La causalità come struttura grammaticale nell'ultimo Wittgenstein/4. Wittgenstein: proposizioni logiche e proposizioni empiriche

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3. La soluzione kantiana 5. Wittgenstein: la causalità come struttura grammaticale
La periodizzazione del pensiero di Ludwig Wittgenstein è oggetto di una questione importante di storiografia filosofica. La problematicità di questo punto verrà però qui aggirata col concentrarsi su due singole sue opere, entrambe comunque appartenenti alla fase della maturità: Causa ed effetto, che comprende scritti (note personali e appunti tratti dalle lezioni che Wittgenstein teneva a Cambridge) del 1937 e del 1938; e Della certezza, steso, sempre in forma frammentaria, negli ultimi anni prima della sua morte, avvenuta nel 1951. Dei due, a conferma dell'impostazione meno filologica che filosofica di questo saggio, verrà preso in considerazione prima il secondo, che fornisce la cornice teorica grazie alla quale divengono pienamente comprensibili e significativi i risultati, più specifici, del primo.

Della certezza affronta il problema del fondamento di quelle che chiamiamo le nostre conoscenze.

La lunga tradizione scettica che, a più riprese, ha revocato in dubbio l'intero nostro sistema di credenze, o la realtà stessa del mondo degli oggetti, è forse la principale responsabile dell'esigenza filosofica di indagare le basi della conoscenza in generale e di tentare di consolidarle quanto più possibile. Per la verità, però, non è detto che sia mai veramente esistito uno scettico incline a negare tutte le proposizioni comunemente ritenute valide e, con esse, il mondo medesimo; cioè, forse, questo spettro del dubbio radicale è piuttosto una costruzione artefatta e astratta, una finzione di cui filosofi ben convinti della possibilità della conoscenza hanno ritenuto di doversi e potersi servire per vagliare una tale loro convinzione, eventualmente ricondurla entro i suoi giusti limiti, ma poi esibirne la saldezza. A ben guardare sembra questo il caso almeno per l'Agostino convertito, per Cartesio, per Hume, per Nietzsche, per G.E. Moore, dalle cui tesi in proposito scaturì come risposta la visione dell'ultimo Wittgenstein, e appunto per lo stesso Wittgenstein. Comunque stiano le cose, la domanda circa la legittimità con cui diciamo di conoscere può non servire tanto per mettere in dubbio tale legittimità quanto per chiarirla. È in questa prospettiva che Wittgenstein, in Della certezza, si impegnava in una sorta di fenomenologia critica dell'uso del verbo “sapere”.

A prima vista, sembra che esista un certo numero di cose che ognuno può legittimamente dire di sapere: io so che questa è una mano, io so di essere un uomo. Queste proposizioni, senz'altro semplici, sono proprio quelle che gli scettici radicali tenterebbero di mettere in dubbio, per esempio ventilando la possibilità che chi le enuncia stia sognando, ipotizzando che il mondo sia solo una simulazione, eccetera: infatti se nemmeno queste tesi elementari, che ricadono interamente sotto l'ombrello del senso comune, resistono a uno scossone, allora in modo tanto più fragoroso e misero crolleranno le tesi complesse e articolate, e magari controverse, di una filosofia o di una scienza. Una condotta antiscettica possibile, che si inserisce precisamente in questo quadro, è quella che Moore aveva adottato scrivendo un'apologia del senso comune: in estrema sintesi, «se sai che qui c'è una mano allora ti concediamo tutto il resto»1; ma che qui ci sia una mano è una cosa che si sa, poiché non richiede altra dimostrazione che l'esibizione di questa mano; dunque tutte le esistenze di oggetti del mondo esterno, che non sono qualitativamente diverse dall'esistenza di questa mano, sono al riparo dalla corrosione dello scetticismo2. Moore riteneva di poter, almeno in linea di principio, elencare un certo numero di cose, per quanto semplici, che si sanno. E, grazie a questo stabile nucleo di proposizioni, di potersi sentire al sicuro rispetto ai cavilli, radicalmente estranei e anzi contrari al senso comune, di qualsiasi scettico.

