La fine di un Regno/Parte II/Capitolo I

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Capitolo I

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Parte II Parte II - Capitolo II
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CAPITOLO I


Sommario: Francesco II sale al trono — Proclama reale e ordine del giorno all’armata di terra e di mare — Le prime nomine — Gli speranzosi nel nuovo Re — Il ministero Filangieri — Il trasporto funebre di Ferdinando — I funerali in Napoli e in Sicilia — Un epigramma — Il principe di Satriano e le sue idee politiche — Prime riforme — La rivolta del Collegio medico — L’insurrezione degli Svizzeri — Lo sgomento della famiglia reale — Gli Svizzeri a Capodimonte — Maria Sofia dà prova di coraggio — L’eccidio al campo di Marte — Le cause dell’insurrezione — Un po’ di storia inedita — La famiglia reale dopo la morte di Ferdinando II — La Regina madre — Le sue gelosie e le sue irrequietezze — Aneddoti — Abitudini di Maria Teresa e suo difetto di pronunzia — Maria Sofia regina — La cospirazione per il conte di Trani — Filangieri ne parla al Re — Incidente fra Maria Teresa e Filangieri — Francesco II e Maria Sofia — Gli “strateghi„ — Un aneddoto — Francesco II e il suo misticismo.


Il giorno stesso della morte di Ferdinando II, 22 maggio 1859, il duca di Calabria salì al trono, col nome di Francesco II, e l’annunziò ai popoli delle Due Sicilie un proclama magniloquente e quasi mistico, redatto, si disse, dal Murena il quale aveva fama di scrittore purgato. Altri asserì con più fondamento che l’avesse scritto Ferdinando Troja, e il ministro delle finanze lo avesse ritoccato; ma è da credere che furono entrambi a metterlo insieme, come entrambi lo portarono a firmare al giovane Re, che lo trovò molto bello.

Fu detto pure che Francesco II ne avesse scritto, di suo pugno, un altro che cominciava con queste parole: “Essendo cessate le speciali condizioni, per le quali l’Augusta e Santa Memoria del nostro Augusto Genitore si vide costretto di sospendere gli effetti della Costituzione, da Lui liberamente largita, riconvochiamo i [p. 4 modifica]colcollegi elettorali pel giorno ....„. Presentato però questo proclama nel Consiglio dei ministri, che si convocò dopo la morte del Re, e al quale sarebbe intervenuto anche Alessandro Nunziante, questi sarebbe stato il primo a giudicarlo offensivo alla memoria del Re defunto, e con lui furono d’accordo il Troja e il Murena. Prevalse quindi il partito di respingerlo, e Francesco firmò invece il proclama del Troja e del Murena, scrivendovi in calce: “Quantunque io non mi persuada della forma del programma, che vuole sostituirsi a quello da me scritto, cedo malvolentieri alla proposta de miei ministri, sol perchè debba ritenersi maggiore della mia la loro esperienza negli affari di Stato„. Il proclama sarebbe stato poi da lui affidato ad un ministro estero, che si disse il Bermudez “a memoria delle sue proprie convinzioni„. Tutto ciò fu asserito e alcuni autorevoli personaggi mostrano di crederlo, ma non è storicamente accertato e non è verosimile, tenuto conto delle condizioni generali della politica e dell’indole irresoluta e timida del nuovo Re. Se quel proclama fosse stato affidato al Bermudez, questi di certo non avrebbe per tanti anni resistito alla tentazione di farlo noto, tanto egli era incorreggibilmente vanitoso.

Nel proclama ufficiale Francesco implorava la misericordia divina per compiere i suoi doveri, “tanto più gravi e difficili, in quanto che succediamo ad un Grande e Pio Monarca, le cui eroiche virtù ed i pregi sublimi non saranno mai celebrati abbastanza„. Imponeva a tutte le autorità di rimanere in carica; e la Real Maggiordomia e Sopraintendenza di Casa Reale emanava un curioso ordine per il lutto della Corte, obbligatorio per sei mesi.

Il dì seguente, nell’ordine del giorno all’armata di terra e di mare, Francesco faceva noti ai soldati ed alla flotta gli ultimi addii del suo augusto genitore, con invito a voler “insieme con noi innalzare all’Onnipotente Iddio preghiere per la Grande anima di quel Santo Monarca, che, sin negli ultimi istanti di sua vita,sen sovveniva, e Iddio pregava pel paese e per l’armata tutta„. Questo secondo documento intiepidì le speranze dei liberali, che si facevano molte illusioni circa gl’intendimenti del nuovo Re. L’ordine del giorno fu datato da Capodimonte, poichè la mattina del 23 maggio la famiglia reale lasciò Caserta, e non potendo prendere stanza alla Reggia di Napoli, dove doveva farsi [p. 5 modifica]l’esposizione della salma di Ferdinando II, andò tutta, in carrozze chiuse, in quella villa.

Fin dal primo giorno del nuovo regno corse la voce che Francesco II avrebbe cambiato il ministero, sostituendo il Filangieri al Troja, e la voce parve confermata dal fatto che il 3 giugno, Filangieri fu nominato consigliere di Stato, e con lui, il principe di Cassaro e il duca di Serracapriola, con queste significanti parole: “Ci riserbiamo di avvalerci, sempre che lo stimeremo opportuno, de’ loro lumi e della loro esperienza„.


Gli speranzosi nel nuovo Re magnificavano le cose, che si sarebbero vedute; affermavano che il proclama ai sudditi e l’ordine del giorno all’esercito rivelavano un’eccessiva pietà filiale, ma che Francesco, ascoltando i consigli di suo zio, il conte di Siracusa, e gli impulsi del suo animo, avrebbe cambiato il ministero, iniziate le riforme, data l’amnistia ai condannati politici e agli esuli; e i più esaltati aggiungevano che avrebbe fatta un’alleanza offensiva e difensiva col Piemonte, per compiere l’impresa nazionale, e largita la Costituzione.

Alla battaglia di Montebello era seguita, dopo undici giorni, quella di Palestro e poi, il 4 giugno, la gran battaglia di Magenta, la quale liberò la Lombardia dall’occupazione austriaca. Si asseriva con insistenza che la Francia e l’Inghilterra avrebbero ristabilite le relazioni diplomatiche col nuovo Re; si dava per certo che Napoleone e Vittorio Emanuele gli avrebbero proposto di unirsi a loro per compiere l’impresa della indipendenza nazionale. Ma invece i primi atti del nuovo Re furono soltanto questi: tolse le doppie direzioni a Scorza e a Bianchini; sostituì a Scorza il magistrato Gallotti, nel ministero della giustizia; al Bianchini, nella polizia, l’altro magistrato Francescantonio Casella; tolse al Murena la direzione dei lavori pubblici per darla all’intendente di Bari, Mandarini. E fu solo, dopo l’imponente dimostrazione per la battaglia di Magenta, che Francesco si ricordò delle parole del padre e nominò il generale Carlo Filangieri primo ministro e ministro della guerra.


La dimostrazione per Magenta fu il primo risveglio delle forze liberali e fece paurosa impressione in Corte. L’incaricato di affari e il console generale di Sardegna avevano illuminati [p. 6 modifica]i palazzi della Legazione e del Consolato, alla Riviera di Chiaja; e la Legazione di Francia, al Chiatamone, aveva fatto altrettanto. I liberali, in gran parte studenti, ne presero occasione per affermarsi e affermare ad un tempo le loro simpatie alla causa nazionale, al conte di Siracusa, il cui palazzo era a breve distanza dalla Legazione sarda e al governo francese. La dimostrazione ebbe luogo la sera del 7 giugno e raccolse da due a tremila persone. I dimostranti vennero alle mani con la polizia; Niccola Caccavone ebbe ferita lievemente una mano e Teodoro Cottrau perdè le scarpe e la voce. In Corte furono vivacissime le invettive contro Gropello, creduto promotore della cosa, perchè egli aveva, non solo illuminata la facciata del palazzo, ma esposto tra i candelabri un enorme mazzo tricolore, dono di alcune signore napoletane; ma a lui non venne fatta la più lontana allusione per quanto era avvenuto.

