La figlia del re (Barrili)/III
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III.
Giornate tristi, giornate tristi, quando la bambina sparì! Non l’aveva accompagnata Zufoletto, al conservatorio di Lodi. Egli, l’autore di quella novità, non aveva potuto essere lo spettatore dell’opera sua. Come sarebbe andato il Bottegone, senza la sua vigilanza? Chi altri poteva restarci utilmente, se non lui? Forse il signor Demetrio, che nei suoi libri non leggeva più, che delle cose sue non intendeva più nulla? Il signor Demetrio del resto, nella sua qualità di babbo, doveva accompagnar lui la ragazza. Meglio così; Zufoletto restando a Mercurano, poteva crogiolarsi liberamente nella sua tristezza, divorare in silenzio le sue lagrime.
Il Bottegone era uggioso, buio, tenebroso come la morte: con tanta gente che ci capitava a tutte le ore del giorno, pareva una tomba. E come no? Prima d’allora, ad una cert’ora del mattino, Fulvia scendeva al pian terreno, entrando dalla porticina che metteva nella cartoleria. Avvisava il babbo che la colazione era pronta, dava intanto una sbirciata ad un certo cassetto, dove l’amico suo Zufoletto soleva riporre qualche immagine, qualche figurina ritagliata sui contorni, vestita di seta o di raso, a lei destinata. Erano le belle improvvisate, che la facevano dare in un grido di maraviglia e di riconoscenza. Ahimè, anche allora, che la bambina era partita, Zufoletto non sapeva avvezzarsi all’idea di non vederla più scendere; aspettava ad ogni istante di vederla comparire, e metteva sempre da parte le belle figurine per lei. Che pazzo! E sorrideva malinconicamente, ripetendo sottovoce la frase: che pazzo!
Quando il signor Demetrio fu di ritorno, dovette sottostare ad un interrogatorio in piena regola.
— Ebbene? com’è andata?
— Ebbene, che cosa ti debbo dire? che è in gabbia? C’è pur troppo, e ho dovuto lasciarcela. Ma ti assicuro io che avevo una gran voglia di riportarmela via; e due volte, uscito di là, per la gran via solitaria che mette alla stazione, son ritornato indietro col proposito di ripigliarmela. Com’è vero Dio, non credevo di soffrirci tanto.
— Ve lo credo, signor Demetrio, ve lo credo; — rispondeva Zufoletto, col singhiozzo alla gola.
— Anche tu soffri, Virginio? Hai ragione; ed io me lo immaginavo, andando laggiù. L’ho detto anzi parecchie volte in treno alla piccina: il tuo maestro a quest’ora piangerà come un vitello da latte. Ed io per bacco, non canzono neppur io. Eravamo così male avvezzati, con quella cara creatura! Ah, che malinconia, Virginio, che malinconia vuol essere al Bottegone! Io già non mi ci posso più vedere; come quando è mancata quella santa donna! Non va, ti dico, non va; una donna in casa, sia vecchia, sia giovine, ci vuole ad ogni costo, ci vuole. —
Si pranzò male, quel giorno e gli altri appresso. Virginio (da un pezzo il signor Demetrio non lo chiamava più Zufoletto) Virginio aveva l’uso di pranzare da solo; non già, come ai primi tempi, per la sua condizione di fattorino, ma oramai per necessità di servizio. A un’ora pranzava il padrone, e con lui naturalmente, la figliuola; a un’altra il segretario, perchè i commessi di negozio non restassero mai senza la debita vigilanza. Ma dopo il ritorno del signor Demetrio dalla triste impresa di Lodi, rimanessero pure senza vigilanza i commessi, il signor Demetrio non voleva pranzare da solo, e Virginio doveva tenergli compagnia. Per altro, non durava molto, quel pranzo: in venti minuti si mandava giù tutto, con grande rovello di Marietta, la cuoca, a cui non si rendeva giustizia.