Quello che Wittgenstein osservava a proposito delle cose che Moore riteneva di sapere, senza per questo volerle minimamente negare3, era che «nel normale commercio linguistico»4 non si direbbe che queste cose si sanno – non si userebbe, in riferimento ad esse, l'espressione «io so»:

«Io so di essere un uomo». Per vedere quanto poco chiaro sia il senso di questa proposizione, considera la sua negazione5.

In questo contesto, le parole «io so» sembrano «usate malamente»6. Normalmente non si sente l'esigenza di affermare che qui c'è una mano, e se lo si fa non si sente l'esigenza di affermare che lo si sa. Tali proposizioni suonano perlopiù vuote, addirittura insensate. Chi ex abrupto osservasse ad alta voce «qui c'è una mano», e a maggior ragione «io so che qui c'è una mano», rischierebbe di esser preso per matto e solo il contesto di una discussione filosofica sullo scetticismo lo salverebbe dalla camicia di forza7. D'altro canto, che forma potrebbe assumere un dubbio circa il fatto che questa sia una mano, che io sia un uomo, che lì ci sia un libro? E che aspetto avrebbe un errore in proposito8?

Come sarebbe se ora dubitassi di avere due mani? Perché non me lo posso neppure immaginare? Che cosa crederei, se non credessi questo? Non ho ancora proprio nessun sistema in cui potrebbe esistere questo dubbio9.

E viceversa:

«So che questa è una mano». – «E che cos'è una mano?» – «Ebbene questo, per esempio.»10

Tanto l'affermazione quanto la negazione di quelle proposizioni del senso comune che Moore riteneva di poter semplicemente sapere cadono in un vuoto che le priva di tutto il loro senso. Egli aveva creduto di poterle salvare dal mordace sospetto degli scettici perché si era comportato come se il verbo “sapere” fosse simile a verbi quali “credere” o “congetturare” nel fatto di indicare semplicemente uno stato mentale soggettivo e di non dipendere per la legittimità della sua applicazione da altre condizioni se non dal convincimento di chi asserisce di sapere (come l'affermazione di chi dice di credere o congetturare qualcosa dipende per la sua verità solo dallo stato soggettivo di, rispettivamente, decisa o blanda inclinazione di costui ad abbracciare una certa tesi)11.

Il falso uso che fa Moore della proposizione «Io so» consiste in questo: che la considera come una manifestazione che non si può mettere in dubbio più di quanto non si possa mettere in dubbio, per esempio: «Io provo dolori». E siccome da «Io so che è così» segue «È così», così anche di quest'ultima proposizione non si può dubitare12.

Questo atteggiamento di Moore sembra confermato dal fatto che egli conceda a chiunque di convincersi dell'esistenza di un oggetto del mondo esterno col solo assistere all'ostensione di esso, quando, nel contesto di una disputa sullo scetticismo, proprio l'attendibilità delle ostensioni è ciò che si mette in questione. Con questo la presunta «dimostrazione» dell'esistenza di una mano, insieme al suo corollario che riguarda il mondo esterno, mette capo solamente a una certezza soggettiva che assomiglia a un ingenuo autoconvincimento, a sua volta formalmente simile a quello di chi comprasse più copie dello stesso giornale per assicurarsi che le notizie vi siano riportate correttamente13.

Certamente, dalla proposizione «Lui sa che là c'è una mano», segue anche «Là c'è una mano». Ma dalla sua affermazione «Io so che...» non segue che lo sa.

Prima si deve dimostrare che lo sa14.

Sembra che un uso opportuno del verbo “sapere” presupponga la possibilità di rendere ragioni del proprio sapere – il che coimplica la possibilità di rendere ragioni di un eventuale dubbio. Un dubbio, come un'affermazione, sembra potersi esprimere («funziona»15) solo all'interno di un contesto strutturato, in quanto nodo una rete di proposizioni organizzate in modo da dare senso le une alle altre, dentro uno spazio orientato secondo un asse di verità e falsità che renda possibili giustificazioni: insomma in un «gioco linguistico»16. Ma conviene fermarsi un momento e fare un passo indietro.

