Vai al contenuto

La leggenda di Tristano/CCXXXIII

Da Wikisource.

CCXXXIII ../CCXXXII ../CCXXXIV IncludiIntestazione 29 ottobre 2021 75% Da definire

CCXXXII CCXXXIV

[p. 284 modifica]


CCXXXIII. — Allo dimane, quando fu giorno, e T. vede che lo giorno è chiaro, elli si sforza allora di parlare, tanto quanto elli puote. Elli disse sí alto che tutti quelli che lá entro era lo ’ntesero bene: «Omè!» disse elli «che posso io fare? Questo è lo mio diretano giorno; in questo giorno mi conviene morire. Mai altro giorno non credo vedere, in questo giorno [p. 285 modifica] será la mia fine al tutto. T. che tanto potte e tanto valse, a siri Idio, perché sofferite voi asi tosto finire sua vita?». Quando ha dette queste parole, lo duolo incominci[a] sí forte lá dentro e sí meraviglioso, ch’elli non potieno maggiore. Elii medesimo piange molto fortemente, come quelli che ha grande pietá di se medesimo, ché bene [conosce] che a fine è venuto. Da capo parla T. a Sagramor: «Bello amico» disse elli «s’elli vi piace, porgetemi la mia spada e lo mio scudo, ché io lo voglio vedere, anzi che l’anima si parta dal corpo». E poi disse: «A lasso, che potrò dire?». Sagramor, che tanto è dolente, che quasi lo cuore no li crepa, e portò lo scudo e la spada. Elli disse a Sagramor: «Bello mio dolce amico, traete la spada fuore del fodero e sí la vedrò piú chiaramente». Elli lo fa, poi che lo comanda. Quando T. vide la sua spada, che tanto era buona ch’elli non crede che al mondo n’abbia una migliore, elli sospira di profondo di cuore, e poi disse tutto piangendo: «A spada, che farete voi? oramai a questo punto vi dipartite da me. Certo sí buono [signore] no lo arai mai, unquamai non serai tanto dottata, come voi sete stata infino a qui. Voi perdete oggi vostro onore». E allora incomincia a piangere molto forte; poi si tace una grande pezza. Lo duolo è sí grande lá entro, che l’uomo non averebbe udito tonare. A tanto parla T. altra volta a Sagramor: «Bello amico, oramai acomando a Dio tutta cavallaria, la quale io ho molto amata e inalzata e inorai tanto quanto piú potei. Ma oramai non fi’ piú per me onorata». E allora si tace. E ricomincia da capo: «Sagramor, bello mio dolce amico, dire mi conviene, io non posso piú celare questo fatto. Volete voi udire meraviglia, pur la maggiore senza fallo, la maggiore che voi unquamai udiste? Lasso, come io dirò io? Certo sí dirò» disse elli «forza me lo fa dire e io non posso piú andare inanzi. Sagramor,» disse elli «io dirò la piú ontosa parola che T. dicesse unqua, ma pur conviene che io la dica ora indiritto. Ai lasso, come m’uscirá di bocca?». Allora sí tace altra volta, e poi disse: «Sagramor, io no lo posso piú celare, io sono unito, unquamai non dissi sí villana parola né non m’uscí di [p. 286 modifica] bocca». E quando elli ha dette queste parole, elli incomincia a piangere assai forte, piú ch’elli non fece mai per altra volta. E quando elli hae sí sforzatamente pianto una grande pezza, elli riguarda Sagramor tutto piangendo e disse: «Io sono vinto, io vi posso bene rendere le mie arme e io ve le rendo. E che vi dirò io? Vi rendo mia cavallaria e tutti fatti e tutte prodezze e tutti aldimenti mi conviene oramai lassare, e io le lascio male mio grado, ché forza di morte me lo fa fare. Ai lasso io, che [grande dannaggio] riceverá oggi la Tavola ritonda dela morte d’uno solo cavaliere! Palamides, cavaliere cortese e valente, pieno di tutto bene, qui rimane tutto nostro innodio: giamai sopra di T. non fererai, né T. sopra di te. Lo nostro strifo è rimaso. Palamides, bello e dolce amico, sopra di T. torna lo ricredimento. Giamai T. non vi vedrá né voi lui. Per diverso m’è fallito lo strifo, che solemo fare. La morte fa qui rimanere tutto lo grande strifo di noi due. Ai Dinadam, mio bello dolce amico, qui difalla la nostra compagnia. Ora sono piú fieramente gabbato che gabbare non mi solete. Voi non sarete alla mia morte, ma io so bene che voi ne farete grande pianto, e tristo e dolente ne sarete, quando voi uderete dire che io sia morto. Ai messer Lancilotto, come voi perdete in questo giorno buono e ardito compagnone e cavaliere, che voi molto amava! Oggi si parte nostra compagnia; la morte che non ha pietá di me, ci diparte a forza. A Sagramor, bello e dolce amico, quelli tre che io v’ho contati mi saluterete da mia parte, e a loro dite sicuramente che io morrò dolente e tristo, de ciò che sí tosto falla nostra compagnia. La spada che i’ ho tanto amata, perciò che io non posso lo mio corpo presentare ala Tavola ritonda, mi presentate voi quella, e pregherete li mie’ compagnoni che facciano onore ala mia spada, quando a me no lo possono fare. E cosí Dio m’aiuti, come di verace cuore io li amai e come io procacciai di tutto mio podere l’onore dela Tavola ritonda, in qualunque parte io fusse. Perciò doverebero bene onorare le mie arme, che io a loro le mando, perciò che io non posso loro me presentare; e perciò in luogo di me presento io loro [p. 287 modifica] mio scudo e mia spada, e loro dite che io sono tristo per amore di cavalleria, che io muoio sí tosto, piú che io non faccio per me medesimo». Quando elli ha dette queste parole, e elli incomincia suo pianto, e poi disse a Sagramor: «Traetevi presso di me, datemi quella spada» ed elli la li diede. E T. la trasse fuore e incomincia a basciare lo brando e lo pomo, e apresso bascia lo suo scudo. E poscia disse: «Ai lasso, come mi grava che io mi diparto da mie arme e che io lasso sí tosto cavallaria! Elli m’è aviso, se Dio mi salvi, che per lo corpo d’uno solo cavaliere non potrebbe venire al mondo maggiore dannaggio, ch’elli averá ora per me. Lasso! perché finisco io sí tosto?». Apresso bascia altra volta sua spada e suo scudo, e poi disse tutto piangendo: «Ugiumai v’acomando io a Dio; ché io non vi posso piú riguardare. Lo cuore mi crepa di dolore». E poi disse a Sagramor: «Ugiumai potete prendere le mie arme, lo vi dono mio cuore e mie arme e in luogo di me l’onorate, e se voi unqua T. amaste, sí l’amate. Quando voi sete a Camellot, fatele mettere in tale luogo che ciascheuno cavaliere le veggia, ché tale non mi vide mai in tempo di sua vita, che quando uderá di me parlare e elli riguarderá mie arme, che per me faranno molti riguardi e diranno: Pessima e mortale fue l’aventura del colpo, che lo re li donò. Lo mondo n’è abassato molto villanamente, e tutta cavallaria ne rimará disonorata. Or vi hoe detto ciò che dire vi voleva. A Dio siate voi acomandati».