— Madonna santa! — esclamava la buona donna. — Non hanno neanche il tempo di sentire il gusto alla grazia di Dio. —
Finito il pasto, il signor Demetrio infilava l’uscio e andava a svagarsi per le vie del paese, ansimando e sbuffando, ch'era la sua maniera di sospirare. Ma poi, dopo tanti giri e rigiri, cascava all’osteria dell’Aquila d’oro, dove lo aspettava, tira le due e le tre, la solita partita a tarocchi, col farmacista, col segretario comunale, col medico condotto, o, quando il medico era chiamato altrove dal suo ministero, coll’oste che ne assumeva graziosamente l’«interim». Quella era un’usanza vecchia, per il signor Bertòla; l’aveva presa dacchè gli era morta quella santa donna della signora Giuditta; e l’aveva presa per consolarsi, per dimenticare un paio d’ore, magari due paia, la tristezza della solitudine.
Zufoletto, in quella vece, non usciva di casa: non c’erano consolazioni per lui. Ma no, dico male, una ne aveva, quando le cure del Bottegone gli davano mezz’ora di tregua. Andava a chiudersi nella sua camera, e apriva il suo cassettone, mettendo fuori i quinterni della bambina, che ripassava l’uno dopo l’altro, regolarmente, lentamente, come se dovesse ancora notarne le mende, e rilevare i progressi. E non erano solamente quinterni d’esercizi; c’era anche qualche buona copia di piccoli componimenti; una tra l’altre, che Zufoletto guardava più a lungo che tutte le sue compagne, quantunque fosse in pessimo stato, gualcita e stracciata nel mezzo per tutta la sua lunghezza. Ma egli l’aveva aggiustata con cura, collegandone i pezzi con liste gommate, tratte dai margini di una carta di francobolli. Sulla testata di quel foglio era scritto, con un bel carattere tondo, il titolo del componimento: «La figlia del Re.» Doveva essere una novellina; e patetica, senza fallo, perchè rileggendola gli si inumidivano maledettamente le ciglia. Bella consolazione, direte; ma non son tutte impastate di sorrisi, le consolazioni degli uomini: ce ne sono che fanno piangere; e quella era forse del numero.
Altre consolazioni dovevano venire a Zufoletto; e quelle, dopo un po’ di confusione, che suole occorrere in tutti i principii delle cose, presero via via un andamento regolare; tanto che capitavano ogni lunedì. La settimana sì apriva sempre, s’inaugurava coll'arrivo d’una lettera di Lodi. Fulvia scriveva una settimana al babbo, e l’altra a Zuf.... cioè, no, al signor Virgimio Lorini. Appariva un po’ triste, nella sua prima lettera; più rassegnata nella seconda, e lasciava intravvedere che si fosse già bene adattata al suo nuovo genere di vita. Il collegio le piaceva; le maestre, i maestri, le campagne, tutto prometteva di farla felice.
«Sa lei, signor Virginio, che non devo più darle del tu, come facevo prima, e con tanta temerità? Coi maestri bisogna essere rispettosi; e lei è stato un buon maestro per me, il primo che ho conosciuto. Questo mi ha messo in confidenza con lei; ma ora che son lontana, e che proseguo in quest’ottimo collegio gli studi così bene incominciati con lei, sento che alla mia confidenza deve succedere un sentimento di venerazione, pari alla mia gratitudine. Ma sappia che son sempre quella di prima. Dal canto mio non so se il primo giorno che avrò la fortuna di rivederla, riuscirò a stare in cerimonia col mio buon maestro, col migliore amico del babbo. Veda lei di fargli coraggio, al mio babbo tanto caro; gli dica che ho rasciugate le mie lagrime, pensando che collo studio, soltanto collo studio, potrò dargli qualche consolazione. Si studia, qui, si studia molto, ed anche alle sue ore si giuoca, e si fanno delle bellissime passeggiate. Le foglie cadono dagli alberi e lo spettacolo è un po’ triste; ma poi verrà la primavera, e tutto fiorirà, non è vero?
«Scusi, se ardisco darle una piccola noia. Ho dimenticato nel mio scaffale (lo chiamavo libreria, si ricorda?) l’Antologia del Mauri; un libro che mi è tanto caro. È vecchio, e non pare che si usi più: qui non si trova dai librai, ed io vorrei averlo, per tante belle poesie che ci sono raccolte; tra le altre quei versi «Ad una stella» di Lucretia Maria Davidson, tradotti così bene dal Maffei, e che a lei piacevano tanto. Se me lo manda, mi fa una grazia; e più presto me lo manderà, più ne sarò contenta. Veda un po’ che sfacciata!».