Non si trattò di sostanziale mutamento nell’indirizzo del governo; il Filangieri non scelse lui i suoi compagni, né alcun uomo di notevole importanza entrò nel modificato ministero. De Liguoro alle finanze, Rosica all’interno e Ajossa ai lavori pubblici, furono i nuovi direttori. Troja divenne consigliere di Stato, cioè ministro senza portafoglio; Murena passò alla Corte Suprema e Bianchini fu consultore. Del vecchio ministero rimasero Carrascosa, nella stessa sua perpetua qualità di ministro in partibus, e Carafa, al quale gli avvenimenti italiani e la morte di Ferdinando II avevano fatto perdere la bussola. Questo ministero, messo insieme a un po’ per volta, quasi faticosamente, rivelava le incertezze del principe e la varia natura delle influenze, alle quali soggiaceva; spezzava la vecchia compagine e non ne creava una nuova, anzi alimentava l’inquietudine e le diffidenze della Corte e degli zelanti. Francesco, come tutte le nature deboli, credeva di accomodar tutto, giuocando di equilibrio; e univa il Casella e il Rosica, miti e sapienti magistrati, e il De Liguoro, intelligente funzionario del ministero delle finanze, allo zelante e ignorante Ajossa, che nulla sapeva di lavori pubblici, per acchetare la Regina vedova e tutto quel vecchio mondo ferdinandèo, che si agitava e seguiva con animo mal disposto le prime novità, brontolando contro il giovane Re, esagerando e malignando. Rosica era abruzzese, e il giorno stesso che andò al ministero fu trovato scritto sopra una porta interna [p. 7 modifica]questo curioso e arguto bisticcio: Quello che non rose il tempo, e non rosero i sorci, Achille .... rosica! Egli era stato intendente di Basilicata, vi aveva fatto mite governo e salvata parecchia gente dopo l’impresa di Sapri. Ajossa, non sapendo una parola di francese, prese con sè un interprete, certo De Lauzières, fratello del noto giornalista. Francescantonio Casella era stato fra gli intimi di Carlo Troja sino agli ultimi giorni, anzi ne diresse il modesto mortorio. Suo primo atto, andando al governo, fa il decreto, col quale veniva condonato il rimanente della pena ai condannati politici per i fatti del 1848 e 1849, e poi l’altro per il rimpatrio di alcuni liberali, che erano a domicilio forzoso, e finalmente quello assai più significante, in data 16 giugno, col quale erano abolite le liste degli attendibili. Se ne può immaginare l’impressione! Casella e Filangieri furono fatti segno di grandi dimostrazioni di simpatia da parte dei liberali, mentre i vecchi elementi di Corte non ebbero più freno nelle loro malignazioni e sospetti, battezzando il Filangieri, il Casella e il Rosica per traditori, che portavano in rovina lo Stato e la dinastia. Solo fidavano nell’Ajossa, il quale in quei primi giorni non aveva voce in capitolo.

L’avvento di Francesco II al trono non fu, nei primi tempi, salutato con feste e tripudii. Il lutto ufficiale lo impediva: lutto così rigoroso, che solo dopo i due primi mesi, si permise alle signore della Corte di portare ornamenti di diamanti e perle, ma espressamente erano loro vietate le pietre preziose di colore. E ci fu anche il lutto consigliato dalla paura, la quale mosse tanta gente a vestirsi suo malgrado di nero; anzi, in quei primi mesi di estate, furono addirittura aboliti i gilets bianchi. Quelli che li portavano, erano tenuti d’occhio dalla polizia, ammoniti o addirittura minacciati.

È inutile riferire i particolari sull’esposizione e la tumulazione della salma di Ferdinando II: si leggono nel Giornale Ufficiale, insolitamente loquace in quei giorni. Il cadavere, compiuta l’imbalsamazione, fu vestito colla divisa di capitano generale dell’esercito e collocato in una cassa aperta; fu poi disceso, la mattina del 28, per una scala segreta e collocato in un carro militare, che usci dal portone a sinistra della Reggia. Da Caserta a Napoli il trasporto si compì per ferrovia, senza pompa. Nella Reggia di Napoli restò esposto negli ultimi tre giorni di [p. 8 modifica]maggio, coperto da un velo bianco e sollevato tanto alto, che se ne vedevano appena i piedi. Le guardie del Corpo e gli ufficiali degli usseri, in grande uniforme, montavano la guardia. I gentiluomini, ogni ora, secondo il cerimoniale della Corte di Spagna, facevano mostra di andare a prendere gli ordini dal morto Re, ed invariabilmente ripetevano: Il Re non risponde. Nei primi due giorni, il pubblico fu ammesso a vederlo, dalle 10 della mattina alle 6 della sera; nell’ultimo, dalle 8 a mezzogiorno. Il concorso fu immenso. Nella sala d’Ercole si riversò tutta Napoli, e le provincie vicine dettero largo contributo di curiosi. Nel pomeriggio del 31, il cadavere fu trasportato con grande pompa a Santa Chiara e sepolto nelle tombe reali, dopo una magniloquente orazione di monsignor Salzano e un memorabile accompagnamento.


Il 3 giugno si riaprirono i teatri, e si apri la serie dei funerali, in Napoli e nelle provincie. Non vi fu Accademia o pubblico istituto, seminario o confraternita, Ordine cavalleresco o capitolo collegiale, che non si credesse in dovere di celebrar suffragi all’anima del morto Re. Fu una gara in tutto il Regno e, naturalmente, si distinsero le città di Napoli e Palermo. Ogni esequie era chiusa dal così detto elogio funebre. Elogi, che non si sarebbero fatti di Carlo V o di Luigi XIV o di Napoleone, vennero con gran sicumera tributati a Ferdinando II. Fra i più eloquenti oratori ricordo don Antonio Radente, che parlò in Sant’Antonio Abate; don Domenico Scotto Pagliara, il quale, col Quaranta, col Quattromani e col Barbati, fu l’epigrafista latino di occasione; monsignor Musto, don Antonio Cerbone, il canonico Frungillo, che parlò nel duomo; il padre Cerchi, che a San Giacomo, nel funerale fatto celebrare dai ministri, recitò un’orazione sul tema: Nullus illi similis in legislatoribus; e l’abate don Giustino Quadrari, che, nel funerale dell’Università, al Gesù Vecchio, parlò sul tema: Viginti autem et novem anni regnavit, et fecit rectum coram Domino; e basti ciò a provare a qual colmo di esagerazione può pervenire un falso misticismo, pervertito dalla rettorica. Ma vinse tutti gli altri il funerale fatto celebrare dal municipio di Napoli nella chiesa di San Lorenzo, parata a lutto e avente nel mezzo una tomba di stile greco-egizio su alto basamento. Da un lato c’era Partenope piangente e dall’altro il [p. 9 modifica]Genio borbonico. Pontificò Salzano; parlò il canonico Scherilio e Quattromani ridettò altre iperboliche epigrafi. Si era alla metà di luglio e ancora si celebravano esequie per Ferdinando II, in tutto il Regno, compresa la Sicilia. A Catania, il Decurionato ne fece celebrare uno in duomo, e un altro se ne celebrò nella chiesa collegiata, dove l’elogio fu letto dal canonico Giuseppe Coco-Zanghi. Questo canonico divenne poi notissimo, perchè in un periodico Catanese, La Campana, pubblicò un articolo per dimostrare, che le tre A del nome di Sant’Agata contengono un grande mistero, essendo quelle pronunziate dal profeta Daniele, quando, nella fossa, disse: “A, A, A, Domine, nescio loqui„. E concludeva, che le tre A di Agata avrebbero fatta uscire illesa la vergine dalla fornace, ora mutata in chiesa della Carcarella, in Catania. Di questa stranezza filologica molti risero, ma il Coco, morto, ebbe il suo busto in bronzo nel giardino Bellini, tra gl’illustri catanesi. Su tal busto, don Salvatore Bruno, ex canonico della cattedrale, professore di greco nell’Università e arguto spirito, fece il seguente epigramma:

Tu, sacristanu fausu
Chi ffai chiantatu ccà?
Dimmi: chi tti nci misiru
Forsi pri li tri A?

A Palermo pronunciò l’elogio funebre nella cappella Palatina il padre Cumbo, rettore dell’Università, e in San Domenico, nel solenne funerale, fatto celebrare dal Senato, parlò il padre Romano, gesuita, ma in Sicilia si ebbe più misura.

A Roma, per cura del cardinale Girolamo d’Andrea, fu celebrato un solenne ufficio funebre in Sant’Andrea della Valle, con iscrizioni storiche. V’intervennero il sacro collegio, la prelatura, l’anticamera nobile del pontefice e il personale delle legazioni di Napoli, d’Austria, di Spagna e di Toscana.


