La miseria di Napoli/Parte II - La ricchezza dei poveri/Capitolo I. Introduzione

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Parte II - La ricchezza dei poveri - Capitolo I. Introduzione

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CAPITOLO PRIMO.

Introduzione.


Come venivo visitando il popolo stesso nelle sue tane, mi fu dato di esaminare alcuni degl’Istituti di Napoli, ricchissimi e numerosi.

Leggendo il capitolo sulle Opere pie, nell’Italia Economica del 1873, fecemi profonda impressione la seguente statistica. Esistono in tutta la Penisola 20,123 di queste istituzioni. Il patrimonio di tutte insieme somma a lire 1,190,932,603, e la rendita complessiva a lire 84,585,240.

Il dottor Pietro Castiglioni, l’autore di quel capitolo, dimostrando l’origine e l’importanza della statistica, così a suon di trombetta, loda la legge del 1862 promulgata dal Parlamento dell’Italia unita.

Una legislazione nuova, inspirata ai principii della libertà, e forse precorritrice di tempi, in cui ne saranno più maturi i frutti, per quel lavorio progressivo di assimilazione che ne fa penetrare il succo vivificatore [p. 54 modifica]nel corpo sociale, fu introdotta in Italia con la Legge 3 agosto 1862 sull’amministrazione delle Opere pie, e col Regolamento per l’esecuzione della medesima, del 27 novembre 1862. Destinata ad effettuare il massimo snodamento, questa legislazione subentro d’un tratto, nelle diverse regioni italiane, a un sistema di tutela governativa, che vincolava le locali Amministrazioni, e qualche volta impacciava il conseguimento dello scopo delle pie istituzioni; mentre non aveva saputo impedire il dissesto finanziario e il decadimento di non poche di esse, anco tra le più importanti.

La legge del 1862, mirabilmente parca ed efficacemente succosa, abbraccia tutti gl’Istituti di carità e di beneficenza, e gli enti morali destinati al soccorso delle classi meno agiate, ancorchè vi sia immischiato uno scopo ecclesiastico, o il suo reggimento sia affidato a persone ecclesiastiche si regolari come secolari, obbligando queste a tenere l’amministrazione distinta, separati i redditi e il patrimonio.

Il legislatore esclude soltanto i Comitati di soccorso e le altre istituzioni mantenute per temporanee obbligazioni di privati, e la fondazione di amministrazioni, meramente private, a favore di una o più famiglie determinate o specificatamente indicate dal fondatore; perocchè le prime stanno sotto l’egida del diritto costituzionale di associazione, le altre sotto quella del diritto individuale e domestico.

Rispetta le tavole di fondazione, gli speciali regolamenti e le antiche consuetudini circa lo scopo e l’amministrazione delle singole Opere pie; ma, cessando tale amministrazione statutaria o regolamentare, vi [p. 55 modifica]provvede col Decreto reale, udito il voto della Deputazione provinciale. E quando venisse a mancar il fine di un’Opera pia, o al suo fine più non corrispondessero gli statuti, o l’amministrazione e la direzione di essa, stabilisce che il fine possa mutarsi, e gli statuti e le amministrazioni o direzioni riformarsi, discostandosi il meno possibile dalle intenzioni dei fondatori, e la sciandone la iniziativa e proposta ai Consigli comunali o provinciali, sulla quale decide il Decreto reale, previo l’avviso della Deputazione provinciale e il voto favorevole del Consiglio di Stato.

Aveva io dunque ragione di credere che in sedici anni lo spirito di questa legge tanto lodata avrebbe informato il corpo delle opere pie.

Nel libro intitolato: Studio di Sociologia, che contiene i più profondi pensieri della mente inglese intorno alla questione sociale, Herbert Spencer dimostra le numerose e straordinarie difficoltà che circondano questo studio. In primo luogo la storia ci fornisce pochi dati. — per lo più una serie di biografie, una narrazione di battaglie; poco o nulla vi s’insegna, se non incidentalmente, della graduale trasformazione della società, che ha prodotto un Aristotile o uno Shakespeare, un Alessandro o un Napoleone.

