La rivoluzione di Napoli nel 1848/1. Uno sguardo retrospettivo

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1. Uno sguardo retrospettivo

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Introduzione 2. Il popolo della campagna

[p. 8 modifica]1. La nazione napolitana è incognita nella famiglia dei popoli di Europa. I viaggiatori rimuginano sino negli ultimi recessi dei poli, sino nell’ultima oasis del Sahara, ricercano le sorgenti dei fiumi, salgono i culmini delle montagne, e trascurano rivolgere uno sguardo ad una terra sulla quale vive un popolo poetico ed appassionato, e per la quale Iddio ha esaurita la sua opulenza di creazione. Chiusa dai mari che, al dire di Shakespeare, la cingono come un diamante in un cerchio di argento, attivata dal sole che ogni giorno la irriga di un lusso di luce, variata di piani e di monti, ricca delle fortune, dei prodotti, delle bellezze di tutte le zone, profumata e voluttuosa come un’odalisca, sempre giovane, sempre nuova, sempre vergine come una Flora, la natura le ha profusi i suoi tesori per compensare forse la missione di vittima che gli uomini o il destino le hanno imposto. Non vi ha zolla di quel paese che sia povera di una memoria: ogni pietra è un monumento della pristina civiltà. I suoi piani, le sue montagne sono contrassegnate da grandi o atroci fatti, assistettero alla ruina od alla nascita di nuove dominazioni, di nuovi popoli, e nuovo incivilimento. Le più speciose evoluzioni [p. 9 modifica]della storia si sono quivi rappresentate con la successione continua dei giorni. Laonde quando si crede camminare sur uno strato di pietre calcaree si cammina sulle ossa bianchite dei combattenti: dove oggi una squallida spiaggia comprime l’anima di malinconia, ieri sorgeva una città. Il passato si solleva d’innanzi ad ogni passo per ravvivare le forze dell’intelletto: il presente solletica lo sguardo con la spontaneità creatrice e malinconica di una natura non adulterata. Quella terra sembra slanciata dalla provvidenza in mezzo agli oceani compatta e finita come un pensiero. Aperta agli urti delle razze slave e meridionali, i suoi popoli avevano sulla catena degli Appennini, che la percorrono, un punto di congiungimento come i nervi sulla spina dorsale. Quivi le forze vitali della nazione si aggruppavano, si ritemperavano. Tutto ciò che avevasi attinto di straniero si evaporava nella mistione nazionale, ed in quel nucleo, spesso additato come covo di banditi, lo spirito della patria manifestavasi intero, il cuore palpitava di affetti non obliati. A quella gente non è mancato sovente che un Pelagio per riscattare un popolo nell’idea di Dio, creato per esser uno e fuso in una famiglia sola, ed a cui la violenza e la tristizia diedero tre fisonomie, anche oggi distinte quasi ed incomposte. Gli Abruzzi, le Puglie, le Calabrie sono sempre tre parole differenti benchè compongano una frase. Le razze e le dominazioni straniere si sono succedute su quel suolo, e non vi sono passate se non per togliergli qualche fibra d’individualità, e lasciargli molti vizi, molte miserie, ed un tesoro di odio per qualunquesiasi dominio e qualunquesiasi straniero. La Germania però, la Grecia e la Spagna hanno impresso un marchio più pronunziato su [p. 10 modifica]quei tre brani. L’opera loro si riconosce ancora; ma per quelle tracce informi e deboli quali potevano lasciarne conquistatori, che ci giungevano guidati dal prestigio del clima e dell’avidità, ci restavano estranei come padroni, e ne partivano scacciati da forza maggiore, sazi di sangue, carichi di oro. Il loro passaggio si riconosce ancora nelle sommità sociali, cui nell’attraversare lambivano e contaminavano; e se in qualche luogo attinsero persino la media borghesia, in niuno penetrarono mai sino al popolo. L’indigenato è restato salvo da ogni contatto: il popolo, sostrato eterno ed inalterabile, sorgente di vita, di nazionalità, di libertà, il popolo è rimasto popolo ed italiano sotto il cielo italiano.