Ah sì, subito, cara! Appena finito di leggere, il signor Virginio corse a cercare l’Antologia del Mauri. Un’ora dopo, il libro era già alla posta, e pieno zeppo, tra le pagine, delle più belle figurine che da due settimane andassero a riporsi in un certo cassetto della cartoleria, invano aspettando il grido di meraviglia d’un bell’angelo caro.
Quelle lettere, com’erano dolci! quei lunedì, come li aspettava! E in attesa dei lunedì, lavorava tutta la settimana come un bue, paziente e in apparenza tranquillo sul solco. In verità, avrebbe potuto lavorare un po’ meno, e bastare a tutto, perchè Fulvia non era più là, ed egli non aveva più da consacrarle una parte del suo tempo. Ma egli notava che l’assenza di Fulvia, per rispetto alle occupazioni sue, era peggio della presenza. Si era infatti avveduto che pensando a lei, guardava davanti a sè in qualche punto dello spazio; e non voleva perdere un tempo che non era suo, ma di casa Bertòla. Perciò si faceva forza, discacciava l’immagine ritornante ad ogni tratto, si chiudeva nel suo lavoro, e curava meglio di prima i «generi diversi» del Bottegone; felice, soddisfatto di sè medesimo, quando gli occorreva qualche nuova trovata.
Il signor Demetrio ci aveva lo svago dei tarocchi; lui niente, e se ne stava intere giornate meditabondo, senza far parole, oltre le poche necessarie al servizio. Ma il lunedì, dopo le nove del mattino, che era l’ora della posta, bisognava vederlo, che bel sorriso gli fioriva sulle labbra, che bella fiamma gli guizzava negli occhi. Le sue parole non erano più ilari; le sue frasi non erano più leggere o più vivaci; ma sempre restando gravi, cascavano più graziose e più dolci. Dal garzone della pizzicheria, già suo primo maestro d’aritmetica, accoglieva con maggiore benevolenza qualche barzelletta discreta; per il commesso alle pannine aveva qualche confidenza amichevole, sul prezzo delle lane e dei cotoni, com’era facile pronosticarlo dai telegrammi dei mercati europei: alla ragazza della cartoleria (una novità per Mercurano, avere messa una donna a quel ramo più gentile del negozio) domandava notizie dei suoi vecchi, del fidanzato sotto le armi, del fratellino ammalato.
Quei mutamenti erano osservati; ed era uso al Bottegone di aspettarseli; tanto che si chiamavano i lunedì del signor Virginio. Nessuno diceva più Zufoletto: quel soprannome si perdeva oramai nella notte dei tempi; non ci si poteva pensar più, dopo che il fattorino era salito a dignità di segretario. Neanche era parso strano che ci fosse salito, tanto era stata insensibile l’ascesa, e naturale, e fatale. Si era presto veduto che quel tamburino aveva nel suo zaino il bastone di maresciallo. Anche prima di vederlo assunto all’onore della «firma» e non d’altro occupato che della corrispondenza, si capiva che la mente direttrice era lui. E non aveva mai abusato della sua autorità, non si era mai invanito della sua dignità; andando da una stanza all’altra, sempre in moto e presente a tutto, non disdegnava di metter mano alle pezze, ai cartoni, ai barattoli, come ogni altro dei giovani di negozio. C’erano degli avventori che preferivano essere ancora serviti da lui; e il signor Virginio non si faceva pregare. Senza aver aria di degnarsi, senza neanche aver quella di levar l’uffizio agli altri, prendeva lui la mezza canna, spiccava lui la catenella di similoro, metteva lui i pesi sulla bilancia, levava lui le scatole dagli scaffali, apriva le risme, e magari, in assenza del suo antico maestro d’aritmetica, affettava il prosciutto; sempre garbato, facile nel tratto, sorridente e premuroso, pareva un principe travestito, che s’adattasse per amore a fare il garzone di bottega e lo facesse di buona voglia, senza lasciar sentire la degnazione, o indovinare lo sforzo.
Qualche conoscenza gli domandava alle volte di Fulvia. Era naturale che ne domandassero a lui, se il signor Demetrio non si faceva veder quasi mai al Bottegone. Allora dovevate vedere come gli s’illuminasse la faccia.
