La rivoluzione di Napoli nel 1848/15. Sommossa del Cilento - 27 gennaio

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15. Sommossa del Cilento - 27 gennaio

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[p. 51 modifica]15. All’arcana origine ed all’arcana idea della galoppata dei popolani si accoppiarono le novelle che Carducci aveva innalzata la bandiera tricolore nelle montagne del Cilento. Questo giovane eccellente, il cui orribile assassinio è stato tanto da noi deplorato, aveva poco ingegno, ma cuore smisurato. La difficoltà dei mezzi non entrava nei suoi calcoli: vedeva lo scopo e vi andava dritto attraverso tutto. Costabile Carducci fu il solo che osò sollevare il grido della rivoluzione nelle provincie del regno sul cominciare del 1848. Principiò [p. 52 modifica]nelle montagne del Cilento con una mano di quindici uomini scalzi e disarmati. Al primo segnale le turbe accorsero. Il grido di libertà non si fa udire giammai vanamente fra quella gente. Essa è brava, determinata, forte in faccia ai pericoli ed in faccia ai mali, la fame non esclusa. Pochi di quegli abitanti conoscono il sapore del pane di frumento, e quando vuolsi dire nel paese che qualcuno è in sul varco della morte, si dice: è giunto a mangiar pane di grano! Essi non fanno uso del vino che nelle grandi solennità, il Natale, la Pasqua, l’ultimo dì di carnovale. La loro sobrietà è estrema come la loro miseria; la rassegnazione senza esempio nella storia delle sventure umane. Vi ha di quelli che non conoscon nemmeno il valore delle monete. Taciturni, burberi, fieri, odiano per istinto qualunque potere. La loro obbedienza è una protesta: la loro sottomissione una sfida. Fattasi una guardia del corpo di questi Cimbri, il Carducci cominciò a percorrere il contado. Gli attestati della simpatia la più viva lo accoglievano da per tutto: i suoi voleri erano ordini. Il clero, obbligato dal popolo, gli andava incontro con la croce; il suono delle campane lo festeggiava. Egli riformava o creava una guardia nazionale: disarmava i tristi e gli avversi: dava le armi ai più ardimentosi ed ai liberali: aggiungeva alla sua coorte un altro branco di uomini, e progrediva. Gli agenti del governo allarmati dal procedere incessante che egli faceva, gli spiccarono contro incontanente un grosso corpo di soldati, artiglieria, cavalli e cacciatori. Ma non potendo nè l’artiglieria nè i cavalli manovrare nelle montagne, la fanteria in quanti scontri sostenne fu messa in dirotta completa. Queste novelle, propagate [p. 53 modifica]dovunque, giunsero a Napoli. Era quello il tempo per la seconda volta di dare addosso ai Borboni e disinfettarne il paese: ma il Comitato che nulla aveva preparato, determinò provare ancora una manifestazione. A tanta fiacca balordaggine, era inevitabile che il governo non avesse infine compreso, restargli ancora un residuo di forza, potere ancor far valere un sovvenire dell’antico prestigio. Ma la Provvidenza volle salvarci. Il Comitato aveva domandata una manifestazione pacifica: gli uomini più decisi si ammutinarono e risolsero che sarebbero venuti fuori armati per resistere e vender cara la vita, se il governo li avesse attaccati. Il Comitato contromandò l’ordine della manifestazione: ma il De Simone, che veniva a significarlo, giunse troppo tardi. La gioventù lo respinse indignata, e tenne fermo. Quanto si potesse ottenere, per rassicurare il terrore del Comitato, fu che non si sarebbero adoperati i fucili, i quali per vero erano in assai piccolo numero. — La mattina del 27 gennaio quindi, verso le dieci del mattino, preceduti da bandiera tricolore e la coccarda tricolore sul petto, al grido di viva Pio IX, viva l’Italia, e viva la Costituzione, la manifestazione procedè dalla piazza della Carità, mentre