La causalità come struttura grammaticale nell'ultimo Wittgenstein/2. Perché la causalità è un problema: Hume

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1. Introduzione 3. La soluzione kantiana
Tra i contributi di David Hume alla ricerca filosofica viene quasi sempre citata almeno la problematizzazione che egli propose di tre punti fondamentali della metafisica tradizionale: la causalità, la continuità degli oggetti, la realtà del soggetto1.

Benché queste tre questioni siano forse più strettamente interconnesse di quanto a prima vista si dà a vedere, mi comporterò qui come se esse costituissero altrettante problematiche distinte e mi concentrerò solo sulla prima, quella della relazione tra causa ed effetto, che è anche l'argomento principale di questo saggio.

La critica humeana del concetto di causalità investe una categoria, quella appunto del nesso tra causa ed effetto, che a partire dall'età moderna – con la nascita del metodo galileiano e della fisica newtoniana – aveva assunto un'importanza particolare nel contesto della nuova scienza della natura.

Il discorso di Hume si innesta sull'elaborazione baconiana del metodo induttivo, che era stata fatta propria (non solo operativamente, ma anche al livello dell'interpretazione teorica e metodologica) da Boyle e da Newton tra gli altri. È abbastanza interessante notare che se Newton, pur convinto induttivista, raccomandava una certa prudenza nel trarre ipotesi generali per spiegare le esperienze particolari2, Boyle già a suo tempo era stato addirittura esplicito nel constatare che, logicamente, «l'indurre dei princìpi dagli esperimenti e dalle osservazioni non vale a dimostrarli»3. Precisamente questo è il punto che Hume sviluppò nell'ampio quadro della «scienza dell'uomo» da lui proposta nel Trattato sulla natura umana. Con questo saggio pubblicato nel 1739-1740 egli intendeva costruire una dettagliata descrizione del modo in cui funzionano le facoltà conoscitive dell'essere umano da un punto di vista che, con qualche elementare cautela, potrebbe opportunamente essere definito «naturalistico»4. Hume infatti – e in questo consiste il nucleo profondamente originale dell'opera in questione – riteneva che dalla natura umana, o più specificamente dagli «organi per la conoscenza»5 di cui per natura gli uomini sono dotati, possano essere fatte dipendere per la loro origine e per l'unica loro possibile giustificazione la stessa matematica, la filosofia naturale e la religione naturale: questi ambiti, afferma Hume, «giacciono sotto la cognizione degli uomini, i quali ne giudicano con le loro forze e facoltà»6. Da ciò deriva che la conoscenza che in tali ambiti gli uomini hanno è una conseguenza naturale della loro complessione, e che perciò è subordinata alla conoscenza che gli uomini hanno di se stessi, cioè di nuovo della propria natura: «Quasi tutte le scienze sono comprese nella scienza della natura umana e dipendono da essa»7. Se, in altre parole, ogni conoscenza umana è umana nella sua genesi fattuale (poiché dipende dalla natura, umana, della nostra costituzione cognitiva) e nel suo esito logico (poiché dipende dalla natura, umana, delle forme in cui si esprime), allora nella conoscenza da parte dell'uomo della natura umana (in tutta la sua complessità) si trovano non solo gli strumenti per l'avanzamento di ogni altro campo del sapere, ma anche quelli per la spiegazione del perché le nostre credenze sono quello che sono: e quest'ultima è, come si accennava, l'unica possibile giustificazione – benché con ciò si intenda il concetto di giustificazione in modo per così dire “ridotto” – del complesso delle conoscenze umane.

Dato questo sfondo, Hume cercò dunque – tra le altre cose – di risolvere la questione della causalità radicando quest'ultima, come categoria concettuale, nella natura umana. Peraltro di tenore del tutto simile, a conferma della paradigmaticità del problema della causalità, era la sua soluzione al problema generale dello scetticismo. Ciò che mi interessa è tuttavia, ben prima che la risposta di Hume alla domanda sulle condizioni di legittimità dell'uso filosofico di una categoria come quella della causalità, la sua analisi della criticità di tale categoria, ovvero per l'appunto la domanda stessa.