— La signorina sta bene; — rispondeva egli, facendo bocca da ridere. — Abbiamo ricevuto notizie ieri della sua classificazione bimestrale.
— Delle prime, s’intende.
— La prima, signora mia, la prima.
— Bene, perbacco! come qui?
— Nessuna meraviglia; — replicava Virginio, ammiccando. — Son buone scuole, a Mercurano, e chi ha bene studiato qui, ne porta i frutti dovunque vada. Sa quello che ha guadagnato di più, che non poteva avere da noi? Una bella mano di scritto, inglese, affilata, elegantissima; un vero caratterino di duchessa. —
Il signor Virginio non ne aveva ancora veduti, caratteri di duchesse. Ma si sa, le duchesse, dai tempi di Carlomagno in poi, debbono scriver tutte a quel dio.
— Quella Fulvia è un angelo; — dicevano le conoscenze a gara. — Felice chi la sposerà.
— Sicuro, felice; — rispondeva Virginio, inchinandosi.
Ma perchè diventava triste, quando gli facevano di questi discorsi? O piuttosto, perchè glieli facevano? Perchè pensavano tutti a maritare la signorina Fulvia? Non bastava, non era già troppo che fosse fuori di casa? Che antipatica manìa, quella di certa gente, di non aver pace e di non volerne concedere a nessuno! C’è un bel fiore alla pianta, che fa spicco sul davanzale del terrazzino; e quella gente non è tranquilla fino a tanto non l’abbia strappato dal ramo, per metterlo in un mazzo, e mandarcelo ad appassire in un boccale. La bambina è ancora a balia? ve la mandano a scuola. È ancora a scuola? ve la mandano a marito. Che furia è mai questa, di cacciarsì avanti le giovani generazioni, come un branco di polli d’India al mercato?
Quando gli si parlava due volte in un giorno di maritare la signorina Fulvia, il nostro Virginio durava un gran fatica a contenersi. E mandava giù molto male la sua minestra, e ricusava i piatti intorno a cui la povera Marietta credeva di essersi meglio industriata.
Così passavano i mesi; così passarono gli anni. Il signor Demetrio andava qualche volta, di due in due mesi, a Lodi, per veder la figliuola, e ne portava sempre buone notizie. Già egli si era assuefatto all’idea di non vederla più che a lunghi intervalli. Virginio non la vedeva che a lunghissimi, perchè di muoversi da Mercurano egli non poteva neanche vagheggiare l’idea; il Bottegone, fabbrica immane, voleva tenersi lì sotto il suo trave maestro, come ai tempi mitologici il cielo si teneva sotto il buon vecchio Atlante, suo eterno sostegno. Per veder la sua scolarina, Virginio doveva aspettar le vacanze, quando il collegio le permetteva di passare qualche settimana a casa. Ma la bambina era una giovinetta, oramai; i giorni delle vacanze si facevano d’anno in anno più pochi. Nella casa di Mercurano non c’erano donne, tranne di servizio: il signor Demetrio capiva bene che quello non era posto per lunghi soggiorni, ad una fanciulla che faceva il suo corso di studi nel collegio delle Dame Inglesi di Lodi.
Al quarto anno di conservatorio Fulvia toccava già i quindici. Bisognava ormai lasciarla in collegio, anche nella stagione delle vacanze, contentandosi di andarla a vedere di tanto in tanto. Sicuro, il signor Demetrio poteva farlo benissimo, il viaggio; non così il signor Virginio, il povero Atlante del Bottegone.
Gli anni volgevano lenti, a Mercurano, ma pieni di lavoro; e la tristezza nell’assiduo lavoro si affoga, come un vin grosso si stempera nell’acqua; ahimè, senza farsi migliore. Al settimo anno compiuto, quando non ci fu più nulla da insegnarle, nè francese, nè tedesco, nè inglese, nè storia, nè geografia, nè disegno, nè pianoforte, al collegio di Lodi, la signorina Fulvia ritornò.