Dopo il suo ritorno da Palermo, il generale Carlo Filangieri aveva vissuta a Napoli una vita affatto privata. Frequentò assai poco la Corte, non nascondendo il suo malumore contro Ferdinando II e contro il Cassisi per le cose di Sicilia. Egli era devoto ai Borboni per giuramento di soldato, non per comunanza di vedute, aveva volontà propria e uno spirito affatto moderno. Religioso senza bigottismo e forse volterriano in gioventù, egli rideva delle superstizioni di Ferdinando II, perchè capiva che, [p. 10 modifica]costruendo chiese, sciogliendo voti e coprendosi di amuleti, non si puntellava un trono pericolante. Assunto al governo, credeva di poter rinnovare tutta la compagine dello Stato, ma per riuscire gli mancavano due condizioni essenziali: la fiducia del principe e compagni di governo, capaci d’intenderlo e di secondarlo lealmente. Questi compagni, tranne il Casella e il Rosica, non erano di sua fiducia; non poteva tollerare Ajossa, ma gli fu giuocoforza tollerarlo. Parecchi, tra i quali l’Ischitella, gli fecero più tardi rimprovero di aver accettato il governo in quelle condizioni.1 Nonostante, avrebbe forse superato tutte queste difficoltà, se avesse avuto vent’anni di meno, ma nè lui, nè altri poteva superarle nelle condizioni che ho descritte, e fu vittima del suo ideale, quello di conciliare le esigenze dei nuovi tempi con la dinastia dei Borboni.

Filangieri si mise all’opera con molta fede e buona volontà. Come primo atto mandò via il Cassisi da ministro di Sicilia a Napoli e lo sostituì con Paolo Cumbo, a lui devoto; tolse allo Spaccaforno la direzione dell’interno e lo sostituì con don Michele Celesti, al quale era rimasto affezionato; ne ci volle poco per indurre il Re a consentire ai decreti su riferiti, e particolarmente a quello circa gli attendibili. Alcune sue ordinanze, per l’umile argomento cui si riferivano, provocarono commenti umoristici; ma altre furono consigliate, come quelle intese a rendere meno orribili le prigioni, da doveri di cristiana carità.

Non era quanto si aspettava, ma il presidente dei ministri non aveva le mani libere, nè poteva fare assegnamento sull’iniziativa, o almeno sopra un intelligente concorso dei suoi compagni di governo, ne credeva prudente allarmare troppo il timido Re e la Corte sospettosa, la quale non aveva fiducia in lui e lo rivelava senza mistero.

Rivolse le sue cure all’esercito, rimasto con lo stesso ordinamento datogli da lui nei primi anni di Ferdinando II. Aspirava a farne un esercito di combattimento, all’altezza delle milizie moderne, non un istrumento di regno, come aveva fatto il defunto Re. Capiva quanto fosse necessario rilevare politicamente il Regno di fronte all’estero, tornare in buoni rapporti con la Francia e l’Inghilterra, soprattutto con la Francia, ed entrare in accordi col Piemonte, nell’interesse dei due maggiori Stati [p. 11 modifica]d’Italia e delle due Monarchie, strettamente imparentate. I tempi erano grossi e occorrevano decisioni pronte e radicali.

Quando venne ricevuto dal nuovo Re il barone Hübner, per presentargli le congratulazioni dell’imperatore d’Austria, Filangieri non era ancora ministro. Quel ricevimento ebbe luogo il 4 giugno e destò nuove inquietudini nei liberali, perchè si diffuse la voce che l’Hübner fosse venuto per negoziare una lega fra Napoli e Vienna. Ma risorsero le speranze, quando giunsero, quasi contemporaneamente, il conte di Salmour e il barone Brenier, che Napoleone III tornava ad accreditare presso la Corte di Napoli, dandogli per segretario quel barone Aymè, mezzo napoletano e mezzo francese, che doveva, più tardi, avere una parte in quei tenebrosi intrighi di Corte, che precedettero l’Atto Sovrano del 25 giugno, e soprattutto quando Filangieri consigliò il Re a mandare uno dei suoi gentiluomini a rallegrarsi con Napoleone III e con Vittorio Emanuele della vittoria di Solferino. Il Re scelse per tale missione il duca di Bovino, genero del Filangieri, come colui, il quale dava maggiori garanzie di essere meno liberale. Ma questa nomina, tutta d’iniziativa del Re, ebbe tale successo d’ilarità, che il Filangieri scongiurò il Sovrano di scegliere altri, e fu scelto il principe d’Ottajano.


Nel 1859, il Collegio medico contava più di 300 alunni, distinti in quattro corsi: dei fisici, degli antepratici, dei pratici e dei chirurgi. N’era rettore il canonico Caruso, calabrese, la cui devozione a Ferdinando II e al ministro Murena toccava il fanatismo. Alto, bruno, robusto, peloso come un orso, era allora nel vigore degli anni. Gli occhi neri e le folte sopracciglia gli davano un aspetto quasi truce. Rozzo e privo di cultura, era amministratore del giornale La Verità, che dirigeva il prete Scioscia di Pescopagano, e aveva diretto il ricovero di mendicità nella badia del Morrone, lasciandovi pessima fama. Quando egli fu chiamato a capo del collegio medico, la disciplina di questo lasciava molto a desiderare. Frequenti le fughe notturne dei collegiali, le serenate nel fondo dei pozzi e altre cosette galanti. Caruso, per ristabilir la disciplina cominciò a pretendere che studenti e professori gli baciassero la mano, e tutti gliela baciavano, perchè in poco tempo egli era divenuto lo spavento degli uni e degli altri. Quattro soli professori non si [p. 12 modifica]rono mai a quest’atto servile e furono: il Manfrè, medico del principe don Luigi e nemico implacabile del rettore, il De Renzis, don Salvatore de Renzi e il Perrone, al quale il Caruso fece un giorno una solenne ramanzina alla presenza dei suoi alunni. Caruso spingeva il rigorismo ai peggiori eccessi. Egli non solo vigilava le azioni, ma si studiava d’intuire i pensieri dei giovani, e guai se li scopriva men che ortodossi, in religione e in politica. I prefetti, poveri e piccoli preti di provincia, pagati a sei ducati il mese, gli riferivano tutto, e le punizioni che andavano dai rimproveri al piatto capovolto, dal carcere lieve al penale e dall’espulsione alla consegna alla polizia, fioccavano senza pietà. La sorveglianza, cke egli esercitava e faceva esercitare sugli alunni, era divenuta insopportabile. Compariva all’improvviso nelle camerate, e se trovava da ridire su qualche cosa, non risparmiava ingiurie e schiaffi, e spesso incolpava gli alunni di mancanze immaginarie.

Morto Ferdinando II e caduto il Murena, gli alunni deliberarono di ricorrere al nuovo Re e inviarono parecchie suppliche a lui e al direttore Scorza. Si disse che l’alunno Tommaso de Amicis di Alfedena, venuto poi in fama nella professione sua, scrivesse il ricorso al Re; l’alunno Francesco Colucci di Bari, che fu più tardi garibaldino e giornalista, ne scrisse un altro allo stesso Scorza, ma non se ne vide effetto. E fu allora che si deliberò d’insorgere. I tempi erano un po’ mutati, e le notizie della guerra d’Italia accendevano le teste. L’insurrezione fu organizzata dagli antepratici e dai fisici che si misero, durante la messa, in relazione con le altre camerate, mercè forti mance ai servi, e fu diretta, oltre che dal De Amicis e dal Colucci, dagli alunni Fedele Ranieri, calabrese, Alfonso Guarino, napoletano, Pietro de Caro di Benevento, Enrico de Renzi, figliuolo del professore, e Giovanni Antonelli: erano anche nella cospirazione gli alunni Di Monte, Ursini, Ria, Fiorito e Lobello. Doveva aver luogo la sera della festa di San Luigi, che ricorre il 21 giugno: festa, per la quale il rettore aveva domandata ad ogni giovane una piastra di contributo, volendo celebrarla più solennemente che negli altri anni, ma a quella tassa gli alunni si erano rifiutati. La resistenza insolita aveva reso furioso il Caruso e moltiplicate le punizioni.

Venne dunque la sera del 21 giugno. A un’ora di notte, [p. 13 modifica]si vide una fiammella alla seconda finestra della camerata degli antepratici messa fuori dall’Ursini. Era il segnale convenuto, cui rispose altra fiammella dall’ultima finestra della camerata dei fisici, al secondo piano. Si era stabilito di gridare: abbasso Caruso, fuori Caruso, e cacciarlo dal refettorio: il resto veniva da sè. A due ore di notte, l’ora della cena, scesero tranquillamente gli alunni in refettorio, meno i chirurgi, timorosi di compromettere la laurea medica. I più esaltati portavano di nascosto i ferri anatomici. Recitato il benedicite, mentre l’alunno di turno, salito sul piccolo pergamo, cominciava a leggere un trattato di anatomia (quella sera la lettura era sul terzo paio di nervi), dai banchi dei pratici, addossati al muro, a sinistra della grande porta, si udì il primo grido: abbasso Caruso. Il rettore corse verso il luogo, donde era partita la voce, ma alle sue spalle le grida si moltiplicarono e il fracasso divenne infernale: trecento gole urlavano e trecento braccia battevano con forza i coltelli sui vassoi in segno di minaccia.