La scienza sociale presenta una selva di difficoltà, che egli divide in subbiettive e in obbiettive; e fra le obbiettive ne addita una principalissima, quella derivata dalla distribuzione dei fatti nel tempo. — Leggesi un paragrafo su quest’argomento così adatto alla materia, di cui si discorre, intorno alle riforme amministrative, alle quali mirano oggi il Governo [p. 56 modifica]riparatore e i Municipii liberali, che crediamo fare cosa utile riproducendolo:

«Coloro, i quali considerano la società o creata da forze sovrannaturali, — o creata da un atto di Parlamento; — che per conseguenza considerano le fasi successive della sua esistenza indipendenti le une dalle altre, continueranno a dedurre conseguenze politiche da fatti transitorii, senza tener nota della pigra genesi del fenomeno sociale; — ma quanti si persuasero che la struttura, le funzioni, il crescere delle società sono tante evoluzioni, staranno lungo tempo a contemplare il continuo e lento sviluppo, attraverso al quale cause remote producono tardi risultati.

»È difficile di apprezzare al loro giusto valore i fatti successivi della vita di un individuo, — perchè non possiamo afferrare i processi graduali che hanno condotto agli ultimi effetti. — La madre debole, cedendo al figlio perverso, guadagna il beneficio immediato della pace, e non prevede il male di dissensioni croniche che questa debolezza produrrà nell’avvenire.

»E nella vita di una nazione, che, se di tipo elevato, continua per almeno cento generazioni individuate, la giusta valutazione torna ancora più difficile, essendo osteggiata dall’immensa durata delle azioni, per mezzo delle quali le antecedenti conducono alle conseguenti. Giudicando del bene e del male politico, il legislatore volgare pensa presso a poco come la madre intorno al figlio perverso. Se un dato modo di trattarlo produce un beneficio immediato, quel beneficio è ritenuto giustificazione sufficiente. Recentemente si è fatta un’inchiesta intorno ai risultati di [p. 57 modifica]un’amministrazione, che ha durato solo cinque anni, col tacito consenso che, se i risultati immediati venivano pro vati buoni, l’amministrazione sarebbe giustificata.1

»Eppure quelli che studiano i ricordi del passato, non per divorare le narrazioni di battaglie, nè per deliziarsi negli scandali delle Corti, ma per iscoprire come sono nate leggi e istituzioni, come si sono elaborate, quali effetti hanno prodotto, si convincono non sussistere verità più lampante di questa, che generazioni e generazioni si succedono e scompaiono, prima che si possano tracciare le conseguenze di un’azione.

»Prendiamo l’esempio fornito dalle nostre leggi sui poveri, Poor Laws. Quando il villeinage scomparve e i servi non furono più mantenuti dai loro padroni, quando i feudatarii nè comandavano nè curavano i vassalli, — si formò una classe di mendicanti, di robusti mascalzoni, la quale preferiva il rubare al lavorare, come dice lo Shakespeare, e nel tempo di Riccardo II diedesi autorità ai giudici e ai magistrati su questi turbatori della pace pubblica, ed essi obbligarono servi, lavoranti e mendicanti a star fermi nelle loro località rispettive, è gli abitanti di dette località furono resi responsabili pei mendicanti, che erano veramente inabili al lavoro, e così s’è riprodotta in forma generale l’idea feudale dell’uomo legato al suolo, — al suolo che deve dargli sussistenza. — Ora i fautori di quelle leggi [p. 58 modifica]e provvedimenti non sognarono punto di avere gettato le basi di un’immoralità, la quale minaccia rovina generale.

»E quando nei secoli successivi la mendicità cresceva e le pene non valevano a reprimerla, gli stessi provvedimenti, riconfermati con certe modificazioni, obbligarono gli abitanti di ogni parrocchia a mantenere i proprii poveri, promulgando leggi severissime contro il vagabondaggio, che si puniva con la morte senza il conforto della religione, nessuno mai prevedeva che gli elementi penali di questa legislazione sarebbero trascurati in modo da non impedire punto l’ozio, mentre gli altri elementi assumerebbero tali proporzioni da incoraggiarlo e premiarlo. Ne legislatori nè altri prevedevano che la tassa per i poveri accresciuta a 175 milioni diverrebbe preda pubblica.

»Gl’ignoranti la credettero un fondo inesauribile, che loro apparteneva. Per ottenerne una parte, l’ozio brutale minacciava gli amministratori; i viziosi presentavano i loro bastardi; i semplici infingardi incrociavano le braccia e l’aspettavano; ragazzi e ragazze stupide si maritavano calcolando di viverci sopra; ladri, contrabbandieri, meretrici, intimidivano ed estorcevano; i giudici la spandevano per rendersi popolari, i dispensatori per non essere seccati.