La nozione di causalità è capillarmente diffusa nel vocabolario della lingua d'uso quotidiano e centrale nell'armamentario concettuale delle scienze naturali; la sua importanza è in ogni caso enorme, ma lo è a tanto maggior ragione se è vero che, come sosteneva Hume, essa è «la sola [relazione] che possa spingersi al di là dei sensi ed informarci dell'esistenza di oggetti che non vediamo né sentiamo»8. Nonostante l'ampiezza della sua diffusione nel linguaggio, tuttavia, la categoria della causalità pone ai filosofi almeno due livelli di problematicità: innanzitutto la questione del perché si assuma un principio come quello secondo cui niente, almeno tra ciò che ha un inizio, avviene senza causa; e poi la questione di come si possa inferire che, dati due eventi, l'uno è la causa di cui l'altro è effetto9.

Prima di addentrarsi nell'analisi di queste due criticità, Hume si impegnava però a chiarire il concetto di cui trattava e la sua origine. La sua analisi dell'idea della causalità approdava alla scoperta (o supposizione)10 della contiguità spaziale e temporale, della successione cronologica e della connessione necessaria come tratti caratterizzanti di ogni nesso causale11 – ma proprio la «connessione necessaria», in quanto proprietà essenziale della relazione di causalità, ripropone da capo le due problematiche a cui si accennava or ora.

Quanto alla prima questione, risulta secondo Hume che il “principio di causalità” sopra enunciato non è certo «né intuitivamente né dimostrativamente»12. La separabilità in linea di principio dell'idea della causa dall'idea dell'effetto, essendo le due altrettante idee distinte, fa sì che senza contraddizione sia possibile immaginare un oggetto non esistente in un dato momento che, in un momento successivo, comincia a esistere, e questo senza collegare all'inizio dell'esistenza l'idea di una causa13:

La mente può sempre concepire che un qualsiasi effetto tenga dietro ad una qualunque causa e che un evento qualunque segua ad un altro; ora tutto ciò che noi concepiamo è possibile, quanto meno in un senso metafisico; ma dovunque interviene una dimostrazione, il contrario è impossibile ed implica contraddizione. Perciò non vi è dimostrazione per una qualsiasi congiunzione di causa ed effetto14.

