La botte di sidro/Rabalan
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Il giorno non era ancora spuntato sopra le pendici di San Giacomo, quando Rabalan uscì dalla sua casa, una miserabile capanna crollante, isolata in mezzo alla brughiera che la separava dal paese di Trélotte, le cui piccole abitazioni, a cinquecento metri di là, sulla sinistra, si pigiavano, ineguali e tetre, intorno a un campanile aguzzo.
Il viso di Rabalan era così pallido che sembrava splendere d’uno scialbo chiarore, corne un lino bianco neIl’oscurità.
Il mazzuolo sulla spalla e il tascapane con dentro un tozzo di pan nero, Rabalan scese per la brughiera, prese la strada maestra e attraversò il paese, dove alcuni uomini che se ne andavano ai campi si allontanarono da lui con spavento, facendo dei gesti simbolici.
All’uscita di Trélotte, Rabalan non si fermò davanti all’osteria nella quale alcuni operai bevevano a gomito alzato, ma prese una viottola che conduceva al bosco di Pied-Fontaine.
Il giorno apparve umido e triste... Una spessa nebbia poggiava sulle praterie ; il cielo era basso... Rabalan, caminando pesantemente e dondolando il capo, lungo la stretta viottola che a quando a quando era interrotta da pozze d’acqua, incontrò una contadina, dalle maniche rimboccate sino al gomito, che sosteneva una secchia di latte... La contadina immediatamente piegò nel prato, depose la secchia e si fece il segno della croce : Rabalan continuò la sua strada... Più lontano incontrò una vecchia sopra un asino che trotterellava...
— Ehi ! Tibalda ! – egli gridò. – Buongiorno, Tibalda ! Buongiorno !
Ma la Tibalda si mise a tremare e poco mancò non scivolasse dall’asinello, tutta spaventata :
— Santa Vergine !... – implorò la vecchia, percuotendosi il petto e biascicando certi suoi strani scongiuri.
Rabalan curvò la schiena, tentennò la testa e tirò innanzi.
Lasciata la valletta, traversò il fiume su un ponte fatto di due tronchi d’albero gettati da una sponda all’altra, quindi prese una scorciatoia in mezzo ai campi e s’internò nel bosco arido e sassoso...
Una vacca che pascolava l’erba alzò verso di lui il muso... La vacca era rossa, con delle macchie sui fianchi più bianche del latte e le giogaie pendenti sotto la gola, colorite come delle smaglianti gale.
— Una bellissirna vacca ! si disse Rabalan. – Una magnifica vacca !
Rabalan si avvicinò alla bestia, le parlò affetuosamente, la carezzò sulla testa, sotto le mammelle, sulla schiena, la tastò, la palpò, ne considerò le corna, se le punte erano ben aguzze, e concluse :
— Una bellissirna vacca !
A un tratto un uomo che aveva un gran bastone in mano, comparve nella viottola, gesticolando e bestemmiando :
— Perchè tocchi la mia vacca, tu ? – gridò a Rabalan.
— Io non ti tocco la vacca, io !
— Io ti dico che tu la tocchi.
— Io ti dico che non la tocco.
— Io ti dico di sì.
— Io ti dico di no.
L’uomo invocò Dio, i santi, si segnò tre volte e, fatto volteggiare in aria il suo bastone, assestò un colpo furioso sul cranio di Rabalan, che traballò, stese le braccia e stramazzò inerte, per terra.
Per qualche momento l’uomo resò lì, a bocca aperta, gli occhi sbarrati, stupidi... poi si çhinò sul corpo di Rabalan e, avendo cura di non toccarlo, gli gridò :
— Ehi, Rabalan !... Sei morto ?... Ehi, Rabalan !... Sei morto ?...
Si rialzò quindi e si grattò il capo, perplesso.
— Certo... è morto... se non dice nulla... Che mi può capitare ?... Accidenti !... Ehi, Rabalan !
Rabalan, con la faccia in terra, non si mosse.
— È morto ! Morto ! Morto ! – pensò il villano impallidendo.
Allora spezzò il bastone in due, tracciò un cerchio in terra, intorno al corpo giacente di Rabalan, gettò nel cerchio i due pezzi e, spingendo innanzi a sè la vacca, la incitò urlando :
— Uhè !...
Disparve nel bosco.
Il vento si levò, trasportando e turbinando le foglie secche degli alberi, e la pioggia cadde, fine, obliqua, sferzante e fredda.
Rabalan non era morto... Mosse una gamba, poi l’altra, scosse la testa, poggiò le palme in terra e si sollevò sulle ginocchia ; guardò a destra, a sinistra, davanti, dietro... Sembrava sbalordito di non vedere alcuno e di trovarsi in quello stato, giacente in mezzo a una strada. Aiutandosi con le mani, con i ginocchi e con i gomiti, riuscì finalmente a rizzarsi in piedi. Raccolse il suo mazzuolo, rassettò il tascapane che gli era scivolato sul petto e continuò la sua via, col cervello un po’ stordito e dolorante e i garretti tremanti...