»I buoni furono vinti dai cattivi. L’operaio che pagava le tasse, dopo vana lotta stendeva la mano per essere soccorso. La ragazza modesta moriva di fame, mentre la sfacciata vicina riceveva di pieno diritto due franchi ogni settimana per ogni figlio illegittimo.

»Come conseguenza della legge di Elisabetta, [p. 59 modifica]nessuno immaginava che gli affittuali (fermiers), i quali nei Distretti rurali amministravano il fondo dei poveri, pagherebbero il salario ad una parte dei contadini che lavoravano i campi loro, prelevandolo da questo fondo, accrescendo così le tasse degli altri cittadini, e che queste relazioni anormali fra contadino e proprietario porterebbero seco la cattiva coltivazione della terra. Nessuno immaginava che per evitare le tasse dei poveri i possidenti cessassero di costruire case per i contadini,2 anzi demolissero quelle esistenti, provocando così l’agglomeramento della popolazione e i danni conseguenti fisici e morali.

»Nessuno immaginava che le così dette Case di lavoro diverrebbero case d’ozio, luoghi ove le coppie maritate si divertono a sfogare le loro affinità elettive.3

Eppure questi e assai altri danni che richiederebbero pagine ad essere enumerati, danni che arrivano al colmo con quello maggiore di tutti, di aiutare gli oziosi indegni a moltiplicarsi, a spese degli onesti e laboriosi,sono i risultati dei provvedimenti presi secoli fa per mitigare certi mali in modo immediato.»

Ora ci sembra che tutti coloro, i quali pensano seriamente ai problemi sociali, ammetteranno la giustizia di queste riflessioni e l’utilità della loro applicazione, [p. 60 modifica]e dacchè tutto il mondo è paese, ciò che è vero per l’Inghilterra è vero anche per Napoli; e volendo riformare efficacemente i mali sociali, bisogna studiarne l’origine nella storia, confrontare e correggere i fatti l’uno coll’altro.

L’azione delle leggi dei poveri in Inghilterra per incoraggiare l’ozio, il pauperismo, l’improvvida moltiplicazione della specie, corrisponde in Italia e in Napoli, — in primo grado in Napoli, — all’azione delle Opere pie. E qui e là ci sono poveri inabili al lavoro, e qui e là ci sono istituzioni e fondi per sopperire ai veri bisogni; ma i poveri rimangono senza soccorso, e i fondi sono consumati dagli oziosi, dai viziosi e dai loro manutengoli.

Noi non abbiamo una predilezione esagerata per la statistica speciale, per la statistica comparata, e per le conclusioni che se ne vogliono dedurre, oggi che la statistica è in gran moda, perchè troppo spesso, volendo provare una data serie di fatti, si prende una sola serie statistica senza modificarla con altre serie, le quali contribuirono a produrre quelle conseguenze, che si vogliono attribuire a una sola e data causa.

Ma vi ha certe statistiche così semplici, certe cifre così eloquenti, che bisogna almeno tenerne conto, proponendosi di conoscere le condizioni di un paese. Apriamo, per esempio, il capitolo delle opere pie, e troviamo che nei cinque compartimenti riuniti delle Provincie napoletane gli abitanti sommavano a 6,787,289, e il numero delle Opere pie era di 8418, con un patrimonio totale di 200,940,434 franchi.

Un patrimonio di dugento milioni, ben [p. 61 modifica]amministrato, deve in verità bastare a soccorrere gl’infermi e gl’inabili al lavoro, e ad allevare, educare, istruire le nuove generazioni a guadagnarsi la vita e a conservarla sana e robusta, in modo che nella giovinezza e nella virilità si possa mettere da parte quanto basta per sostenere con decoro la vecchiaia.

E veramente per toccare questo scopo si ha da ritornare alla tanto calunniata età pagana, all’epoca greco-romana, quando le opere di pubblica beneficenza, nelle Provincie napoletane, erano Collegi e Corporazioni d’arti e mestieri, che i frati e le monache convertirono in Congregazioni, Confraternite e Diaconie, trasformando allo stesso tempo i lavoranti in mendicanti, gl’indipendenti in dipendenti.