Con questa prima elaborazione di uno studio del modo in cui, sulla base dell'utilizzo effettivo, pare lecito impiegare il verbo “sapere”, si è giunti a una considerazione importante: affinché una proposizione sia, per così dire, interessante, affinché essa non trasmetta un senso di insignificanza o anche insensatezza, e affinché quindi si possa enunciarla senza rischiare di passare per stravaganti, essa deve contenere qualcosa la cui negazione sarebbe possibile, e dunque la cui affermazione non sia necessaria. Il che è quanto dire che qualcosa che si può sapere è qualcosa che ricade nel campo della giustificazione, che ammette argomenti a favore e contro tra i quali si deve perciò decidere sulla base di un lavoro di bilancia.

«Io so...» si dice quando si è pronti a dare ragioni cogenti. «Io so» si riferisce a una possibilità di provare la verità. Se un tizio sappia qualcosa, può mostrarsi, posto che quello ne sia convinto.

Se però quello che crede è d'una specie tale che le ragioni che può darne non sono più sicure della sua asserzione, allora non può dire di sapere quello che crede17.

Qui Wittgenstein aggiungeva un altro tassello: una proposizione (e qui davvero qualsiasi proposizione, inclusa «qui c'è una mano») può sempre essere dimostrata, o giustificata, se ciò significa derivarla da altre proposizioni; «ma può darsi che queste non siano più sicure della proposizione stessa»18, e allora difficilmente si potrà dire di trovarsi in presenza di una dimostrazione, o giustificazione, bene intesa. È appunto questo il caso delle proposizioni del senso comune di Moore: se si pretende di giustificare una tesi come quella che qui ci sia una mano col ricondurla a un'altra di maggior solidità, non se ne troverà nessuna che possa servire allo scopo; e, di nuovo, la circostanza è la medesima nel caso del dubbio, poiché se si pretende di dubitare di una tesi del genere non se ne troverà nessun'altra che possa essere tenuta salda per giustificare il dubbio.

Se un tizio mi dicesse che dubita di avere un corpo, lo riterrei pazzo. Però, non saprei che cosa voglia dire: convincerlo che ha un corpo. E se gli avessi detto qualcosa, e se quello che gli ho detto avesse tolto di mezzo il suo dubbio, io non saprei come e perché l'ha fatto19.

Non tutte le proposizioni sono suscettibili di essere giustificate, e quelle che non lo sono non ammettono argomentazioni né a favore né contro, né nel senso dell'affermazione né in quello del dubbio. E questo è precisamente quello che accade con le proposizioni del senso comune intese come le intendeva Moore. Ora però, se è vero che nell'abituale gioco linguistico l'espressione “io so” si usa laddove è possibile rendere ragioni, allora quell'insieme di proposizioni di base che, costituendo il buonsenso di ogni sistema di pensiero, dovrebbero garantirlo da tutte le incertezze, i sospetti e le problematicità sono precisamente quelle che non diremmo di “sapere”20.

O meglio: esistono alcuni casi, per la verità piuttosto particolari, in cui diremmo di saperle, e potremmo enunciarle senza pericolo che si pensi che abbiamo perso la ragione. Come si è già anticipato l'affermazione di avere due mani, fatta nel contesto di una conversazione filosofica in cui con dovizia di argomentazioni se ne discute la legittimità, suonerebbe quantomeno sensata. La stessa affermazione, comunicata per telefono a qualcuno che con umana partecipazione si informa delle nostre condizioni dopo un grave incidente che ha rischiato di comportare la perdita di un arto, suonerebbe addirittura appropriata21. Ma questo conferma, anziché confutare, quello che si diceva: la possibilità di sapere qualcosa dipende dal fatto di poterlo giustificare, di immergerlo in un contesto, di carattere logico, nel quale possa inserirsi organicamente e da cui possa trarre il suo senso. Questo ci porta ancora un passo più avanti: la possibilità di sapere qualcosa non dipende dalla natura intrinseca di quella cosa, ma dal fatto che essa sia o meno giustificata, cioè dalla rete di relazioni che intrattiene con il suo contesto.

