre spade
qui m’uccidete, anzi che ’l mesto aspetto
de’ miei signori io veggia, e la dolente
925per mia sola cagion orba Euridice,
quantunque il suo dolor sia pari al mio.
Quest’empio dono io recherò alla madre?
Ah pria s’apra la terra, e nel suo centro
viva m’ingoi. - Così dicendo il volto
930lorda d’arena e sangue, e a’ mesti duci
co’ suoi sospir par che rinfacci l’onde.
Ma già più nunzi col funesto avviso
erano giunti in corte, e in grave lutto
l’aveano immersa, e ’l buon Licurgo in pianto:
935ei pure allor scendea dal sacro giogo
d’Afasanto sublime: ivi su l’are
aveva offerti sacrifici a Giove,
mal graditi dal Nume; e in sè volgendo
le minacciose viscere, tornava
940turbato e mesto e dimenando il capo.
Ei sol fra cotant’armi inerme e queto
stava, non già perchè gli manchi ardire,
ma ’l ritengon gli oracoli e gli altari:
le risposte de’ Numi e le minacce
945de le profonde grotte ha fisse in mente:
"Farà Licurgo alla tebana guerra
le prime esequie". Ei per fuggire il fato
sen sta guardingo, ma ’l vicino Marte
e de le trombe il suono il turba e l’ange,
950e songl’in odio le infelici schiere.
Ma chi fugge ’l destino? Ecco sen viene
la figlia di Toante in mezzo a’ Greci,
mesta portando del bambino estinto
i lacerati avanzi: e furibonda
955le va incontro la madre, e accompagnata
da la femminea schiera ed urla e geme.
Ma la pietà non è ozïosa e vile
nel generoso padre, anzi più forte
vien ne’ disastri, e in lui lo sdegno ardente
960ristagna il pianto. Egli ’l cammin divora
a lunghi passi alto gridando: - E dove,
dov’è la scelerata, a cui non cale
del nostro sangue e del mio mal s’allegra?
Viv’ella ancora? Ite veloci e pronti,
965o miei seguaci, e la guidate presa.
Io farò sì che le usciran di mente
le favole di Lenno, e di sua stirpe
l’origin menzognera e i finti Numi. -
Dice; e già tratto il ferro, irato corre
970per darle morte; ma Tideo feroce
col grave scudo lo respinge, e grida:
- O tu, chiunque sei, ferma o t’uccido. -
E Capaneo v’accorre, e Ippomedonte
non resta addietro, e l’Arcade garzone
975tien alto il brando; onde riman conquiso
quel Re infelice di tant’armi al lampo.
Ma d’altre parti in sua difesa viene
stuol di villani: il buon Adrasto allora
e Anfiarao, che le sacrate bende
980del Re rispetta e di sua vita teme,
vengon gridando: - Ah non si faccia: il ferro
riponete, o guerrieri: un sangue siamo,
siamo tutti una gente; ah cessin l’ire;
e tu cedi primiero: - Allor Tideo,
985sdegnoso ancor, così a Licurgo parla:
- E pensi tu che soffrirem che cada,
per vendicare d’un fanciul la morte,
su gli occhi nostri e di cotante schiere,
la nostra duce e redentrice nostra
990vittima indegna su l’altrui sepolcro?
La figlia di Toante, e di Niseo
la gran nipote? Anima vile, forse
poco ti par che mentre corre all’armi
la Grecia tutta, fra cotante trombe,
995stai neghittoso in ozio infame e lento?
Goditi pur la pace, e le vittrici
squadre trovinti ancor al lor ritorno
piangente stare a le tue esequie accanto. -
Disse, e quel Re fatto più mite e l’ira
1000pur raffrenando, a lui così rispose:
- Io già non mi credea che mentre a Tebe
ven gite a vendicar le giuste offese,
veniste a me nemici. Orsù finite
la vostra impresa, e me compagno vostro,
1005me qui svenate; e se cotanta sete
è in voi di sangue, su versate il nostro,
e de la nostra gente; e questi tempii
di Giove a me nemico abbian le fiamme.
Tutto lice al furor: io mi pensai
1010come Rege e signor nella mia serva
per sì giusta cagione aver impero;
ma Dio se ’l vede, e benchè tardi giunga,
pur vien la pena a’ gran misfatti eguale. -
Così dicendo, ode rumor, e ’l guardo
1015alla sua reggia volge, e nuovo scopre
tumulto d’armi. La veloce Fama
era arrivata a’ cavalieri argivi
col periglio d’Isifile: altri narra
che la menano a morte; altri, ch’è morta
1020colei che a loro fu cagion di vita.