Il principio di causalità non è deducibile o altrimenti fondabile, e infatti a un'analisi attenta i tentativi di dimostrazione di esso già intrapresi da pensatori come Hobbes, Clarke e Wollaston, Locke15 si rivelano fallaci. Essi sono tutti riconducibili a una struttura argomentativa per assurdo del tipo seguente. È ammesso che un oggetto cominci a esistere nel tempo senza causa; ma allora, deve o avere come sua causa un punto dello spazio e del tempo perfettamente qualsiasi e comunque non fissato da una certa causa (Hobbes), o essere la causa di se stesso (Clarke e Wollaston), o avere il nulla come sua causa (Locke); in ogni caso si giunge a una situazione inaccettabile, si perviene cioè al termine della reductio ad absurdum e si prova così che è impossibile che un oggetto qualsiasi cominci a esistere nel tempo senza causa: in Hobbes, perché è assurdo che da una posizione spaziotemporale indeterminata scaturisca qualcosa di determinato – altrimenti da qualsiasi luogo potrebbe scaturire in qualsiasi momento qualsiasi cosa; in Clarke e Wollaston perché se un oggetto producesse se stesso dovrebbe precedere se stesso e quindi esistere (in quanto causa) prima di esistere (in quanto effetto); in Locke, perché dire che il nulla può essere causa di qualcosa sarebbe quanto dire che il nulla è qualcosa, ciò che è contraddittorio. In ognuno di questi casi però, contestava Hume, col reintrodurre surrettiziamente l'esigenza di una causa per l'inizio dell'esistenza nel tempo dell'oggetto si è viziato l'argomento: si è contraddetta la propria prima premessa con un'altra premessa più o meno implicita (che una causa sia necessaria per far sì che un oggetto cominci a esistere nel tempo) e non con una conseguenza logicamente necessaria della prima premessa, come avverrebbe in una buona dimostrazione per assurdo; e perciò quello che si è raggiunto è il risultato, banale, che una causa è necessaria affinché un oggetto cominci a esistere in tutti i casi in cui una causa è necessaria affinché un oggetto cominci a esistere. Tutto ciò perché, quando questi filosofi si muovono al fine di mostrare l'assurdità di un'esistenza oggettiva che comincia senza causa – sia che si concentrino sull'impossibilità che un oggetto cominci a esistere in un punto del tempo e dello spazio del tutto indeterminato, sia che insistano sulla contraddittorietà dell'ipotesi per cui un oggetto, non causato da altro, sia causato da se stesso e dunque esista prima di esistere, sia che mettano l'accento sull'inconsistenza dell'idea di un nulla che causi qualcosa – avrebbero dovuto prima dimostrare che l'inizio dell'esistenza di un oggetto necessita di una causa, perché alla verità di questo presupposto è subordinata l'assurdità di quelle conseguenze. Siamo di fronte a un caso esemplare di petizione di principio16.

Quanto alla seconda questione, che riguarda il modo in cui viene effettuata l'inferenza di un nesso causale tra due eventi, il primo la causa e il secondo l'effetto, lo Hume del Trattato sulla natura umana notava innanzitutto che essa è anche la domanda alla quale si cerca di rispondere quando, per risolvere la prima questione, si tenta di radicare il principio di causalità nell'osservazione e nell'esperienza anziché nel ragionamento e nella dimostrazione. La difficoltà di un problema apparentemente innocuo come quello che riguarda la derivazione o giustificazione empirica della causalità, comunque, è analizzata più chiaramente che nel Trattato stesso nell'Estratto del Trattato sulla natura umana che, pubblicato anonimo come l'altro testo, è tuttavia generalmente attribuito al medesimo autore; e che si pone lo scopo preciso di fornire un riassunto della spiegazione humeana «dei nostri ragionamenti di causa ed effetto»17.

Se, come si è già visto parlando del Trattato, con il solo «confronto delle idee» è impossibile dimostrare il principio di causalità; se cioè – questa è l'immagine dell'Estratto – un uomo perfettamente formato e nel pieno possesso di tutte le sue facoltà ma privo di ogni pregressa esperienza, come un Adamo appena uscito dalle mani del Creatore, non è in condizione né di affermare il principio di causalità in generale né di aspettarsi un certo particolare effetto in seguito a una certa particolare causa; tuttavia lo stesso Adamo, una volta fatta ripetutamente l'esperienza della consequenzialità di un certo evento rispetto a un certo altro, sarà in grado sia di comprendere la nozione di causa impiegata a proposito della connessione costante di fenomeni spazialmente e temporalmente contigui e cronologicamente successivi, sia di anticipare il verificarsi di alcuni precisi effetti per via di alcune precise cause. Proponendo ai suoi lettori la simpatica idea di un tavolo da biliardo nel giardino dell'Eden, il testo di Hume suggerisce insomma di considerare che non c'è nessuna logica che permetta di predeterminare il comportamento di una palla che viene urtata da un'altra, cosicché prima di farne esperienza Adamo non potrebbe comprendere, a nessun livello, come la prima causi il moto della seconda; mentre, in seguito ad alcune osservazioni, egli sarebbe in grado di predire con buona approssimazione il comportamento di una coppia di sfere d'avorio che si urtano, associando inoltre al fenomeno l'idea di un rapporto causale. Insomma «tutti i ragionamenti che riguardano la causa e l'effetto sono fondati sull'esperienza»18.