La domanda che resta da porsi, ora, riguarda la natura delle proposizioni del senso comune. Ammesso che, come siamo arrivati a dire, le proposizioni di cui si è pronti a rendere ragioni (per esempio, «dal cervello si partono 12 coppie di nervi»22) siano oggetto di conoscenza e, insomma, siano cose che sappiamo; allora cosa dobbiamo dire di una proposizione come «questa è una mano»? Qual è il suo valore?

Ricollegandosi alla differenza, già evidenziata, tra proposizioni giustificate e proposizioni in qualche modo isolate, Wittgenstein proponeva un'altra considerazione: c'è una differenza importante tra, da una parte, proposizioni che hanno il carattere dell'osservazione empirica e che ammettono di essere risolte nel senso del vero o del falso su una base, in senso lato, sperimentale, e, dall'altra parte, proposizioni che invece si sottraggono per principio alla possibilità di una conferma o smentita empirica perché non hanno la forma di un'osservazione.

Proposizioni come «qui c'è una mano», «io sono un uomo», «ci sono oggetti fisici» non sono il risultato di osservazioni sperimentali. Non possono essere confermate, e se è per questo nemmeno smentite, su un piano empirico.

Non si può immaginare che non esistano oggetti fisici? Non lo so. E tuttavia «Ci sono oggetti fisici» è nonsenso. Dovrebbe essere una proposizione dell'esperienza?23

Si tratta piuttosto di regole, che non descrivono una situazione empirica ma prescrivono un comportamento linguistico o, che è lo stesso24, istituiscono un valore logico.

L'istruzione «A è un oggetto fisico» la diamo soltanto a chi non capisce ancora che cosa significhi «A», o che cosa significhi «oggetto fisico». È dunque un'istruzione che riguarda l'uso di certe parole, e «oggetto fisico» è un concetto logico. (Come colore, misura...). E per questa ragione non si può costruire una proposizione: «Esistono oggetti fisici»25.

O almeno: si può, ma essa non arriverà ad essere vera né falsa, perché non potrà essere giocata sul piano della giustificazione. Riuscirà ad essere, al più, una parte della definizione dell'espressione “esistere” per chi sappia già servirsi dell'espressione “oggetto fisico”, o viceversa una parte della definizione dell'espressione “oggetto fisico” per chi sappia già servirsi dell'espressione “esistere”. Come tale, essa sarà semplicemente certa: avrà una normatività logica, oltreché pratica, che non potrà essere violata senza, in primo luogo, far collassare a livello logico il linguaggio che si sta usando, e, in secondo luogo, compromettere a livello pratico la comunicazione che si sta intrattenendo.

Perché sono così sicuro che questa è la mia mano? Su questa specie di sicurezza non riposa forse tutto quanto il giuoco linguistico?26

E:

Se dubito, o non sono sicuro, che questa sia la mia mano (in un senso o nell'altro), perché allora non devo anche dubitare del significato di queste parole?27

Un dubbio simile non coinvolge il piano empirico, ma il piano logico. Cioè non riguarda la legittimità in termini di giustificazione del mio affermare che questa è la mia mano, ma l'uso (cioè il senso) della parola “mano”. Viceversa, affermare «qui c'è una mano» non significa enunciare una verità che è tale perché ha dalla sua buone ragioni, ma fornire della parola “mano” una definizione ostensiva.

Si capisce ora perché sbottare «questa è una mano» può assomigliare a un sintomo di follia: chi, se non un pazzo, avrebbe bisogno di farsi ricordare o di ricordare ad altri il senso e l'uso della parola “mano”?