Ma era una signorina davvero. A dieci anni, quando essa era partita la prima volta per quel suo benedetto collegio, Virginio l’aveva baciata con tenerezza sulle guance. Ai primi ritorni l’aveva ancora baciata, ma riguardosamente, sui capelli. L’ultima volta che era venuta a casa in vacanze, più niente; perchè in verità è come niente una stretta di mano. Quando poi la fanciulla ritornò in famiglia, per non muoversi più (si poteva dirlo che non avesse a muoversi più?), Virginio fece un inchino cerimonioso; la stretta di mano fu a mala pena accennata, da un lievo contatto di dita, ancora attenuato e smorzato dalla buccia ruvidetta e gelosa d’un guanto di Svezia.
Sire Iddio, che bella figura, snella flessuosa, già formata, trionfante di tutte le grazie, e in vista ancora acerba, come una ninfa antica nel primo fiore della sua gioventù, istante divino della bellezza nascente, che il genio ellenico ha colto, eternato nel marmo di Fidia e nel verso di Omero! Era lei, nondimeno, ancor lei; ma con un certo che di nuovo, da ricordare il frutto maturo sul ramo, e tuttavia cosperso del suo resinoso polviscolo, che vela, senza nasconderlo, il buon colore della crescenza compiuta. Un’aria aristocratica che poteva essere di pudore e pareva durezza, si effondeva dal viso, dagli atti e da tutta la persona di lei. Impacciata e contegnosa ritornava alla casa sua, come ci si ritorna dopo tanti anni d’assenza, che a tutta prima par quasi di esserci stranieri, anche per coloro che ci abbiamo lasciati ad attenderci; ed essi, gli amici buoni del tempo andato, essi che tante volte ci han fatto ballare sulle loro ginocchia, essi medesimi hanno ritegno a toccarci: tant’acqua è corsa di mezzo, raffreddando e gelando gl’impeti subitanei del cuore che vorrebbe prorompere alle antiche dimostrazioni d’affetto. Ma che farci? Sono due parti di un tutto, che s’incontrano dopo essere state a lungo disgiunte, nè più combaciano per ogni punto della loro superficie, o, se pure si collegano ancora, lasciano veder sempre la frattura antica nella saldatura recente.
Il signor Demetrio, beato lui, non badava a queste sottigliezze. Era il babbo di Fulvia: ebbe i timidi baci della figliuola e li ricambiò rumorosamente, senza veder nulla d’insolito in lei. Zuf... ahimè, no, il signor Virginio sì sentì molto male, confusamente guardando, confusamente ammirando, e più confusamente balbettando alcune frasi sconnesse. Un bel fior d’allegrezza si era schiuso quella mattina nel cuore di lui, presentendo l’arrivo della cara bambina, della dolce scolara, della pupilla de’ suoi occhi. Ma il bel fiore si richiuse tosto all’apparire della signorina Fulvia, della aristocratica personcina, sogguardante attraverso le mal rilevate pieghe del velo di seta grigia, che involgeva le falde capricciose del suo cappellino di paglia.
Povero fiore selvatico! A quella gloria di luce che passa su lui, può guardarsi dattorno e riconoscersi un po’ meglio che non facesse da prima: vede allora le sue foglie troppo umili e scabre, il suo cespo troppo ruvido, non bene ancora liberato dai seccumi della cattiva stagione, la sterpaglia troppo ispida e troppo fitta, in mezzo alla quale egli è nato e cresciuto. Perchè mai il bel raggio di sole si fermerebbe a guardare la sua oscura miseria campestre! Ai nobili giardini, alle aiuole ben disegnate, alle piante ben governate, ai rami ben cresciuti, alle foglie ben disposte in artistica pompa di svariati colori, si addice il bel raggio del sole!
Dato il tempo necessario alle paterne accoglienze e ad uno spuntino che permettesse alla viaggiatrice di aspettar l’ora del pranzo, Virginio non seppe far altro che condurre la signorina Fulvia a vedere tutti i cambiamenti e miglioramenti che erano stati fatti nel Bottegone durante l’assenza di lei. Il Bottegone era la maraviglia di Mercurano, la gloria di casa Bertòla e di tutti coloro che avevano l’onore di servirla. Ma egli sentiva bene, facendo gli onori di casa, che tutto ciò non dovesse premere poi molto alla signorina Fulvia, e procedeva sommariamente nella sua breve rassegna.