Questa descrizione, ragionevolmente accurata, del modo in cui un essere umano può pervenire a familiarizzarsi con le nozioni di causa e di effetto grazie all'esperienza, lascia a sua volta aperte due questioni spinose: innanzitutto, il processo di induzione non dà alcuna garanzia che la proposizione o teoria inferita da una serie inevitabilmente finita di osservazioni particolari sia vera in generale; e inoltre la chiarificazione della dinamica per cui si traggono leggi e predizioni da esperienze passate non dà di per sé alcuna legittimità a tale dinamica, non perviene a giustificarla nel senso di fondarla su un principio solido.

Il primo problema è quello che nel 1912 Russell esemplificò con la famosa immagine del pollo induttivista: il fatto di aver osservato in una moltitudine di condizioni, per un gran numero di volte, che a una data ora del mattino viene sempre portato il cibo non basta a mettere al riparo l'implicazione tra l'orario e il pasto dall'inesorabile smentita che arriva quando, a un certo punto, l'allevatore anziché nutrire l'animale gli tira il collo19. L'induzione, consistendo in ultima analisi nel fatto di esprimersi circa l'ignoto sulla base del noto, è un procedimento intrinsecamente esposto al “rischio” che i risultati da esso prodotti si rivelino sbagliati, magari in modo improvviso. Per quanta circospezione si possa esercitare nel trarre le proprie conclusioni dall'esperienza, logicamente non si può mai escludere che l'ennesima volta che si ripete un esperimento esso dia un esito diverso da tutte le precedenti e, anzi, imprevedibile alla luce della legge che si era creduto di poter inferire (dal che poi, se fosse possibile ignorare la difficoltà di stabilire lo statuto dell'umorismo all'interno di un discorso filosofico, si potrebbe tentare di ricavare la massima che errare humeanum est).

Il secondo problema riguarda l'impossibilità di fornire una giustificazione empirica del principio generale, che si può chiamare “principio di induzione”, in accordo col quale crediamo di poter legittimare le tesi generali che induciamo a partire da osservazioni particolari.

Tutti i ragionamenti che riguardano la causa e l'effetto sono fondati sull'esperienza e […] tutti i ragionamenti che derivano dall'esperienza sono fondati sulla supposizione che il corso della natura continuerà ad essere uniformemente lo stesso. Noi concludiamo che cause simili, in circostanze simili, produrranno sempre effetti simili20.

La tesi della conformità tra il futuro e il passato, di cui l'idea che cause simili producano sempre effetti simili è una riformulazione e il principio di induzione un corollario, sarebbe indimostrabile anche se fosse vera (il che a sua volta non è per nulla ovvio, poiché «ciò che è possibile non si può mai dimostrare che è falso; ed è possibile che il corso della natura possa cambiare, dal momento che noi possiamo concepire tale cambiamento»21). Qualsiasi affermazione circa l'uniformità della natura

non ammetterà altra prova che non sia quella tratta dall'esperienza. Ma la nostra esperienza del passato non può provare nulla per il futuro, se non in base alla supposizione che ci sia una somiglianza tra passato e futuro. Perciò questo è un punto che non ammette affatto prova di sorta, e che noi diamo per concesso senza prova alcuna22.

Se si tenta di giustificare la propria predizione di un evento futuro sulla base di eventi passati, si sta assumendo la somiglianza tra il passato e il futuro; e se si vuole giustificare questa somiglianza, non si può ricorrere al passato (per esempio sostenendo che in passato le predizioni di eventi futuri effettuate sulla base di eventi passati siano state confermate) senza cadere in una circolarità. Non si può giustificare il principio di induzione dicendo che esso è confermato costantemente dall'esperienza, perché non è se non grazie al principio di induzione stesso che si assume che una serie di osservazioni particolari possa valere come conferma di una legge generale.