Si è visto che solo all'interno di un sistema, di un ambiente logico, di uno spazio in cui si rendono possibili ragioni una proposizione diviene sensata, è suscettibile di configurarsi come vera o come falsa, e in ogni caso ammette giustificazioni. Ci sono dubbi legittimi e dubbi illegittimi, diversi a seconda che riguardino (rispettivamente) proposizioni che fungono da osservazioni o proposizioni che fungono da regole. Il dubbio sull'esistenza del mondo esterno, ad esempio, non assomiglia al dubbio sull'esistenza di un pianeta remoto: perché, se il secondo si può dirimere con l'osservare tramite strumenti astronomici tale pianeta, il primo sembra sfidare del tutto ogni possibilità di controllo. I ragionamenti di Moore sembrerebbero implicare che l'aver trovato un pianeta del genere corrobora l'esistenza del mondo esterno; ma, osservava Wittgenstein, se si dubitasse davvero dell'esistenza del mondo esterno si dubiterebbe davvero di troppe cose per potersi anche solo avvicinare all'affermazione che esiste un pianeta remoto28. Il dubbio sull'esistenza di un pianeta è abbastanza circoscritto da lasciare intatta la disponibilità di un terreno circostante su cui far leva per giustificare la tesi dell'effettiva sua presenza o assenza; il dubbio sull'esistenza del mondo esterno invece è così radicale da annullare ogni criterio che possa legittimare o delegittimare il dubbio stesso, e come tale è sostanzialmente insensato.

Le questioni, che poniamo, e il nostro dubbio, riposano su questo: che certe proposizioni sono esenti da dubbio, come se fossero i perni sui quali si muovono quelle altre29.

La forma logica (e se si vuole anche pratica) del nostro conoscere (e se si vuole anche del nostro agire) è sistematica e olistica: le singole proposizioni devono il loro senso alla costellazione di relazioni in cui sono immerse. All'interno del sistema, olisticamente considerato, è possibile la giustificazione, e sono dunque possibili verità e falsità. Il sistema stesso invece è, evidentemente, semplicemente dato; non è né vero né falso, perché non è ammessa al suo esterno la possibilità di una giustificazione.

Il giuoco linguistico […] non è fondato, non è ragionevole (o irragionevole). Sta lì – come la nostra vita30.

È un fondamento infondato, ma questa sua mancanza di giustificazione non è problematica proprio perché esso non vuole e non può essere vero.

Se il vero è ciò che è fondato, allora il fondamento non è né vero né falso31.

Quanto alle singole proposizioni, esse, nel momento in cui vengono isolate dalla rete di relazioni in cui sono inserite fintantoché appartengono al sistema, acquisiscono la stessa natura del sistema stesso (natura che dipende proprio dal fatto che il sistema, come tale, sia isolato e non appartenga a un ulteriore sistema): stanno semplicemente lì, in quanto forme ingiustificate e infondate, vuoi grammaticali, vuoi – che è lo stesso32 – sociali.

«Potremmo mettere in dubbio ciascuno di questi singoli fatti, ma metterli in dubbio tutti non possiamo».

Non sarebbe più corretto il dire: «tutti non li mettiamo in dubbio»?

Che non li mettiamo in dubbio tutti è, appunto, il modo e la maniera in cui giudichiamo, e dunque agiamo33.

In effetti, questo fatto che si possa mettere in dubbio ogni singola credenza vale per tutte le proposizioni: anche quelle riconducibili al senso comune non sono intrinsecamente diverse dalle altre. Purché le si inserisca in un contesto opportuno, come si è visto sopra, esse possono sensatamente essere affermate con la pretesa che siano vere; e possono, sempre che si riesca a giustificare il dubbio, anche essere sensatamente dubitate.

Se […] qualcuno dicesse: «[…] anche la logica è una scienza empirica», avrebbe torto. Ma questo è giusto: che la medesima proposizione può essere trattata, una volta, come una proposizione da controllare con l'esperienza, un'altra volta come una regola di controllo34.

