La rivoluzione di Napoli nel 1848/2. Il popolo della campagna

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2. Il popolo della campagna

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[p. 10 modifica]2. Sul vertice dei monti, nel seno dei villaggi, nei focolari più poveri e più obliati della plebe si vive oggi una vita di anacronismo. Essa vi custodisce con religione costumi, affetti e pensieri di secoli oramai dimenticati, e che atterrirebbero questa superfetazione divorante che chiamasi governo, se si degnasse interrogarli e studiarli. Quivi non si trova l’uomo della età moderna, che, come dice Michelet, è parte della società; quivi è l’uomo dell’età antica, l’uomo intero. La sedicente civiltà dell’età monarchica della storia è passata al di sopra di queste teste. Al cuore è restata straniera, l’intelligenza non l’ha compresa. Quivi si agita quello istinto immortale di libertà e di progresso che spinge le generazioni: quivi palpita quella forza occulta che gli storici hanno chiamata provvidenza o fatalità, e che non è invero se non la memoria mezzo ottenebrata di uno stato anteriore, la tradizione di un passato grande e libero, che lentamente, ma con travaglio incessante, rimuove ed impelle lo spirito italiano e della intera [p. 11 modifica]democrazia dell’universo. La società ne sente il soffio e trascura investigarne l’asilo. — Il governo di Napoli credeva avere abbrutita la plebe con la pressione della miseria, con la religione della polizia: lusingavasi che l’ignoranza ne avesse spento ogni lume, represso ogni elatere. Ma la possibilità di ricuperare diritti, con una specie di mistero custoditi nel fondo del cuore e da generazione in generazione trasmessi, si offrì; la parola di Libertà rimbombò nell’orizzonte, ed il governo vide che ella surse repente, repente gittò il mantello di piombo, il quale a guisa dei dannati di Dante la soffocava, ed assunse le nuove forme con la facile spontaneità di chi ricomincia un’esistenza anteriore interrotta. Alla verginità del pensiero essa riunisce l’energia e la solennità di affetti non ancora violati e lordi. Una religione istintiva le si fa giorno sotto le squame della religione corrotta della Chiesa. Al di là del Cristo, che serve d’intermedio, e che per lei non ha alcuna espressione, non risveglia nel cuore altra corda tranne quella della pietà; al di là del Cristo vede Iddio simboleggiato nella grandezza imponente della creazione che la circonda, e forse, al di sopra anche di Dio, al di sopra di tutte le credenze, l’ispirazione la più poetica del cristianesimo, Maria. Nell’aspirazione verso il cielo il paesano ha sempre qualche cosa di primitivo e di calmo, una sensazione malinconica e voluttuosa. Come le intelligenze adulterate, egli non vede Iddio in una notte tempestosa sul mare, nell’uragano che atterrisce e percuote; egli lo riconosce nelle espansioni di una danza, in una raccolta ubertosa, in una nottata di amore. Egli sposa l’utilità della creazione con lo sfoggio armonioso della sua poesia. Le idee morali non sono per lui un [p. 12 modifica]vincolo sociale, ma un istinto. Dall’intimo dell’anima sua soffia mai sempre qualche cosa che lo guida, che lo solleva, che mette in contrasto perenne l’oltraggio sociale, che lo ha gittato per terra, con l’opera di Dio che in lui si offre luminosa, sia nella solennità della sua rassegnazione, sia nella sobrietà dei suoi bisogni, sia nella severità dei suoi affetti. Inchiodato alla terra da una provvidenza umana inesorabile, il paesano s’identifica in certo modo con la natura del suolo che abita, ed una reciprocità di emanazione si stabilisce tra loro: perciò preferisce la vita dei campi. La terra feconda, il cielo aperto, lo spazio, l’aria, la luce, la manifestazione infinita della natura libera lo attiva, lo assorbe; e si contenta della sofferenza per isfuggire lo strazio — la città. Per lui la città, prodotto sociale, è un’espiazione. Per lui la casa, necessità cittadina, è un dolore; è il testimonio eloquente dell’ingiustizia degli uomini e della forza del dominio, è una tomba in cui saggia tutte le privazioni, sente tutte le miserie, trova tutti i supplizi; e più che una tomba è una prigione, obbligato a subire tutti i giorni festivi. In effetti, che vi ha di più tristo e di più squallido della sua casa? la stessa luce, patrimonio universale, vi è proscritta: la stessa aria che pura e senza misura Iddio ha messa a disposizione delle creature, è un veleno: la pioggia ve lo inonda: il fumo ve lo soffoga: la lordura ve lo fa avvizzire: ve lo divorano gl’insetti. Inoltre egli abomina la città. Per lui la città è il creditore che lo rode, che succhia il suo sangue: è l’esattore delle imposte che profitta solo del sudore della sua fronte: è il birro che lo tormenta, il magistrato che lo condanna, il gendarme che lo imprigiona, il ricco che gli prostituisce [p. 13 modifica]la moglie e la figlia. La città è il prete che gli predica un culto incomprensibile, ed in nome di Dio gli glorifica la schiavitù; è il soldato che gli devasta il campo; in una parola, è il governo che sotto tutte le sue molteplici facce lo incatena e lo tortura. Nella città egli sente l’odio per chi lo perseguita, sente l’invidia delle ricchezze, il bisogno sotto tutte le sue pressioni; là comprende il lusso, là concepisce la voluttà. L’acqua della fontana, qualche pomo di terra bollito quando giunge ad averne, supremo benefizio che ritrae da una terra fecondata dal suo sudore, una crosta di pane nero che è il lusso delle sue vivande ed il medicamento delle sue malattie, due piote ricoperte di erba, il padiglione risplendente del cielo; ecco tutta la parte delle delizie della sua esistenza, che egli ritrova nella campagna. Pure vi si rassegna e la preferisce a quella più dolorosa che la società gli aveva assegnata, la fame, il freddo, il fango della strada e la lordura. La città gli fa male. Egli vi è stimolato dal bisogno di mangiare la carne, che pure non mangia se non una volta o due nell’anno, nelle grandi feste e il dì delle sue nozze. Là sente la voglia di bere il vino, che pure beve tanto raramente; e forse anche di ubbriacarsi e di attaccar brighe. Allora egli agogna un letto soffice e caldo, cui, se per avventura gli è dato premere una volta, abbandona repente come un supplizio, come qualche cosa che lo incatena e quasi gli dà l’incubo e gl’impedisce di dormire. In una parola, nella vita libera del campo egli è povero, infelice anzi, ma si è abituato a trovarsi di faccia a faccia con Dio, con le sue interne ispirazioni. Egli è là con un passato che gli parla nell’anima una voce misteriosa sì, ma [p. 14 modifica]potente e poetica, egli non arrossisce di nulla. Nella città tutte le sproporzioni sociali e le idee fittizie lo prendono alla gola, lo stupiscono. Perciò è impacciato e goffo; sembra non comprendere più nulla. La vita è per lui un orribile geroglifico. Il prete non gli parla più del suo Dio, o non lo riconosce in quel fantasima terribile ed esigente che gli si addita. I suoi fratelli di miseria gli sembrano lupi, vampiro inflessibile il governo che gli domanda il frutto del suo travaglio, la sua libertà, i suoi figli, la sua volontà, la sua anima tutta intera. Un abisso lo separa dal resto dei cittadini, e questo abisso è l’organizzazione sociale, è la fame.