Hume, insomma, ha posto in evidenza problemi, prima di lui latenti, di notevole rilevanza filosofica: l'idea che nulla avviene senza causa non è necessariamente vera, poiché il contrario è perfettamente concepibile e non implica contraddizione; e, se anche fosse vera, sarebbe indimostrabile tanto a livello concettuale quanto per via empirica.

È possibile, certo, una descrizione della dinamica fisiologica e psicologica (in generale cognitiva) che determina nell'uomo certe e certe altre credenze e l'uso di queste o quelle nozioni. L'impiego della relazione di causa ed effetto nelle comuni circostanze della vita pratica, così come nei testi di filosofia e nelle ricerche scientifiche, dipende ad esempio dall'abitudine, un meccanismo caratteristico della natura umana e suscettibile di uno studio «in termini descrittivi e fenomenologici»23. Ciò non giustifica però la causalità e le altre nostre categorie concettuali, né la loro applicazione in questa o quell'inferenza. Il fatto che l'uomo tragga certe conclusioni da certe esperienze non è una legittimazione di quelle conclusioni da un punto di vista conoscitivo, e di questo Hume era lucidamente consapevole.

In effetti, egli rifiutava, qualificandola come impossibile, qualunque giustificazione in senso “forte” dei concetti più generali che costituiscono la trama della conoscenza umana: se per “giustificazione” si vuole intendere, nel senso “euclideo” che aveva trovato terreno fertile nel Seicento di Cartesio e, poi, di Spinoza, il ricondurre immediatamente o mediatamente una proposizione a principi anteriori di indiscutibile solidità (vuoi un ego cogito, vuoi un novero finito di assiomi), allora per Hume una giustificazione delle nostre proposizioni circa causa ed effetto è, ad esempio, impossibile. Hume però sosteneva (e in questo sta il suo naturalismo, oltreché la ragione per cui egli non era uno scettico) che tali concetti, impossibili da giustificare in questo senso, sono impossibili anche da negare: non perché logicamente non si possa, ma perché fattualmente non si riesce.

Hume mostra come sia del tutto fuori luogo la pretesa di fornire una giustificazione razionale di queste credenze [quelle che riguardano l'esistenza del mondo esterno, la causalità e la continuità dell'Io]. Esse non possono essere giustificate razionalmente, ma sono corroborate dal processo associativo che le genera e contribuisce a radicarle nella mente umana. Il dubbio dello scettico è inconcludente perché chiede una giustificazione razionale là dove non può essere data e perché ritiene la giustificazione razionale l'unico modo per suffragare un contenuto mentale24.

La natura umana, con la sua forza semplicemente soverchiante, ci impedisce praticamente di rinunciare a una categoria come quella della causalità: e questo a prescindere dalla fragilità che essa può rivelare sotto il microscopio di un filosofo, il quale stesso, appena sveste i panni del pensatore per rimanere un nudo uomo, non può impedirsi di usare i concetti che poco prima criticava25. In questo consiste dunque la risposta di Hume alla questione scettica in generale: «Per quanto lontano uno possa spingere i principi speculativi del suo scetticismo, deve vivere e conversare con gli altri uomini; e di questa condotta egli non è tenuto a dare altra giustificazione che l'assoluta necessità in cui si trova di fare così»26. Non si tratterà, evidentemente, di una giustificazione del tipo deduttivo, forte, matematico di cui si parlava poco sopra per mostrarne l'impossibilità: bensì dell'indicazione di una precisa forma, che si può chiamare «natura umana», dei nostri comportamenti conoscitivi – una forma fattuale, nella cornice della quale però le nostre proposizioni sono al riparo dallo scetticismo speculativo. Uno scettico radicale può rimanere tale solo finché pretende di potersi tenere al di sopra delle credenze che la sua natura gli impone; mentre, all'interno del perimetro della sua umanità, è costretto dalla sua stessa complessione ad abbandonare le sue velleità di dubbio e di negazione, per fare viceversa uso dei suoi sensi e dei suoi concetti in un quadro che dà loro tutto il senso che possono avere, che è anche tutto il senso di cui hanno bisogno.