Caruso, da principio, non ebbe paura, anzi credè poter domare la tempesta. Difatti non si mosse. Le grida si udivano dalla strada Costantinopoli e da Forìa, e la notizia di una rivolta al Collegio medico si diffuse, in breve, nel vicinato. Il Caruso, pallido e ansante, visto che non riusciva a ristabilire l’ordine, decise ritirarsi, ma prima si arrestò sui gradini della porta piccola e di là, con lo sguardo fisso sui dimostranti, con le mani nelle ampie tasche della zimarra, ruppe in parole di minaccia, ordinando al lettore con tutta la sua voce di riprendere la lettura. Fu la più imprudente delle provocazioni, perchè i giovani, perduta la testa, cominciarono a scaraventare contro di lui piatti, bicchieri, bottiglie e quanto era sopra le tavole. Quella sera si servivano a cena le triglie fritte, e anche queste volarono contro il rettore. Non c’era tempo da perdere. Il prefetto Guadagno, inviso anche lui, aprì la porta, ne cacciò fuori il Caruso e ne prese il posto, mentre questi mandò ad avvisare la polizia.


Uscito il rettore dal refettorio, continuò il baccano. Vennero svelte le lunghe e massiccie panche di quercia e i ferri dei lumi; e armati di panche e di ferri, i giovani corsero al corridoio del secondo piano, che precedeva l’appartamento del rettore. Egli vi si era asserragliato; la porta, ben solida, [p. 14 modifica]resisteva agli urti dei pali e delle panche, adoperate come leve. Alcuni scesero in porteria e sbarrarono l’ingresso. Erano le 11, e ancora gli alunni, schiamazzando, cingevano d’assedio l’appartamento del rettore, cercando di romperne la porta, quando, con le lagrime agli occhi, giunse il vicerettore, un buon vecchio cui tutti volevano bene e, a mani giunte, li pregò di consegnargli le chiavi della porteria, perchè un battaglione di Svizzeri aveva circondato il collegio e gli zappatori stavano per sfondarne la porta. Era vero e si udivano già i primi colpi. Consegnate le chiavi, i giovani tornarono nelle rispettive camerate. Entrarono gli Svizzeri, ma in atteggiamento benigno. In porteria s’insediò il commissario del quartiere, Capasse, che arrestò venticinque alunni e li chiuse nel vicino carcere di Sant’Aniello, affidato alla custodia del padre Cutinelli e del padre Planes, gesuiti. Furono tra gli arrestati gli alunni Ursini, Di Monte, Ria, Fiorito, Lobello, Antonelli, Pugliatti, Severino, Rossi, Zanello, Sollazzo, Libroia, Nicoletti, De Lellis e Casciuolo.

La mattina il Collegio era occupato militarmente. Dopo la messa, i giovani furono chiamati nella sala dell’accademia, una gran sala, coi banchi disposti ad anfiteatro e destinata alle lezioni d’anatomia. Vi trovarono il generale Lanza in grande uniforme e il direttore Scorza, che raccomandarono la calma. Lanza parlò in gergo, com’egli soleva, e fu bonario. Caruso assisteva, ma non disse verbo. Aveva la mano fasciata da una benda nera, poiché s’era fatto salassare dalla paura.

Dopo pochi giorni, assunse le funzioni di rettore il sacerdote Scacchi, che era stato vicerettore ed allora dirigeva il conservatorio di San Pietro a Maiella; fu poi nominato rettore il canonico Lamberti, parroco di Sant’Anna di Palazzo, che vi restò sino alla rivoluzione, quando quell’ufficio fu secolarizzato e venne conferito a Cammillo de Meis, reduce dall’esilio. De Meis fu l’ultimo rettore del Collegio medico, travolto anch’esso nelle rovine dei vecchi ordini. Vivaio di medici e di chirurgi valorosi, non di ciarlatani, più o meno fortunati, il Collegio medico era a Napoli popolare. Anche oggi si ricordano quei giovani, vestiti di bleu in inverno e di verde bottiglia in estate, col cappello a punta, tutto nero e i gigli borbonici ricamati sull’alto bavero dell’uniforme. La prigionia dei giovani non durò più di tre mesi e non vi fu processo. Durante la [p. 15 modifica]prigionia furono consigliati di fare una supplica al Re, perchè alla direzione del Collegio fossero posti i gesuiti, ma non vollero, benché loro si promettesse la grazia sovrana.

Ma assai più grave di questo baccano incruento di giovani medici, ribelli al rettore, fu l’insurrezione militare che scoppiò a due settimane di distanza. Parlo di quella dei soldati Svizzeri, che ebbe un epilogo così sanguinoso e conseguenze politiche tanto gravi.

La rivolta fu ampiamente narrata dal Giornale Ufficiale. Io aggiungerò che lo spavento dei cittadini fu in quella notte addirittura indescrivibile. Gli Svizzeri furono sempre riguardati dai napoletani con terrore, soprattutto dopo il 16 maggio. Vederli in sommossa attraversare Napoli di notte dal Carmine a Capodimonte, a passo di carica, a suon di tamburo, armati di tutto punto e con le bandiere conquistate nei loro quartieri; e udire i frequenti colpi di fucile e le grida di gioia selvaggia e di vendetta, ad un tempo, contro i loro ufficiali, era tale uno spettacolo, da giustificarne la paura. Sarà bene narrare con la maggiore precisione come andarono le cose.

I reggimenti svizzeri, di guarnigione a Napoli, erano tre, poiché il primo era a Palermo. Di quei tre reggimenti, il quarto, reclutato nel cantone di Berna, aveva l’orso cantonale sulla bandiera. I primi malumori si erano manifestati in questo reggimento, al pervenire delle notizie di ciò che si discuteva nell’assemblea federale a proposito degli assoldamenti. E quando, dopo il voto di quell’assemblea, venne ordinato al comandante del quarto reggimento di far togliere dalla bandiera lo stemma cantonale e questi, alla sua volta, comunicò l’ordine al sarto, che vi si oppose, la diffusione della notizia sollevò così vivaci proteste e tali impeti d’ira, che gli ufficiali stimarono prudente consiglio impedire l’uscita dei soldati, in quella sera. Difatti, un gruppo di soldati del terzo reggimento, andato al quartiere del Carmine, dove alloggiava il quarto, non vi potè penetrare, e fu così che quest’ultimo reggimento non partecipò alla sommossa, la quale venne compiuta quasi interamente dal terzo, e per una circostanza particolare. Questo reggimento, decimato in modo inverosimile nei combattimenti di Catania dieci anni prima, anzi ridotto a soli 300 uomini, era stato via via ricostituito con elementi fatti venire di fresco dalla Svizzera. E [p. 16 modifica]questi, serbando più vive e più fresche le impressioni del proprio paese, i sentivano feriti più dei loro compagni dalle nuove disposizioni, le quali negavano loro la cittadinanza e lo stemma cantonale, finché erano al servizio di potenze straniere.

Le autorità furono colte alla sprovvista. Il direttore di polizia, Casella, assicurava ingenuamente di non aver nulla preinteso della rivolta. A tutelare l’ordine e a prender le necessarie precauzioni, di fronte ad eventuali gravi conseguenze, il generale Filangieri, accompagnato dal generale Lanza, dal maresciallo Garofalo, direttore del ministero della guerra e dal colonnello Buonopane, girava per i luoghi più esposti e per i quartieri delle milizie, impartendo ordini ed istruzioni, e vegliò la notte.