Tosto si crede, e ’l fren si lascia a l’ira.
Corron con faci e dardi, e la cittade
sveller dal fondo, incatenar Licurgo,
e trasportare altrove il Nume e ’l culto
1025minacciano in vendetta: i regii tetti
di femminili gemiti rimbombano,
e ’l primiero dolor fatto è spavento.
Ma il buon Adrasto i suoi destrieri al corso
in giro affretta; ed ei sul carro in alto
1030tien Isifile in braccio, e dove bolle
più la tenzon, la mostra a’ cuor feroci.
ed, - Oh cessate (grida), ecco colei
che v’additò le salutifer’onde;
nulla di mal è occorso, e ’l buon Licurgo
1035non merita da voi cotanto scempio. -
Così qualora in varie parti è tratto
fra contrarie procelle il mar commosso
quinci da l’Euro e da Aquilon, e quindi
dal torbid’Austro, il chiaro dì s’imbruna,
1040e ’l fiero verno in grandine si scioglie:
se sublime sen vien su regia conca
co’ squammosi destrieri il gran Nettuno,
e ’l gemino Triton precede il carro,
e pace intíma d’ogn’intorno a l’onde;
1045tosto spianansi i flutti, e di già i scogli
scopron la cima, e già veggonsi i lidi.
Ma qual propizio Nume i lunghi pianti
d’Isifile pagò d’immenso bene,
e la colmò di non sperata gioia?
1050Tu de la stirpe sua principio e fonte,
tu fosti, o Bacco, che da Lenno a Neme
guidasti i due gemelli, e di tua mano
disponesti il mirabile destino.
Givano in traccia de la madre, e giunti
1055eran pur or negli ospitali tetti
del buon Licurgo, quando a lui pervenne
de l’estinta sua prole il duro avviso;
e lo seguiano a la vendetta: (o sorte!
o de’ mortali mal presaghe menti!)
1060favorivano il Re; ma quando intorno
sentiron risuonar Lenno e Toante,
tra l’inimiche e tra l’amiche schiere,
e tra le faci e i dardi apronsi il varco;
e giunti ov’è la madre, a lei d’amplessi
1065cingon il collo e i fianchi, ed a vicenda
piangendo di piacer, le porgon baci.
Essa di sasso in guisa immobil resta,
nè sa fidarsi de gli avversi Numi.
Ma poi che riconobbe entro i lor volti
1070l’immagine del padre, e ne’ lor brandi
l’impresa d’Argo incisa, e su’ lor manti
le cifre di Giason da lei conteste,
cessaro i lutti; e ’l subito contento
l’oppresse sì che semiviva cadde,
1075e di pianto miglior rigò le gote.
Applaudì ’l Cielo; e fra le nubi udîrsi
i timpani del Nume, i bossi, i cimbali
percossi risuonar di lieto strepito.
Allor d’Ocleo il venerabil figlio,
1080poichè d’intorno a sè tacite e attente
vide le schiere, e già placati i sdegni:
- Udite (dice), o re di Nemea, e voi
gran duci Argivi, ciò che Apollo impone
e a me ’l rivela. Questo a l’armi nostre
1085dolor già da gran tempo era dovuto,
e cel guidâr per ordine le Parche:
i fiumi asciutti, l’aspra sete, e ’l fiero
serpente, ed il fanciul poc’anzi ucciso
detto Archémoro (ohimè), da’ nostri fati,
1090tutto su noi da le superne menti
de’ Numi scese. Deponete l’ire
e l’aste e i dardi; e di perpetui onori
coroniamo il fanciul, che n’è ben degno;
e la nostra virtude a la sant’Ombra
1095porga doni leggiadri ed immortali.
Ed oh così Febo sovente intessa
nuove tardanze; e nuovi casi ognora
differiscan le pugne; e da noi sempre
più s’allontani la funesta Tebe.
1100E voi felici, genitori, a cui
fu dato superar d’ogni altro padre
la gloria e ’l fato; e ’l di cui nome eterno
fia sin che duri la Lernea palude,
e che l’Inaco corra, e la Nemea
1105selva con tremol’ombra i campi fera;
non turbate co’ lutti i sacrifici;
nè piangete gli Dei, chè questi è un Dio,
nè cambiería con la nestorea etade,
o di Titon con gli anni il suo destino. -
1110 Disse; e stese la notte il fosco velo.