Il sistema è acefalo, e non presenta un nucleo del tutto irriducibile di proposizioni non suscettibili di essere messe in questione. Ogni singola tesi può essere messa in dubbio, ma solo alla condizione che tutto il resto venga lasciato al suo posto: solo il sistema nel suo complesso è irriducibile.

Certo però alcune proposizioni sono in un certo senso più rigide di altre, e di solito fungono da norma; altre sono più fluide, e tendono ad aver bisogno delle prime come metro di controllo. Alcune sono più “facili” da affermare o dubitare giustificatamente, alcune richiedono a questo scopo circostanze piuttosto particolari e in effetti anomale.

Questo però, una volta di più, non dipende da qualche intima proprietà caratteristica di tutte e sole le proposizioni del senso comune; bensì dal fatto che il senso comune si determina proprio come quel circolo relativamente ristretto di proposizioni che si sono cristallizzate e sono divenute regole. Inserire una proposizione in un contesto logico che possa corroborala o problematizzarla, insomma, teoricamente è sempre possibile; ma può essere più o meno difficile a seconda che, metaforicamente, la proposizione in questione sia rispetto al sistema più centrale, e dunque in qualche modo più vincolata, o più periferica, e dunque più mobile.

Ci si potrebbe immaginare che certe proposizioni che hanno la forma di proposizioni empiriche vengano irrigidite e funzionino come una rotaia per le proposizioni empiriche non rigide, fluide; e che questo rapporto cambi col tempo, in quanto le proposizioni fluide si solidificano e le proposizioni rigide diventano fluide35.

Avendo ricostruito, sulla base dei frammenti di Wittgenstein, questa linea di ragionamento, è possibile percorrere in sintesi la sua soluzione del problema generale dello scetticismo, che coincide (come si accennava all'inizio del capitolo) con una teoria circa la natura della conoscenza che è al contempo una precisa delimitazione del suo campo di azione.

Moore non aveva impostato una filosofia fondazionalista: non aveva preteso di trattare le sue proposizioni del senso comune come altrettanti assiomi semplicemente veri e noti da cui poter derivare ogni altra proposizione vera e conoscibile. Aveva ritenuto, infatti, che le proposizioni del senso comune potessero essere dimostrate36, anche se come notava Wittgenstein ciò non poteva significare farle discendere verticalmente da un fondamento indubitabile, ma solo inserirle orizzontalmente in una rete di altre proposizioni. L'assunto di fondo di Moore riguardava l'insensatezza del dubbio circa la testimonianza dell'esperienza, per così dire, «originariamente offerente»37, la quale fornirebbe alle proposizioni del senso comune il terreno da cui esse traggono la loro genuina indubitabilità. Ma egli, lungi dall'aver sbagliato ad attribuire un carattere di certezza alle proposizioni del senso comune, ne aveva dato un'errata interpretazione e valutazione epistemologica. Wittgenstein osservava che non si tratta, come Moore avrebbe voluto, di descrizioni vere ed empiricamente controllabili di stati di cose, di proposizioni che risultano oggetto di una conoscenza possibile: sono bensì norme di comportamento linguistico, cioè strutture logiche semplicemente certe, benché in effetti non immutabili, che fungono da regole di un gioco il cui carattere è sistematico. L'approccio in un certo senso fenomenologico è valido, poiché anche per Wittgenstein l'esperienza è senz'altro «una fonte legittima di conoscenza»38 e un dubbio che investisse ogni evidenza che in essa ci si offre sarebbe profondamente insensato – per esempio: «Nessun diavoletto ci inganna, in questo momento? Bene, se ci inganna – non importa. Occhio non vede cuore non duole»39. Però non si può pensare di produrre una descrizione sensata dell'esperienza come se la prima si aggiungesse alla seconda, quale un'etichetta, completamente a posteriori. Anche se metterla in questi termini significa discostarsi di molto dal lessico wittgensteiniano, vorrei dire che la descrivibilità dell'esperienza è radicata a priori nel linguaggio che, nell'esatta misura in cui tale esperienza è oggetto di una descrizione, costituisce la sua forma. Nemmeno Wittgenstein adottava un approccio fondazionalista. Egli non considerava possibile servirsi di un repertorio ristretto di assiomi veri come fonte da cui derivare teoremi altrettanto veri; al contrario, riteneva che il linguaggio, fungendo come una grammatica dell'esperienza, abbia delle strutture certe, perché normative, grazie alla trama delle quali è possibile connettere proposizioni opportunamente costruite e dar luogo a giustificazioni e confutazioni, cioè a verità e falsità. «Non i singoli assiomi mi paiono evidenti, ma un sistema, in cui le conseguenze e le premesse si sostengono reciprocamente»40. Tali strutture non si differenziano dalle proposizioni vere se non per una relativa loro rigidità, in ogni caso estrinseca, e possono essere modificate, se si è disposti con ciò a cambiare il proprio modo di parlare in modo tanto più profondo e radicale quanto più la proposizione in questione è profondamente radicata nel sistema41. La possibilità di asserire e problematizzare una tesi dipende dal fatto che altre tesi restino salde; benché un dato gioco linguistico sia caratterizzato, rispetto agli altri possibili, proprio dal fatto che a rimanere ferme siano certe proposizioni anziché proposizioni diverse, il rapporto tra ciò che si muove e ciò che facendo da perno rende possibile il movimento è variabile – solamente, non si può pensare di privarsi di un fulcro stabile su cui far leva per l'argomentazione senza privarsi perciò dell'asse stesso che orienta la distinzione tra vero e falso.