La nuova della sommossa pervenne confusamente a Capodimonte, ma non s’immaginava che gl’insorti si sarebbero, come avvenne, diretti proprio là, risoluti a chiedere al Re che fosse loro mantenuta la nazionalità propria, o che il governo li licenziasse, accordando loro la paga degli altri sei mesi, ne’ quali doveva durare la capitolazione. Scarsa truppa custodiva Capodimonte. Udendo avvicinarsi forze armate a passo di carica, si credette da principio che fossero reggimenti mandati a maggior tutela della famiglia reale. Ma, conosciuta la verità, si diè l’allarme e si chiusero i cancelli del parco. Era circa la mezzanotte. Il retroammiraglio Del Re, che comandava il debole presidio, lo dispose a resistenza. Francesco mostravasi inquieto; paurosi gli altri principi; presente a se stessa soltanto la Regina, la quale, udendo appressarsi il tamburo, uscì sulla terrazza della sua camera da letto per vedere lo spettacolo. La Regina madre, cui avevano detto trattarsi di una rivolta militare, consigliò di chiamar subito gli Svizzeri a difesa, ma quando udì che questi erano gl’insorti, corse presso i figliuoli piccini, che fece svegliare e vestire, per tenerli pronti ad una fuga.

Nulla si sapeva di preciso, anzi si temeva che fossero insorti tutti e tre i reggimenti e si avviassero a Capodimonte, per far prigioniera la famiglia reale. Il Del Re, il duca di Sangro e il colonnello Schumacker uscirono incontro ai rivoltosi presso il cancello principale, per sapere che volessero. Non vi erano ufficiali, ne capi, e perciò non fu possibile parlamentare, né senza fatica si riuscì a capire qualche cosa. Erano poco meno di un migliaio, armati ed eccitati in sommo grado. Parvero calmarsi, [p. 17 modifica]quando fu loro assicurato che il Re, favorevolmente disposto verso di loro, avrebbe riflettuto sulle loro domande, e che intanto ne avessero attese le risoluzioni al campo di Marte.

Gl’insorti si avviarono allora verso Capodichino, tirando colpi di fucile in aria. Bivaccarono sul campo e vi rimasero sino alla mattina. Nella notte, il ministero dispose che i battaglioni di cacciatori, rimasti fedeli, sotto il comando del generale Nunziante, andassero al campo di Marte e imponessero il disarmo ai ribelli. Ma, quando questi videro avvicinarsi i loro compagni armati e con una batteria di cannoni, ritenendo che andassero per massacrarli, ed esasperati perchè non si erano uniti a loro nella rivolta, cominciarono a far fuoco, obbligando così il Nunziante ad ordinare una scarica di fucili e una di mitraglia, per cui s’ebbe a deplorare quella carneficina, che produsse in Napoli incancellabile impressione di spavento e per la quale fu censurato aspramente il Nunziante, che si disse aver agito per troppo zelo verso il Re, dal quale era stato nominato pochi giorni prima aiutante generale, e sua moglie, dama di Corte. Dello zelo inopportuno vi fu, perchè gl’insorti, dopo i primi colpi si sbandarono per le campagne, e il Nunziante continuò, ciononostante, a comandare il fuoco, tanto che, mentre nel 13° battaglione cacciatori non vi farono che due feriti, degli Svizzeri insorti, 20 rimasero morti, 76 furono feriti, 262 fatti prigionieri. Nella notte seguente fu eseguito il trasporto dei morti e dei feriti, argomento di pietà del popolo napoletano. Filangieri affidò al Nunziante quella triste missione, perchè essendo stato egli l’organizzatore dei cacciatori, compresi gli Svizzeri, ne aveva tutta la fiducia.

Così la rivolta fu domata, e il Re, per consiglio di Filangieri, sciolse tutti e quattro quei reggimenti mercenarii. Fino ad oggi erano quasi ignote le vere cause di quella sommossa, che tanto gli zelanti, quanto i liberali di Napoli attribuirono all’opera del Piemonte, e gli emigrati napoletani all’opera dei liberali di Napoli. E poiché nel partito legittimista è sempre radicata l’opinione che vi avesse avuto mano il Piemonte, io ho voluto, con recenti e minuziose indagini, chiarire questo punto del breve regno di Francesco II.

Innanzitutto, bisogna ricordare che le capitolazioni fra il governo di Napoli e il governo svizzero erano scadute fin dal 1866; [p. 18 modifica]e non essendo riuscito a Ferdinando II di rinnovarle, aveva preferito accordarsi, per altri cinque anni, coi comandanti dei quattro reggimenti e del battaglione di artiglieria. Il governo federale lasciò correre, ma a una sola condizione, che non si chiamassero più reggimenti svizzeri, e difatti, da quell’anno si chiamarono ufficialmente reggimenti esteri. Alla fine del 1869 scadeva dunque il quinquennio, e fra il governo napoletano e il governo federale, fin dal gennaio di quell’anno, cominciarono le trattative, per tornare alle vecchie capitolazioni, o almeno per ottenere che continuasse l’accordo intervenuto con i comandanti dei reggimenti. Le trattative, per conto del governo napoletano, erano condotte dal Canofari: trattative laboriose, le quali non lasciavano sperare alcun esito favorevole, sia per effetto dei nuovi tempi, sia perchè nella Dieta il partito radicale era in prevalenza, e sia infine per le accuse mosse dall’Europa liberale al governo svizzero, in seguito ai fatti del 16 maggio in Napoli ed alle giornate di Messina e Catania.

Bisogna ricordare anche che, oltre al Re di Napoli, il Papa aveva al suo soldo due reggimenti svizzeri, i quali si erano battuti con valore a Vicenza nel 1848. Mutato l’animo del pontefice, quei reggimenti non si erano mostrati molto disposti a seguire gli ordini del generale Zucchi, che principalmente con loro voleva ristabilire l’ordine. In seguito a questa resistenza, i comandanti, fra i quali era il Latour, furono destituiti e i reggimenti svizzeri sciolti, rimanendo al soldo del pontefice pochi ufficiali, fra i quali ricordo il Kolbermatter, che fu poi ministro della guerra del Papa, il De Courten e il De Goddy. Furono questi e pochi altri, che più tardi ricomposero un nuovo reggimento svizzero, il quale domò l’insorta Perugia fra le stragi e i saccheggi, quattro giorni dopo la battaglia di Solferino, quando cioè in tutta Europa le idee liberali erano prevalenti nei governi e nella stampa. Quei fatti, per la natura loro e per i gridi di protesta che sollevarono dovunque ne giunse l’eco, eccitarono nella stessa Svizzera uno sdegno così forte contro gli assoldamenti, che la quistione venne agitata di nuovo nella Dieta federale, e fu deliberato che i reggimenti svizzeri stipendiati da Stati esteri, che poi erano Napoli e Roma, perdessero la cittadinanza d’origine, nel tempo che erano sotto le armi, e fosse loro proibito di portare sulla bandiera del proprio reggimento lo stemma [p. 19 modifica]cantonale. Il partito radicale ben sapeva che gli Svizzeri non si sarebbero rassegnati a tali condizioni, e desideroso com’era di lavare le macchie di Napoli e di Sicilia, e quella più recente di Perugia, voleva farla finita con le capitolazioni, le quali erano causa di continue accuse e polemiche e costituivano veramente una vergogna per la Repubblica.

Ministro di Sardegna a Berna era il signor Jockeau, ed è verosimile che egli ne riferisse al suo governo; ma nella sua corrispondenza del tempo, anche in quella più riservata, secondo recenti indagini eseguite nell’archivio del ministero degli esteri, non se ne trova traccia. Il governo piemontese e meno ancora gli esuli napoletani non vi ebbero mano in nessun modo, ed in prova di questa affermazione posso citare due autorevoli testimonianze: quella di Silvio Spaventa, il quale conservò sino agli ultimi giorni di sua vita tenace memoria di tutti gli avvenimenti di allora, e che vivendo in quei giorni a Torino, era in grado, per l’autorità sua fra gli emigrati, di conoscer bene le cose; e quella di Gaspare Finali, intimo del Farini, che aveva alla sua volta tanta intimità con Cavour. Anzi, secondo loro, non solo il governo del Piemonte non vi ebbe parte, ma la notizia della rivolta degli Svizzeri riuscì una sorpresa a Torino per tutti, compreso il ministero.

La spiegazione, storicamente esatta da me data, dissipa la favola che Cavour agisse sul governo federale; favola, che il Canofari accreditava per dare una ragione plausibile dei suoi insuccessi, e Francesco II mostrava di credere per un altro verso, quando nelle istruzioni mandate al suo ministro, aggiungeva di suo pugno: “i soldati svizzeri sono sedotti dall’oro del Piemonte„ e gli raccomandava che facesse notare questa circostanza al governo federale. E ugualmente inattendibile si rivela l’altra diceria, che la decisione del governo svizzero si dovesse al lavoro di una commissione di emigrati, formata da Scialoja, da Leopardi e da Antonino Plutino, i quali avrebbero agito per mezzo del ministro piemontese a Berna. Quello, invece, che il partito radicale svizzero aveva preveduto, avvenne. Gli Svizzeri al servizio del Re di Napoli non vollero rassegnarsi a divenire estranei al proprio paese e insorsero.