Rabalan era l’ultimo rappresentante di una famiglia di stregoni che, per più d’un secolo, regnarono in Trélotte. Il suo bisavolo, il suo nonno, suo padre, tutti i suoi zii e tutti i suoi cugini erano stati fattucchieri e si raccontavano di loro cose terribili e meravigliose.
Un’altra fatalità pesava sui Rabalan : essi si suicidavano. Da cent’anni non si conosceva un solo Rabalan che fosse morto come tutti gli altri, nel proprio letto, di morte naturale. Questi si appiccavano, quelli si annegavano ; si citava perfino un Rabalan che si era sotterrato vivo con un gatto nero, un altro che si era buttato dal campanile della chiesa, un altro ancora che, sulle alture di San Giacomo, aveva acceso una sera un gran rogo di legna e di torba e vi si era adagiato su cantando...
Il loro potere era sconfinato : guarivano i malati abbandonati dai rnedici, rendevano feconde le terre sterili, arrestavano le epidemie del bestiame.
Ma essi non erano sempre disposti e proclivi a queste stregonerie benefiche e, più volontieri, si servivano della loro magica potenza per tormentare gli uomini e le bestie.
Bastava loro d’immergere la punta delle dita in una botte di sidro o in un tino di vino per tramutare sidro o vino in bovina liquida ; bastava che passassero la mano sopra la schiena di una vacca perchè il suo latte si mutasse in orina. Bastava loro sfiorare appena una bestia o un uomo, perchè lo spirito del male penetrasse in questi, così che, per i campi, si vedevano degli esseri sconvolti, correre agitando in aria le braccia, come ale di molino a vento, o torcersi sulle scarpate o trascinarsi bocconi nel fango dei pantani, in preda al diavolo, urlando nel vento la loro disperazione.
Tuttavia era anche possibile preservarsi dagli incanti degli stregoni : appena lo stregone vi aveva toccato, bisognava batterlo con tutta forza, ripetendo tre volte « Stregone, ti rendo il male ». In tal maniera si sfidava il diavolo e si paralizzava l’influenza malvagia del fattucchiero.
Ogni anno, alla fiera di San Michele, lo stregone alzava una vasta tenda sulla piazza di Trélotte, sotto la tenda posava una tavola, e sulla tavola un crocefisso tra due candele accese. Accorrevano allora alla sua tenda, da tutti i paesi circonvicini, dalle campagne e dalle città, infermi e malati, paralitici e sciancati, monchi delle due gambe, su carriole, o in calessini, o in groppa agli asini, o carponi sui loro moncherini callosi. File enormi di esseri lividi, divorati da piaghe schifose, contraffatti, senza membra, si allungavano per le strade, si mescolavano e si urtavano sulla piazza di Trélotte, si stipavano sotto la tenda, intorno al mago. Il mago imponeva le mani sui malati ; i malati davano un ceffone al mago e se ne ritornavano guariti. Tutto questo costava due soldi.
Rabalan, malgrado tutta la gloria dei suoi avi, non aveva alcun gusto per la stregoneria : ne ignorava persino le pratiche fondamentali.
Era un povero diavolo, debole, timido, mezzo idiota, cui piaceva niente altro che parlare alle bestie. Egli avrebbe desiderato essere pastore, ma nessuno aveva consentito ad affidargli il proprio gregge ; nelle fattorie dove si era recato a domandare lavoro, lo avevano scacciato. Aveva mendicato, ma nessuno gli dava nulla. E Rabalan sarebbe certamente morto di fame, se l’amministrazione dei ponti e strade non lo avesse impiegato a spaccare pietre nel bosco di Pied-Fontaine, che è un bosco comunale, più abbondante di ciottoli che di alberi.
Quantunque fosse più innocuo d’un montone, lo si temeva molto a Trélotte e più di ogni altro dei terribili Rabalan che si erano succeduti nel paese, giacchè uno stregone che dissimula la propria natura e non esercita la sua arte manifestamente, è mille volte più temibile e pericoloso di ogni altro. Lo si faceva quindi responsabile di tutti i malanni che accadessero : della grandine che devastava le messi, della pioggia che impregnava la terra e marciva la semente, d’una vacca che aveva mal parterito, d’un bimbo nato morto. E lo battevano, gridandogli : « Ti rendo il male ». Il suo corpo era coperto di calli e di cicatrici. Spesso, nei casi urgenti, si correva da lui :
— Stregone, guariscimi.
— Io non sono stregone – rispondeva Rabalan.
— Io ti dico che sei stregone !
— Io ti dico di no !
E le percosse piovevano sul disgraziato che non si difendeva, nè si lamantava mai. Si contentava di esclamare :
— Ma se non sono uno stregone !