La risposta di Wittgenstein ai dubbi radicali dello scetticismo più sfrenato è dunque questa: certe proposizioni non si possono mettere in questione (e questo “potere” riassume il duplice senso che il tedesco distinguerebbe con i verbi dürfen e können) perché farlo all'interno del sistema significherebbe contraddire le sue strutture stesse, mentre farlo fuori dal sistema significherebbe non riuscire ad arrivare nemmeno a dubitare. Se prendo in considerazione la possibilità che il mondo degli oggetti fisici non esista, contraddico una struttura logica e una pratica comunicativa che, all'interno del comune gioco linguistico, ha il valore di una regola. In questo senso il mio dubbio è illegittimo. Se insisto, esco dal comune gioco linguistico e do vita a una nuova struttura logica e pratica comunicativa, benché arbitraria, che però nel gioco di prima non può chiamarsi dubbio. In questo senso il mio dubbio è impossibile.

Parlando, cioè sempre (benché non solo) quando si fa filosofia, ci si muove in uno spazio ben determinato e strutturato in modo preciso e caratteristico. Tale spazio, che ha una natura linguistica, è lo sfondo di ogni nostra proposizione e ciò che rende possibile valutarla come vera o falsa. È infondato, poiché è appunto al suo interno che ogni fondazione deve necessariamente collocarsi. È al di là di ogni dubbio possibile, poiché in modo del tutto analogo ogni dubbio comprensibile e filosoficamente rilevante dovrebbe muoversi dentro di esso. È la grammatica della nostra esperienza, che si esprime in una serie (comunque aperta e dinamica) di regole le quali a loro volta non sono fondate, né tanto meno vere oppure false, ma funzionano come altrettante forme in accordo con le quali altre proposizioni possono essere costruite.

Tutti i controlli, tutte le conferme e le confutazioni di un'assunzione, hanno luogo già all'interno di un sistema. E precisamente, questo sistema non è un punto di partenza più o meno arbitrario, e più o meno dubbio, di tutte le nostre argomentazioni, ma appartiene all'essenza di quello che noi chiamiamo argomentazione42.

Il sistema del linguaggio non è una deformazione della realtà, ma la sua forma, almeno in tanto in quanto la realtà è dicibile ed è oggetto di una filosofia possibile.