La perdita dei reggimenti svizzeri fu la maggiore scossa all’edificio, che cominciava a screpolarsi e segnò il primo vero [p. 20 modifica]malanno per la dinastia. Invano si tentò ripararvi più tardi, quando Filangieri non c’era più, facendo venire soldati bavaresi ed austriaci, prima incorporandoli nei reggimenti indigeni e poi formandone un reggimento a parte, che fu il 13° cacciatori. Quei bavaresi ed austriaci, condotti dai vapori del Lloyd, sbarcavano a Molfetta e io li ricordo bene. Erano bei giovani, pieni di salute, i quali venivano a servire una causa, che non capivano e mormoravano a bassa voce: fife Caripalde.

Gli sdegni della Regina madre e del vecchio partito di Corte per le due sommosse, in quarantacinque giorni, furono, assai aspri. Filangieri era particolarmente preso di mira. Anche il Re ne restò impressionato. Non si ebbe più ritegno a parlare di tradimento, la fatale parola, che doveva accompagnare il breve regno di Francesco II, dal principio alla fine!


Nella famiglia reale e in tutta la Corte, dopo la morte di Ferdinando II, si cominciò a vivere più liberamente. Il conte di Trani, il conte di Caserta e persino il conte di Girgenti dicevano di voler fare, appena finito il lutto stretto, viaggi all’estero, dove non erano stati mai, e di voler abitare ville e quartieri indipendenti: tutte cose che non avrebbero neppur sognate, vivo il padre. Si facevano fotografare in divisa militare, o da cacciatori con relativi cani e carniere, non escluso don Pasqualino, conte di Bari, che aveva sette anni, e distribuivano largamente le loro fotografie. In esse il conte di Trani vestiva la divisa di ufficiale di marina, il conte di Caserta da ufficiale di artiglieria, il conte di Girgenti da ufficiale dei cacciatori, e il conte di Bari da soldato di linea, con l’immenso cappellone peloso e in posizione di presentare le armi. Bei giovanotti, vigorosi e pieni di vita. Il conte di Girgenti aveva piglio più furbo e somigliava tutto suo padre. Del resto i figliuoli di Ferdinando II, comprese le femmine, avevano marcato tipo borbonico, tranne il conte di Trani che somigliava sua madre. Col fratello, divenuto Re, non si mostravano diversi di quel che si erano sempre mostrati con lui, cioè familiarissimi. Francesco non era per essi il Sovrano, ma Lasa. Gli davano del tu, come per lo innanzi e non sempre temperavano il tono di familiarità, piuttosto volgaruccio, al quale erano abituati, del che il Re s’avea un po’ a male. Questi poi in privato li chiamava per nome, ma in [p. 21 modifica]presenza di estranei non li indicava che per titolo. E così diceva; mio fratello Trani, mio fratello Caserta, e ai piccoli dava il don, come facevano tutti in Corte. Il dolore non si leggeva sul volto dei figliuoli e dei fratelli del morto Re. Il conte di Siracusa era andato ad abitare a Capodimonte; secondo alcuni per stare più vicino al nipote e, secondo altri, per intrighi amorosi o per far dispetto alla Regina madre, che lo detestava. Gli astri, che avevano più brillato intorno al magno pianeta sparito dall’orizzonte il 22 maggio, cominciavano ad oscurarsi. Unica, veramente inconsolabile, era l’ex regina Maria Teresa, la quale sentiva di aver tutto perduto. Esercitando un vero dominio sull’animo del marito, essa regnava e governava, pur non avendone l’apparenza, e ben si può dire che non si movesse foglia in Corte senza che ella lo volesse, nessuna volontà essendovi superiore alla sua. L’indole di Maria Teresa aveva qualche cosa di enimmatico, parendo che in lei non prevalessero che la gelosia e la parsimonia. Era gelosa del marito sino alla puerilità; gelosa dell’affetto che il marito aveva per i figli; gelosa delle sue dame e delle sue cameriste, tanto che di cameriste fini per non averne nessuna. Una delle ultime fu donna Emilia Paisler. Un giorno di estate, donna Emilia, dovendo uscire, indossò un vestito nuovo e mise un cappello di paglia, molto grazioso. Il Re, trovandosi a passare, si fermò a guardarla e le disse con familiarità napoletana che quella paglia le stava proprio bene. L’udì la Regina e non aprì bocca; ma da quel momento non chiamò più, ne volle più avere accanto a se la Paisler. Le cameriste e le donne di camera evitavano il Re, per non incorrere nello sdegno della Regina.

Alcuni anni prima aveva fatto di peggio. Una delle cameriste di Maria Cristina, donna Guglielmina de Palma, era divenuta camerista di Maria Teresa, la quale si era affezionata a lei, donnina di molto tatto e di fine intelligenza. Le cameriste non erano donne di camera, ma dame intime di compagnia e dovevano essere signorine o vedove, e appartenere a famiglie borghesi, ma di buon casato. Le vedove si chiamavano, con nome spagnolo, azafatte. La De Palma fu chiesta in moglie nel 1843 da Francesco König, controllore di casa reale e figliuolo del fido corriere di gabinetto di Maria Carolina. Ella ne diè rispettosamente partecipazione alla Regina, e questa ne fu cosi [p. 22 modifica]indispettita, che non osando opporvisi, nè in altro modo sfogare il suo dispetto, investi la signorina De Palma e fortemente la graffiò o, come si dice a Napoli, la scippò tutta. Tre anni dopo la De Palma restò vedova con una figliuola e seguitò ad abitare in Corte, ma la Regina non la richiamò più. Solo il Re fa sempre cortese con lei, anzi da monsignor De Simone la fece interrogare se avesse voluto divenire azafatta della futura duchessa di Calabria, ma Maria Teresa non volle.2

Pur abituata alla vita di Corte, Maria Teresa aveva veramente abitudini parsimoniose e non da Regina. Si compiaceva mostrarsi sgarbata con le dame dell’aristocrazia. La signora Kònig-Scalera mi raccontava, che spesso alle nobili signore, le quali andavano a farle visita, la Regina lasciava fare anticamere di mezze giornate e poi le faceva licenziare dalla camerista, con queste parole: “Dite che le ringrazio, e che tornino domani„. Quante principesse, duchesse e marchese scendevano le scale della Reggia, fuori della grazia di Dio .... ma tornavano il dì seguente! La Regina le riceveva freddamente, scambiando il minor numero possibile di parole nel suo accento tra il dialettale napoletano e il tedesco, ch’era così duro e così brutto. A sentire, Maria Cristina, al contrario, fu piena di riguardi per tutti, per le sue cameriste e per le dame e voleva gran bene alla De Palma, nelle cui braccia morì, e che chiamava affettuosamente Guillaumine. Mentre Maria Cristina si era rassegnata a certe strane esigenze della Corte di Napoli, Maria Teresa non subì nulla che a lei non facesse comodo. La principessa di Bisignano, moglie del maggiordomo maggiore, avendo la chiave della camera della Regina, usava largamente del diritto di entrare senza farsi annunziare. Maria Cristina non vi si oppose mai; Maria Teresa le tolse la chiave.


Vestita con borghese semplicità, abborrente dagli spettacoli, dalle feste e da tutto ciò ch’era vita clamorosa di Corte, ella non aveva charme punto punto. Occhi chiari, fronte spaziosa, bocca larga, capelli senz’acconciatura, sguardo freddo, c’era qualche cosa di duro in tutta la piccola persona. Molte sere, sul punto [p. 23 modifica]di andare al teatro, diceva di non sentirsi bene, o addirittura di aver mutato pensiero, e al teatro non andava naturalmente neppure il Re. Quindi contrordini alle scuderie e controavvisi al teatro, dove, fin dalla mattina, si era disposto il servizio speciale per i Sovrani. Preferiva la vita di famiglia e la compagnia del marito a tutto. Non pronunziava l’erre, per cui chiamava suo marito Fevdinando; e il suo intercalare, udita una notizia, era: “la divò a Fevdinando„. Conosceva tutti gli alti funzionari e alcuni prediligeva, ed erano i più zelanti. Alle volte, quando il Re stando a Caserta o a Gaeta, si occupava degli affari di Stato con ministri o direttori, intendenti o vescovi, la Regina vi assisteva e spesso interloquiva; ed altre volte origliava da una stanza vicina. Nulla le sfuggiva, dai particolari più intimi di Corte, agli affari più gravi dello Stato. Era dai liberali detestata più del Re e suscitava in loro maggiori antipatie, che non ne suscitasse il marito. Essa aveva una volontà decisa ed era religiosa fino all’ostentazione. Udiva la messa tutte le mattine, assisteva alla benedizione tutte le sere, diceva il rosario col Re e coi figliuoli, si confessava non meno di una volta al mese e distribuiva parecchie elemosine. Non invano si ricorreva qualche volta a lei, ma non era agevole il ricorrervi.

