La giovinezza e studi hegeliani/La giovinezza/VII. L'abate Garzia

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La giovinezza - VII. L'abate Garzia

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VII

L’ABATE GARZIA

L’anno appresso si disputò in famiglia, a quale scuola di Dritto dovevamo andare. La scuola più riputata era quella di don Niccola Gigli. Ma c’era troppa folla di giovani, e zio preferì mandarci a studiare presso un vecchio frate secolarizzato, e suo conoscente, un tal Garzia. La scuola era in via Porta Medina in una stanza piccola e sudicia, ed eravamo appena una ventina. Il frate aveva in capo un grosso berretto di pelo, e abito e camicia erano sporchi di tabacco; era tutto macchiato e sordido. Straniero a ogni movimento d’idee moderno, stava li come un avanzo dimenticato della Scolastica. Il suo scrittore più recente era Volfio, che aveva disciplinato Leibnizio, diceva lui: ciò ch’io non volevo sentire. Uomo alla mano e sciolto d’ogni forma convenzionale [p. 29 modifica], ci trattava come suoi piccoli amici. Aveva la faccia rubiconda, sulla quale, come su certe botteghe, si poteva leggere: «Buon vino e buon cuore». Gli piaceva anche il rosolio; e zio a Natale e a Pasqua gliene mandava, con lo zucchero e il caffè. Li mi mancava un teatro ove potessi brillare. Non c’era cattedra. Egli stava seduto in mezzo a noi; le sue lezioni erano conversazioni, spesso interrotte da grossi pugni sulla tavola o da grosse prese di tabacco. Non c’erano conferenze, cioè a dire discorsi lunghetti e seguiti, dove si distinguesse l’ingegno. C’era li una serie di domande e di risposte, alle quali prendevano parte tutti, e i più pronti toglievano la parola agli altri, e ne veniva un vocio ingrato. In quella presa di assalto della parola mi sentivo soverchiato, e stavo li stizzoso, perché sentivo che avrei risposto meglio di quello sfacciato che mi troncava la parola in bocca. Talora, quando nel mondo mi vedevo soverchiare da certi presuntuosi ignoranti, pensavo alle conferenze dell’abate Garzia. Costui non prendeva troppo sul serio il suo ufficio, e chi non voleva studiare, non perciò si guastava la bile, e faceva un’alzatina di spalle come volesse dire: — Tanto peggio per te — .

Io continuava i miei studi filosofici, che mi piacevano assai, e poco teneva dietro a quella congerie di regole e di fatti, di cui il maestro non diceva le ragioni. Non fu possibile mettermi in capo la Procedura. Lessi molto il Digesto, come una bella collezione di massime e di sentenze, e ne presi occasione a rinvigorire il mio latino. Dove cominciai a vedere un po’ di luce, fu nello studio del Codice civile. Lessi con infinita curiosità i motivi che l’inspirarono; e quando parlava Napoleone mi appariva in una grandezza buia, che mi faceva terrore. Lessi molti commentatori francesi allora in fama, come Toullier, Delvincourt, Duranton.

Come suole avvenire, si strinse una certa amicizia con alcuni compagni più simpatici, e si disputava molto di filosofia e di dritto civile. C’era tra gli altri un tal Fortunato, che aveva una grande riputazione nella compagnia, e faceva da sopracciò. A me era antipatico con quella sua aria di superioritá; e lui che se n’era avvisto, mi punzecchiava e mi provocava. Una sera si [p. 30 modifica]vantava gran repubblicano; e io per fargli dispetto mi vantai gran realista. Grandi argomentazioni dall’una parte e dall’altra, non poté ridurmi al silenzio. Allora in aria di sfida disse che la disputa si facesse in iscritto. Accettai. Scrissi uno zibaldone; ma i compagni ai quali era affidato il giudizio, non vollero sentenziare e lasciarono dubbia la vittoria. Un’altra sera si accese la disputa intorno all’immortalità dell’anima. Egli la negava; io l’affermava, e mi scaldava e alzava la voce, e lui così contraddetto mi scaricò un pugno sulla spalla, e io lo guardai fiso, e gli dissi con l’aria di un antico: — Batti, ma ascolta — . Si venne allo scrivere. Egli aveva maggior libertà di spirito, e gittava per terra tutte le credenze, e diceva la sua con un fare incisivo che ti chiudeva la bocca. Ora che ci penso, doveva avere un gran talento colui; ma non l’ho seguito nella vita, e non ricordo il suo cognome. Egli gittando lo sguardo nella filosofia corrente, trovava inconciliabile il sensismo coi principii religiosi, e ripeteva spesso:— Chi ha veduto l’anima nell’altro mondo? — E io pensava a don Domenico Cicirelli. In verità, quella conciliazione pareva anche a me forzata; ed era chiaro che già si avvicinava il tempo in cui il sensismo male accordato col movimento religioso del secolo dovea cedere il passo a nuova filosofia. Questo vagamente mi si girava pel capo, e vedendo citare al mio avversario David Hume, e Smith, e la scuola scozzese, e un pochino anche Kant, vedevo fra le tenebre lampi, e venivo in dubbio di me stesso. Pure, aguzzato l’ingegno dall’amor proprio, scrissi una dissertazione che parve meravigliosa per sottigliezza di argomenti, e per copia di citazioni, frutto della mia immensa lettura. Il mio stesso avversario, che aveva leggicchiato gli autori più moderni, rimase sbalordito a sentirmi citare Bayle, Leibnizio e cotali altri, di cui appena egli conosceva i nomi. Terminavo la mia lettura con l’aria gioiosa del trionfatore, visto che i miei compagni stavano li li per battere le mani; quando il mio avversario, vista la parata, prese il davanti, e mi disse: — Ma bravo! Si vede che avete molto letto; fo i miei complimenti — . Questo disse con un tal piglio freddo di maestro che mi facesse un incoraggiamento. Questo [p. 31 modifica]sussieguo mi spiacque, mancarono gli applausi, rimasi freddo e mi tenni mal vendicato del pugno avuto.

Si annunziava al mio spirito un nuovo orizzonte filosofico; mi bollivano in capo nuovi libri e nuovi studi. Si apparecchiavano i tempi di Pasquale Galluppi e dell’abate Ottavio Colecchi, dei quali l’uno volgarizzava David Hume e Adamo Smith, e l’altro ch’era per giunta un gran matematico, volgarizzava Emanuele Kant. Lorenzo Fazzini era caduto di moda, tanto che per svecchiarsi aveva aggiunto al suo corso certe lezioni di economia politica, date dal suo piccolo fratello Antonio, giovane di grandi speranze, morto indi a poco, che primo fece conoscere a Napoli il Trattato del Rossi. Cominciò una reazione contro il sensismo, come fautore di empietà. Io vedevo a terra tutti miei idoli, e non ne avevo pietà, trascinato dalla nuova corrente. Il Re stesso fatto accorto del pericolo, toglieva il suo favore all’abate Capocasale, a monsignor Colangelo e ad altri sensisti in veste teologica, e credeva il buon uomo che Kant e Smith fossero roba meno infetta.

C’era nel mio cervello un turbinio, quando un giorno m’incontrai con Francesco Costabile, uno dei miei vecchi compagni della scuola del Fazzini. — Dove vai? — dissi. — Vado dal marchese Puoti — . Cosi per la prima volta intesi parlare di un uomo, che doveva avere una grande influenza sul mio avvenire.