Note

  1. L. Wittgenstein, Della Certezza. L'analisi filosofica del senso comune, tr. it. di M. Trinchero, Einaudi, Torino 1999, § 1.
  2. Cfr. G.E. Moore, La prova dell'esistenza del mondo esterno (1939), in Id., Saggi filosofici, a cura di M. Bonfantini, Lampugnani Nigri, Milano 1970, p. 154.
  3. Cfr. L. Wittgenstein, Della Certezza, cit., § 151.
  4. Ivi, § 260. Cfr. anche L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, tr. it. di R. Piovesan e M. Trinchero, a cura di M. Trinchero, Einaudi, Torino 2009, § 246.
  5. L. Wittgenstein, Della Certezza, cit., § 4.
  6. Ivi, § 6.
  7. Cfr. ivi, § 467.
  8. Cfr. ivi, § 17.
  9. Ivi, § 247.
  10. Ivi, § 268.
  11. Cfr. ivi, § 21.
  12. Ivi, § 178.
  13. Cfr. L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., § 265.
  14. L. Wittgenstein, Della Certezza, cit., §§ 13-14.
  15. Ivi, § 24.
  16. Ibid.
  17. Ivi, § 243.
  18. Ivi, § 1.
  19. Ivi, § 257.
  20. Cfr. ivi, § 151.
  21. I miei esempi non sono identici a quelli di Wittgenstein, ma dovrebbero essere in linea con essi. Cfr. ivi, §§ 348, 460, 467, 483-484, 530, 553.
  22. Ivi, § 621.
  23. Ivi, § 35.
  24. Ha senso a questo proposito un richiamo, benché di sfuggita, alla teoria che Wittgenstein aveva elaborato nelle Ricerche filosofiche a proposito dell'identità tra significato e uso nel linguaggio. Cfr. p.e. L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., § 43.
  25. L. Wittgenstein, Della Certezza, cit., § 36.
  26. Ivi, § 268.
  27. Ivi, § 456. Cfr. anche § 369.
  28. Cfr. ivi, § 20.
  29. Ivi, § 341. Cfr anche L. Wittgenstein, Causa ed effetto, in Id., Causa ed effetto seguito da Lezioni sulla libertà del volere, Einaudi, Torino 2006, p. 14: «In quanto eccezione il dubbio ha la regola come suo ambiente. Questi occhi hanno un'espressione, se non fanno parte di un volto?»
  30. L. Wittgenstein, Della Certezza, cit., § 559.
  31. Cfr. Ivi, § 205.
  32. Rimando di nuovo alle Ricerche filosofiche per la critica di Wittgenstein alla nozione di “linguaggio privato”. Cfr. L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., §§ 243 e segg. Cfr. anche, però, L. Wittgenstein, Causa ed effetto, cit., pp. 31, 34-35.
  33. L. Wittgenstein, Della Certezza, cit., § 232.
  34. Ivi, § 98. Cfr. anche §§ 95-97.
  35. Ivi, § 96. Cfr. anche § 210.
  36. È sufficiente il riferimento al titolo della sua opera già citata: La prova dell'esistenza del mondo esterno, dove l'inglese proof significa proprio “dimostrazione”.
  37. L'espressione è di Husserl: cfr. p.e. E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica I, a cura di V. Costa, Einaudi, Torino 2002, p. 52 (§ 24), per il «principio di tutti i principi» che sta al cuore della sua fenomenologia.
  38. Ibid.
  39. L. Wittgenstein, Osservazioni sopra i fondamenti della matematica, a cura di M. Trinchero, Einaudi, Torino 1988, p. 133 (II, 78).
  40. L. Wittgenstein, Della Certezza, cit., § 142. Cfr. anche § 225.
  41. Cfr. p.e. ivi, § 138. Inoltre, un rapido accenno di Wittgenstein alla dimensione diacronica dei cambiamenti, anche profondi, del modo di parlare degli uomini (cfr. ivi, § 336) fa pensare alla storia della scienza e rende interessante un confronto con la cosiddetta «tesi di Quine». Cfr. W. V. O. Quine, “Due dogmi dell'empirismo”, in Id., Il problema del significato, Ubaldini, Roma 1966, pp. 40-43.
  42. L. Wittgenstein, Della Certezza, cit., § 105.