I lieti momenti per Rabalan erano soltanto quelli ch’egli trascorreva nel bosco di Pied-Fontaine, lontano dagli sguardi umani, allorchè una vacca che avesse tralasciata la pastura si avvicinava a lui, trascinando le sue pastoie disfatte, Rabalan abbandonava allora il mazzuolo e chiacchierava a lungo con la vacca, carezzandola, il cuore pieno di felicità... Gli piaceva pure veder passare le caprette, dietro la ceppaia, e balzare gli scoiattoli, con la coda in aria, in cima ai pini...
Da due ore Rabalan lavorava con gran lena. Il suo mazzuolo si alzava e ricadeva sui ciottoli con un movimento ritmico. Di quando in quando, Rabalan si fermava per stropicciarsi il cranio che gli doleva. Non pensava a nulla, mentre le schegge di pietra gli saltavano intorno. A un tratto, udì una voce chiamarlo a norne :
— Ehi ! Rabalan !
Rabalan si volse.
— Ah ! siete voi, padron Bottereau ? – disse rispettosamente. – Buongiorno, padron Bottereau!
— Buon dì, stregone !
Mastro Bottereau era un uomo lungo, secco, color vino, dagli occhi vivi, dalla bocca maliziosa. Sindaco di Trélotte e grande possidente, era padrone di otto trebbiatrici che noleggiava nel paese quando aveva terminata la propria raccolta, ricavandone, ogni anno, un buon guadagno... Era molto stimato.
— Rabalan, ragazzo mio – disse – bisogna che tu venga con me alla Fattoria Nuova, subito subito...
— Per far che cosa, padron Bottereau ? – domandò Rabalan.
— Ecco di che si tratta, stregone... Le mie otto macchine hanno una fattura... Non vanno affatto sono incantate... Abbiamo un bell’ingrassarle, accomodarle, impinzarle di carbone... non vanno e non vanno !
— Allora, credete che sia una fattura ?
— Lo temo ! – assicurò Bottereau.
Poi soggiunse :
— Bisogna che tu tolga quella fattura... Capisci ?
— Non posso ! – dichiarò Rabalan.
— E perchè non puoi ?
— Perbacco ! Perchè non sono uno stregone.
— Sì, che sei uno stregone.
— No, mastro Bottereau... Davvero, credete, io non sono uno stregone.
Mastro Bottereau alzò la voce.
— Io ti dico di sì... Hai da far altro che mentire... E poi, io sono il sindaco, sì o no ? Andiamo ! Vieni !
Rabalan si sentì turbato. Dal momento che il sindaco affermava in una maniera così autoritaria ch’egli era stregone, bisognava crederlo... Questo, tuttavia, lo meravigliava.
— Vengo – disse... e seguì mastro Bottereau, il quale, per tutta la strada, non faceva che ripetersi :
— Ma chi può aver fatto loro un malefizio ?... Ma come può essere ?...
Le otto macchine erano allineate nel cortile della fattoria, enormi e tristi, e pastori, bovari, carrettieri, le fissavano con aria costernata e le braccia penzoloni.
— Andiamo –- disse mastro Bottereau a Rabalan – sbrigateia !...
Il povero diavolo esitò un istante, poi, improvvisamente, si mise a correre attorno alle macchine, agitando le braccia e gridando a squarciagola :
— Babà !... Rurù !... Lu lu lu !
Rabalan correva, correva, correva, gridava, gridava. Per un quarto d’ora si udì incessante quell’urlo :
— Babà !... Rurù !... Lu lu lu !
Spossato e madido di sudore, gli mancò il respiro e si fermò.
— È fatto ?... – domandò mastro Bottereau.
Raibalan, ansando, rispose :
— È fatto, mastro Bottereau !...
Si provarono le macchine... esse non andavano ugualmente.
Allora mastro Bottereau andò sulle furie :
— Ah ! canaglia, ladro, demonio ! – urlò – Sei tu che hai fatto la fattura...
E slanciatosi contro Rabalan, lo colpì con un pugno enorme sulla faccia.
— Ti rendo il male ! Ti rendo il male ! Ti rendc il male !
E, ogni volta che ripeteva «Ti rendo il male », il pugno furioso cadeva sul pover’uomo.
Rabalan avrebbe voluto fuggire, ma aveva gambe rotte per aver corso tanto. Si abbattè in terra, lasciando andare un sospiro lungo e doloroso :
— Ma se non sono stregone, io !... — piangeva.
Mastro Bottereau, continuò :
— Ti rendo il male ! Ti rendo il male ! Ti rendo il male !
Si accaniva : preso un bastone, si mise a picchiare Rabalan con tutta forza. Il sangue scorreva, si spandeva ; il bastone ne era rosso.
— Ti rendo il male ! Ti rendo il male ! Ti rendo il male !
Quando ebbe finito di batterlo, Mastro Bottereau s’asciugò la fronte, soffiando.
— E le macchine ? – domandò.
Si provarono ancora le macchine. Esse non andavano ugualmente.
Il padrone ebbe un gesto disperato :
— Ma è arrabbiato, questo demonio d’uno stregone ?... Che cosa facciamo adesso !...
Rabalan, tutto sanguinante, non si muoveva più. Lo sollevarono. Era morto.