Restringendoci pertanto alla sola città di Napoli, troviamo 319 Opere pie, con una rendita annuale di lire 7,154,859.

Alcune delle quali meritano veramente la pena di essere visitate dai sotterranei al tetto; e in primo ordine sta il maestoso Albergo dei Poveri.

Ci sono istituzioni per tenere i fanciulli poveri d’ambo i sessi dai due ai sette anni, per dar loro gratuitamente l’educazione fisica ed intellettuale, per nutrirli durante il giorno, dovendo essi la sera rientrare nelle rispettive famiglie; per curare donne inferme a cagione di mali acuti; per educare fanciulle di natali civili e di scarsa fortuna, ed accogliere donne nubili e bisognose, di civil condizione, atte al servizio dello Spedale, della Casa di educazione e del Conservatorio; per ospitare, vestire ed alimentare vecchi maschi napolitani, poveri, ed inabili al lavoro, dell’età dai 50 ai 70 anni; per [p. 62 modifica]accogliere, educare ed istruire sino a 25 anni fanciulle e giovinette oneste e povere dell’età dai sette ai 15 anni, e avviarle ad un’arte o mestiere; per mantenere ulteriormente, donzelle, che essendo giunte al 25° anno non abbiano trovato collocamento, purchè orfane; per ricevere e curare gratuitamente i poveri della città di Napoli, ovvero che in essa si trovino, affetti da malattie acute e, permettendolo i mezzi, per dar ricetto anche a donne affette da malattie acute, ed allogare, in caso di malattie contagiose o epidemiche, gl’infermi colpiti da tali morbi nella Casa alla Pacella; per ammettervi gratuitamente i preti poveri ed infermi cronici, appartenenti al Clero di Napoli; per mantenere, educare ed istruire le fanciulle cieche e povere.

C’erano poi 11 istituti per ricoverare, nutrire ed educare donne pericolanti e donne traviate, pentite della mala vita; per accogliere, educare ed istruire donzelle napoletane, che abbiano perduto il fiore della verginità, e le orfane donzelle in pericolo di perderlo.

Veramente, dissi fra me e me, tutti questi vecchi cattolici, non bastando loro l’animo di obbedire alle dottrine di Gesù Cristo in vita, vollero fare ammenda col testamento, dando quello che non poterono portar seco nella tomba, ai poveri e infelici.

Senza qui sofisticare intorno a ogni dono o lascito, che formò nei tempi passati ciò che oggi si chiama il Patrimonio delle Opere pie, non si può contrastarci l’affermazione che quel patrimonio appartiene ai diseredati, che costituisce la ricchezza dei poveri. [p. 63 modifica]

La narrazione che diamo nei capitoli seguenti del modo, onde amministrasi questo patrimonio in Napoli, del come e a chi si distribuisce questa ricchezza, è veridica, benchè incompiuta. Veridica, perchè ogni fatto è stato riscontrato, ogni resoconto verificato coi nostri proprii occhi, e stampato sul giornale più divulgato di Napoli, e questi fatti e queste statistiche non patirono la più lieve smentita, nè tampoco soggiacquero a un solo contrasto.

È incompiuta, perchè delle 333 istituzioni ho potuto visitarne pochissime; ma tutte le persone, alle quali chiesi informazioni, e tutti i libri stampati sulle Opere pie, con parola concorde attestano che dissi meno del vero e che sussistono cose peggiori da vedere, e rivelazioni più gravi da fare, di quelle contenute in queste nostre pagine.



Note

  1. Qui l’Oratore si riferisce all’inchiesta intorno alla legge recentemente introdotta per regolare la prostituzione che egli crede non giustificata, quando anche fosse provveduto che la malattia ne viene diminuita, a causa dei mali morali che si legalizzano e accrescono e si trasmettono alle generazioni future.
  2. Le tasse locali per i poveri sono messe sui beni stabili, non mai sulla ricchezza mobile.
  3. L’Autore spiega la sua allusione al famoso libro del Goethe colla seguente nota: «In una Casa di lavoro, sopra trenta coppie maritate non c’era un sol uomo che vivesse colla propria moglie, e alcuni avevano cambiato compagna due o tre volte dopo la loro entrata. E questi e altri fatti analoghi egli cita dai libri di suo zio, presidente dell’Unione o Consorzio di «Bath.»