Dopo tutto, non erano cambiamenti notevoli: c’era soltanto una distribuzione più razionale; donde il fatto che ci fosse più roba, contenuta nel medesimo spazio di prima, e si vedessero meglio divise le mostre. L’oreficeria era rimasta tale e quale, come cinque o sei anni prima, non essendo mutati i gusti del paese, nè cresciute le richieste. Già, quello era un genere che il signor Demetrio lo teneva più per l’onore che non per il guadagno, veramente assai magro. Per contro erano cresciute le pannine, con grande varietà di tessuti, e con un vero assortimento di novità, così per battere i mercanti avventizi della fiera imminente, come per mostrare ai signori villeggianti che Mercurano non impallidiva al confronto delle città, capiluoghi di circondario o di provincia che fossero.
Della pizzicheria c’era poco da dire: quello era il genere più ricercato, antico ed accetto per ogni classe di persone. Al ventre ci pensano tutti, soleva dire il signor Demetrio, e per arrivare al ventre si suol passare per la gola.
S’intenderà che alla pizzicheria, fondamento e fortezza della casa Bertòla, gli occhi della signorina Fulvia guardassero più distratti che mai. Più volentieri si fermarono nella cartoleria, vedendo seguita con molto buon gusto la moda, così nel taglio dei cartoncini e delle buste, come nella carta di filo all’antica, senza raffilature sui margini, che era la gran novità dell’anno in materia epistolare. E brillarono gli occhi e sorrisero le labbra, davanti a certe scatole piene zeppe d’immagini, di figurine in rilievo, a colori vivaci, con riporti di raso, di seta e di tulle. Fulvia riconobbe con piacere le vecchie, ed ammirò anche un tratto le nuove. Che ricchezza era mai quella! E il signor Virginio arrossì, dovendo confessare alla signorina Fulvia di aver sempre aumentato quel tesoro per lei.
Ma per lei, disgraziatamente, non erano più fatti quei graziosi trastulli. Virginio lo sapeva, e non si trattenne molto davanti alla raccolta delle sue figurine di carta e di stoffa. La condusse invece al piano superiore, facendola entrare nel salotto, dov’era un bel pianoforte, nuova ed inaspettata decorazione del luogo, che strappò un grido di lieta maraviglia dalle labbra di Fulvia. E il grido non bastava, come, non bastava la maraviglia; un senso di gratitudine seguì prontamente, e la fanciulla saltò con impeto dì allegrezza infantile al collo del babbo.
— Non ringraziar me; — disse allora il signor Demetrio; — è stata un’idea di Virginio. È nuovo, mi capisci? è un pianoforte nuovo di zecca.... Cioè, che diavolo dico? nuovo di fabbrica. C'era quello dell’esattore; un’ottima occasione; e si poteva avere per cinquecento lire, essendo l’esattore di partenza e volendo disfarsene. Ma il nostro Virginio è un grande aristocratico. La tastiera, ha detto lui, deve essere vergine; si spenda quel che bisogna, ma il pianoforte sia nuovo. Tanto nuovo, bambina mia, che s’è fatto venir da Parigi, e mi costa un migliaio di lire. —
Quella confessione del signor Demetrio ottenne un bel sorriso di Fulvia a Virginio Lorini. Egli lo meritava, quel premio; ma lo accolse facendosi rosso come una fragola montanina. E quel giorno, poichè la signorina Fulvia era tornata a casa, egli non voleva pranzar più a tavola col suo principale.
— Che! che! — gridò il signor Demetrio, inalberandosi. — Stiamo a vedere! Questa è nuova, di zecca, stavolta!
— Scusate, signor Demetrio.... — rispondeva Virginio. — Pranzavo con voi, alla vostra ora, per tenervi compagnia. Ma adesso non siete più solo. —
Il signor Demetrio non la intendeva per quel verso.
— Fammi il piacere! — ribattè. — Fammi il piacere! Diglielo tu, Fulvietta; cioè no, non andiamo contro la volontà di quella santa donna; diglielo tu, Fulvia, che è matto.
— Mi guarderò bene dal dirgli così; — rispose Fulvia, ridendo. — Ma il signor Virginio ci farà tanto piacere a pranzare con noi. Non voglio esser tornata a casa per cambiarci la più piccola cosa; figuriamoci poi questa, che è una buona abitudine.