S’immagini quali sentimenti si dovessero agitare in una donna così fatta, che non poteva sentir amore per il figliastro, divenuto Re e che lei seguitò a chiamare familiarmente Franceschino. Non sembrava umano che quella donna, per quanto religiosa, si rassegnasse a perdere tutto il suo potere e a vedere, al suo posto, una giovanetta di diciotto anni, la quale, da meno di quattro mesi, era venuta nel Regno, ignara di tutto, anche della lingua e con tendenze così opposte alle sue: una giovanetta, che lei aveva trattata dal primo momento, come un’educanda e della quale unica distrazione erano i suoi pappagalli, i suoi cani e i suoi cavalli, il passar molte ore del giorno nelle scuderie o al maneggio, ovvero il far lunghe passeggiate a cavallo, in costume di amazzone, nel bosco di Capodimonte, accompagnata da uno o due maggiordomi; una giovanetta che cambiava abiti più volte al giorno e si faceva fotografare a cavallo, in carrozza, in piedi, da Regina con la corona, o più spesso di profilo, ed anche in grande abito scollato e diamanti sulla testa, sola, o in compagnia del marito e dei cognati in grande uniforme. V’ha anche di più. [p. 24 modifica]Maria Teresa aveva voluto che accanto alla giovane duchessa di Calabria fosse posta una donna di sua fiducia, la quale venisse abituandola a quell’ambiente di Corte, in cui non doveva esistere che una volontà sola, quella della Regina. Aveva creduto di trovare questa donna nella Rizzo, marsigliese di origine e vedova con parecchi figliuoli di un credenziere di Corte, morto cadendo da una scala a chiocciola della Reggia di Napoli. La Rizzo era presso i quarant’anni: non bella, ma piacente e vivacissima e furba assai più che non convenisse. Maria Teresa, per non farla montare in superbia, non aveva voluto che fosse nominata azafatta, ma avesse l’ufficio più umile di donna di camera. Tutte queste cautele di Maria Teresa non dovevano però riuscire a nulla. Chi poteva immaginare una successione così fulminea? Francesco aveva sempre avuti per la matrigna i maggiori riguardi e la chiamava mammà e le ubbidiva in tutto, forse in cuor suo non amandola. Morto il padre, non so se intendesse quanto sarebbe stato minore il dolore della Regina, se egli, Francesco, non fosse esistito o non avesse preso moglie; ovvero, morto il padre, avesse abdicato a favore di suo fratello, il conte di Trani. Ma invece il giovane Re fu sempre correttissimo verso la matrigna, come apparve anche nell’esecuzione del testamento paterno, e spesso seguì i consigli di lei che non furono mai i più savii.

La giovane Regina, invece, cominciò a rivelar subito una volontà propria, quasi non le paresse vero di scuotere quella specie di compressione, in cui per opera della suocera era vissuta a Bari e a Caserta. Nessuna dimostrazione di vero affetto la Regina fece mai alla duchessa di Calabria in quei quattro mesi; nè era umano che nutrisse affetto per lei, futura Regina e tedesca, perchè altra caratteristica dell’indole di Maria Teresa fu quella di non mostrare affetto o premura per i suoi parenti di Austria, e la venuta di sua sorella Maria e del fratello Guglielmo, nell’occasione delle nozze, fu piuttosto cagione di noia che di compiacenza per lei.


Non è dunque a maravigliare, se, data una situazione come questa, venisse fuori la voce di una congiura da parte della Regina madre, per sbalzare dal trono Francesco e sostituirgli il figliuolo di lei, il conte di Trani. Persone intime di Corte negarono il concorso suo nella cospirazione, ma altri l’affermarono [p. 25 modifica]in maniera assoluta. A Foggia venne arrestato il celebre birro Merenda, e a Foggia si gridò pure: Viva Luigi I. Della cospirazione si parlava molto in Puglia e io lo ricordo bene, e si diceva che era il partito della Regina madre che cospirava, aiutato dalla camarilla, da monsignor Gallo, da qualche generale e da alcuni vescovi, tra i più fedeli alla memoria di Ferdinando II. Si citavano fra questi, monsignor Pedicini di Bari, monsignor Matarozzi di Bitonto, monsignor Longobardi di Andria, monsignor Apuzzo di Sorrento, monsignor lannuzzi di Lucera, col padre Paradiso, rettore di quel collegio dei gesuiti e con un monaco di San Giovanni di Dio, andato da Foggia a Lucera, e con monsignor d’Avanzo di Castellaneta. Si disse pure che il centro della cospirazione fosse la Puglia, dove i ricordi del viaggio e dei principi erano più vivi e i vescovi più devoti; e della Puglia si aggiunse essere stata scelta come punto principale la provincia di Foggia, soprattutto perchè nativo di Foggia era il padre Borrelli. Le apparenze della verosimiglianza erano anche troppe. Forse non tutte queste voci avevano fondamento, e forse qualche vescovo, di quelli che ho citati, vi era estraneo; ma certo è, che il ministero raccolse le prove della congiura non solo nelle Puglie, ma in altre provincie del Regno, e Filangieri presentò quelle prove al Re, il quale senza neppur posarvi gli occhi sopra, buttò le carte in un camino, dicendo al primo ministro: “È la moglie di mio padre„. Ed è vero anche che, venuta la cosa a notizia di Maria Teresa, questa se ne dolse col Re e disse, e ripetettero con lei i suoi partigiani, che quei documenti e quei gridi erano opera di pochi facinorosi nemici di lei, per metterla in mala vista col figliastro e crear divisioni nella famiglia. E vero infine che la Regina, la quale odiava Filangieri, incontratolo in quei giorni nella Reggia di Napoli, gli chiuse violentemente l’uscio sulla faccia. Caduto Filangieri, della cospirazione non si parlò più, anzi le relazioni apparenti tra Francesco II e Maria Teresa furono cordiali e divennero cordialissime, quasi affettuose, a Roma.

Una cospirazione per il conte di Trani, quando fosse riuscita, avrebbe rappresentato un ritorno a Ferdinando II, e ciò non pareva possibile, n conte non era simpatico; non aveva la bonarietà di Francesco, ne la festosità di Alfonso e di Gaetano: taciturno e impenetrabile, somigliava tutto sua madre. Quelli che han [p. 26 modifica]conservato affetto alla memoria di Maria Teresa, escludono qualunque cospirazione da parte di lei; assicurano ch’essa amava il figliastro, nè era capace di tradirlo e narrano che, quando Francesco II si ammalò di vaiuolo al Quirinale, durante la dimora in Roma, mentre, temendo il contagio, nessuno di famiglia lo avvicinava, Maria Teresa, per assisterlo, contrasse lo stesso morbo. Ma ciò non toglie che sia verissimo quanto ho narrato circa i fatti di Foggia, l’incidente tra il Re e Filangieri e tra Filangieri e Maria Teresa, essendovi prove inconfutabili, le quali furono anche avvalorate dalle istruzioni date da Cavour al conte di Salmour, che giunse a Napoli pochi giorni dopo: istruzioni che contenevano anche quella di ottenere dal Re, che la regina Maria Teresa fosse allontanata dalla capitale.


Finchè visse Ferdinando II, i legami della famiglia reale furono strettissimi: morto lui, tutto rallentò e rallentarono anche quei vincoli. Persino la Rizzo mutò contegno, il che irritava singolarmente Maria Teresa. Donna Nina largamente secondava Maria Sofia nei suoi gusti bizzarri, e soprattutto nello strano desiderio di rinnovare troppo spesso le sue gioie. Fu anche osservato e lo si affermò, non senza malizia che, divenuta Regina, Maria Sofia si mostrasse più affettuosa col Re. Avevano comune a Capodimonte quel ricco letto dove avevano dormito Francesco I e Isabella, e sul quale si vedono ancora le iniziali F. I. A Napoli, dove andarono dopo la sommossa degli Svizzeri, presero stanza nell’appartamento sulla darsena, al piano della splendida terrazza e dormivano anche insieme, come insieme uscivano quasi ogni giorno in vettura.