Note

  1. Cfr. p.e. E. Lecaldano, “Hume, i limiti dello scetticismo e le radici del naturalismo”, in M. De Caro ed E. Spinelli (a cura di), Scetticismo: una vicenda filosofica, Carocci, Roma 2007, p. 113.
  2. Particolarmente rilevanti a questo proposito le Regulae philosophandi e lo Scholium generale presenti nella seconda edizione dei Principia (1713). Cfr. I. Newton, Newton's Principia. The Mathematical Principles of Natural Philosophy, tr. inglese di A. Motte, New York, Daniel Addee 1846, pp. 384, 503.
  3. R. Boyle, “The Sceptical Chymist”, in Id., a cura di T. Birch, Works of the Honourable Robert Boyle, Londra 1772, I, p. 584, citato in A. Santucci, Introduzione a Hume, Laterza, Roma-Bari 1987, p. 14 (con leggera modifica della traduzione).
  4. Cfr. E. Lecaldano, “Hume, i limiti dello scetticismo e le radici del naturalismo”, cit., p. 118.
  5. L'espressione è di Nietzsche, il quale svolse indagini sulla conoscenza e i suoi fondamenti che per molti versi risultano in linea con l'impostazione di Hume. Cfr. p.e. F. Nietzsche, La gaia scienza, tr. it. di F. Masini, Adelphi, Milano 1977, pp. 270-273 (§ 354).
  6. D. Hume, Trattato sulla natura umana, tr. it. di A. Carlini, E. Lecaldano ed E. Mistretta, Laterza, Roma-Bari 1992, p. 6 (con modifica della traduzione).
  7. D. Hume, Estratto del Trattato sulla natura umana, a cura di M. Dal Pra, Laterza, Bari 1968, p. 78.
  8. D. Hume, Trattato sulla natura umana, cit., p. 87.
  9. Cfr. ivi, pp. 90-91.
  10. Cfr. ivi, p. 89.
  11. Cfr. ivi, pp 88-90 e anche D. Hume, Estratto del Trattato sulla natura umana, cit., pp. 85-86.
  12. D. Hume, Trattato sulla natura umana, cit., p. 92.
  13. Cfr. ibid.
  14. D. Hume, Estratto del Trattato sulla natura umana, cit., p. 88.
  15. Non citati esplicitamente da Hume, costoro sono tuttavia riconoscibili: cfr. A. Santucci, Introduzione a Hume, cit., pp. 45-46.
  16. Cfr. D. Hume, Trattato sulla natura umana, cit., pp. 91-95.
  17. D. Hume, Estratto del Trattato sulla natura umana, cit., p. 80.
  18. Ivi, p. 89.
  19. D. Gilles e G. Giorello, La filosofia della scienza nel XX secolo, tr. it. di M. Motterlini, Laterza, Roma-Bari 2010, pp. 12-13.
  20. D. Hume, Estratto del Trattato sulla natura umana, cit., p. 89.
  21. Ivi, p. 90.
  22. Ivi, pp. 90-91.
  23. E. Lecaldano, “Hume, i limiti dello scetticismo e le radici del naturalismo”, cit., p. 115.
  24. Ivi, pp. 114-115.
  25. Cfr. D. Hume, Trattato sulla natura umana, cit., pp. 280-281, citato in E. Lecaldano, “Hume, i limiti dello scetticismo e le radici del naturalismo”, cit., p. 111.
  26. D. Hume, Dialoghi sulla religione naturale, Laterza, Roma-Bari 1987, p. 125, citato in E. Lecaldano, “Hume, i limiti dello scetticismo e le radici del naturalismo”, cit., p. 113.