Qualcuno aveva notato che una vera intimità coniugale era cominciata fra i giovani sposi a Caserta, circa un mese dopo il ritorno da Bari, quando fu veduto il padre Borrelli avere lunghi e intimi colloquii con la Rizzo e poi col principe ereditario. La Rizzo aveva, come si è già detto, confidato al padre Borrelli che il matrimonio non fosse stato consumato, perchè Francesco si decideva di andare a letto, quando la moglie era stata già vinta dal sonno, e dal suo levarsi di buon’ora e con ogni cura, per non svegliarla. Il Re era pieno bensì di deferenza con Marie, regalandole bomhons e fiori, ma aveva un’invincibile timidità di accostarsi a lei, e al più si limitava a baciarle e ribaciarle la fronte o la mano. [p. 27 modifica]Questi imbarazzi e questi timori furono vinti dal padre Borrelli, ed è ben verosimile, perchè l’ascendente che questi aveva su Francesco II, era immenso, nè lo stesso Borrelli, uomo incapace di mentire, dubitò di confessarlo in Roma a persona di sua fiducia. Certo il contegno di Maria Sofia verso Francesco apparve mutato sul finire di aprile; divenuta Regina, fu più affettuosa, più espansiva e gaia addirittura. Le prime tristezze non tornarono più, ma cominciarono le prime innocenti stravaganze. Per esempio, stando a tavola, ella diceva talvolta al Re: “Francois, est-ce que tu permettes que vienne Lyonne?„ E lui, che non sapeva negarle nulla, e le voleva bene e gliene volle finchè visse, rispondeva: “Oui, ma chère„; e allora ella ordinava che venisse Lyonne, che era una magnifica cagna di Terranova, seguita da tre o quattro cagnolini i quali si cacciavano nelle gambe dei commensali, con poco gusto di questi; abitudine, che Maria Sofia serbò anche a Roma e a Parigi, e che formava una delle sue favorite distrazioni. Stando a Napoli, non adoperò mai quell’ascensore a mano, chiamato ’a macchina, che Ferdinando II aveva fatto costruire. Dei tre fratelli poi del defunto Re, nessuno aveva autorità sul nipote, che, dal canto suo, diffidava di loro, soprattutto dello zio Luigi, il quale andava di rado a vederlo, come di rado vi andava il conte di Siracusa. Solo il conte di Trapani, don Franceschino, più noto sotto il nome di don Cicco Paolo (si chiamava Francesco di Paola), che abitava nel palazzo reale, mostravasi affettuoso e premuroso con Francesco, e questi con lui. Egli era il più giovane dei fratelli di Ferdinando II, e il più ricercato nel vestire. Aveva anche lui la passione di farsi fotografare da cacciatore o da ufficiale di marina, e null’altro di particolare. Considerata nel suo insieme, la famiglia reale presentava l’immagine di una famiglia senza capo e senza guida, dove ciascuno tirava a fare quel che voleva, e dove l’autorità del nuovo Re era più formale che reale.

Bisogna cercare, veramente, in questa situazione di famiglia le vere e intime cause dei dubbii, delle perplessità, delle paure e delle contraddizioni, che distinsero il breve regno di Francesco II nelle sue varie fasi, cioè nei quattro mesi che governò Filangieri, nell’interregno di Carrascosa, nella nomina del principe di Cassare e infine nell’Atto Sovrano del 26 giugno: quindici mesi addirittura straordinarii per errori, debolezze e [p. 28 modifica]perplessità, da una parte; egoismi e viltà, dall’altra. Ma io non scrivo la storia politica di quel tempo, e solo ne raccolgo alcune memorie intime, cercando di star lontano dalla politica il più che posso, sebbene il breve regno di Francesco II sia stato politico, dal principio alla fine. Solo Filangieri ebbe l’intuito della situazione, ma egli non era libero, come non libero era il Sovrano; non concordi i suoi consiglieri intimi, non tutti sinceri, nè i sinceri erano i più illuminati. Francesco inclinava a governare come suo padre, ma capiva che i tempi non erano gli stessi, e si lasciava guidare, un po’ dai ministri, i quali andarono in quindici mesi da Ferdinando Troja a Liborio Romano, e più, da un piccolo gruppo di Corte, che il generale Filangieri chiamava per celia gli strateghi, e che erano Latour, Nunziante, Del Re, Sangro e Ferrari; e poi, a intervalli, dalla matrigna, dal confessore e dal padre Borrelli, i quali ne paralizzavano la debole volontà, alimentando sospetti contro questi e contro quelli, e rendendo più invincibili le naturali perplessità sue. Il più sincero era di certo il padre Borrelli, e il più intelligente l’ammiraglio Del Re, che aveva faccia bonaria e distinta, e pareva un inglese quando vestiva la sua bella divisa. Essendo egli un uomo di studii, la sua influenza sul Re, al quale restò fedelissimo, fu molto limitata e non mai funesta. Al giovane Re non difettava un certo acume, ma il suo spirito era fatalistico e timido; e questa timidezza o fatalismo, uniti a un senso di misticismo trasfusogli nel sangue dalla madre e degenerato in napoletana bigotteria, che si manifestava nella paura puerile di peccare e in una certa noncuranza per le vanità del mondo, spiegano la sua sincera e quasi non umana rassegnazione alla perdita del trono, e l’indulgenza verso tutti coloro che lo avevano abbandonato o mal servito.


Riferirò un aneddoto. In uno dei primi giorni del suo regno, si trovò in conferenza col De Liguoro, direttore del ministero delle finanze, il quale gli faceva alcune proposte. Erano seduti entrambi innanzi ad una tavola, la quale, ad un tratto, cominciò a vacillare. Il De Liguoro girava gli occhi intorno, per vedere donde venisse il movimento. Accortosene il Re, gli disse: “Bada che sono io che mi agito e fo’ agitare la tavola: questo è cattivo segno, perchè vuol dire che avrò poca vita„. E rispondendogli il De Liguoro che tali pensieri dovevano essere allontanati, perchè [p. 29 modifica]la vita dei Sovrani appartiene ai popoli che governano, Francesco rispose: “Caro signore; io non tengo nè alla vita nè al regno, perchè io penso a ciò che sta scritto: dominus dedit, dominus ahstulit, e dico: Dio dà, Dio toglie„ . Alcune volte, portandosi le mani alla testa, fu udito esclamare, come Luigi l’infingardo: “Dio, Dio! Com’è pesante questa corona!„ e altre volte: “Come sono noiosi questi onori!„. Egli veramente non trovava conforto che in discorsi ascetici, e spesso parlava di sua madre e si chiudeva nella camera dove la pia donna morì, per pregare innanzi alla immagine di lei. Quella camera era rimasta tal quale, per volontà di Ferdinando II, il quale ne aveva data la chiave al figlio. Francesco, benchè giovanissimo, quasi non aveva bisogni fisici; poteva stare una giornata intera senza prender cibo; mangiava consuetamente poco, quasi senza gusto; non amava la caccia, come i suoi fratelli, nè di andare a cavallo, come sua moglie, ma non gli era possibile non sentir la messa ogni giorno, non confessarsi una volta al mese, non recitare il rosario tutte le sere e non conversare sopra argomenti sacri col padre Borrelli, con monsignor Gallo, con monsignor Salzano e con quanti ecclesiastici frequentavano la Corte. Amava sua moglie, ma si è visto come si conducesse con lei. Se scriverò le memorie della Corte di Napoli a Roma, il carattere di Francesco II, sotto questo rapporto, ne uscirà più completo. Ho messo insieme aneddoti e confessioni, e una serie di biglietti amorosi del Re ad una bella signora, che assai amò, ma platonicamente: un platonismo, che per quanto non sembri verosimile, fu vero.

Quest’indole mistica e fatalistica e le tante ambizioni, volgarità e cupidigie che si agitavano intorno a lui, dovevano creare nella Corte un disquilibrio molto profondo, il quale rallentava i legami più stretti, quelli del sangue, e scompigliava i gerarchici, nel tempo stesso che, nel resto d’Italia, si maturavano i nuovi destini e i napoletani non prendevano sul serio il nuovo Re e ridevano delle sue ingenuità, stranamente esagerandole, quasi per riprender fiato dalla paura, che per tanti anni avevano avuta del padre di lui.





Note

  1. Mèmoires et souvenirs de ma vie, — Paris, 15 mars 1864.
  2. L’unica figliuola di donna Guglielmina König de Palma sposò il mio amico Erminio Scalera, e a lei, ch’è donna colta e intelligente, devo parecchio di queste notizie intime della Corte.