altri gruppi di giovani fregiati dello stesso nastro venivan giù dalla strada degli Studii. Quel grido di viva la Costituzione fu un grido magico. Le guardie di sicurezza, parodia di guardia nazionale, lasciarono libero il passo alla processione trionfante. I balconi si coprivano quasi per incanto di una folla infinita di donne e di uomini. Le donne sventolarono le pezzuole e replicarono il grido; gli uomini discesero sulla strada per ingrossare le turbe. L’entusiasmo, [p. 54 modifica]la gioia, la determinazione, la sicurezza brillava in tutti i volti. Tutti avevano creduto che la Costituzione fosse stata subita dal re, e fecero a gara uomini e donne per festeggiarla! Il re, spaventato dal corruccio di tutta una città che si risveglia e si leva, si credette spacciato all’intutto. Accolse i suoi figli intorno a sè, chiamò la moglie, i fratelli, il servidorame più fido e si accinse a morire forse, ma in mezzo alla rovina di tutti. Il generale Statella ebbe ordine di far spazzare le strade dall’artiglieria, percorrerle al galoppo dalla cavalleria, e mietere alla cieca, e nessuno risparmiare. Ma quale non fu lo stupore e lo sbalordimento del generale, mettendo il piede sulla piazza della Reggia? Aveva creduto affrontare un numero più o meno grande, un partito; e si trovava di rincontro a tutto un popolo. Non vi era altro scampo che innalzare sulla torre del Palazzo lo stendardo rosso e segnalare ai castelli di bombardare la città. L’artiglieria schierata già accostava il fuoco alle micce, ma le schiere dei giovani che procedevano non si ritrassero di un pollice. Replicò l’intimazione, e coloro ripeterono il grido: viva la Costituzione, accennando la coccarda tricolore che portavano sul petto onde additare dove dovessero puntar le mitraglie. A quella vista Statella impallidì, e smettendo ogni fierezza, credette opportuno non obbedire al comando del re: colla sua sciabola scostò il braccio di un artigliere che stava per dar fuoco e comandò alla cavalleria di abbassare le armi. Poi con parole dolci, con propositi e modi soavi, prese a carezzare la folla, e magnificando la bontà del re, calmava l’irritazione, udiva i voleri, e seguìto da alquanti dei suoi lentamente penetrava nel centro della moltitudine. Ne andò così [p. 55 modifica]dalla piazza della Reggia a quella della Carità, volgendo incessantemente gli sguardi ai balconi stivati di gente che continuava senza posa a sventolare i fazzoletti e gridare viva la Costituzione! Egli non fu avaro delle sguaiataggini officiali di moderazione, di ordine e di speranze. Promise inoltre che puntualmente avrebbe riferito al re i desiderii dei suoi fedeli sudditi: che avrebbe interposta la sua mediazione per renderli soddisfatti: che il re aveva animo inclinato a clemenza e bontà. Quelle scipitezze stereotipe non contentarono alcuno, molto più che avendogli il Trinchera presentata la coccarda tricolore, rifiutò decorarsene. Non pertanto si consentì ritirarsi ed aspettare per altri due giorni la provvidenza della borbonica munificenza. Statella, ritornato a palazzo, dipinse foscamente al re la situazione minacciosa del paese. Disse che la città intera era concorde in domandare uno Statuto; che se si adoperava la forza, l’esito era dubbio, sopra tutto perchè potevano essere schiacciati dalle ostilità che avrebbero incontrato dalle finestre: che le più accanite erano le donne: che la gioventù aveva a sangue freddo bravata la morte: che non era più tempo di resistere: che bisognava appigliarsi ad un partito, e che egli inclinava per la pace. Il re, maggiormente sconcertato dalle parole che il generale tuttavia sotto l’influenza dello sguardo e della pressione popolare, senza cortigianeria e con molta energia diceva, il re domandò respirare, riflettere un giorno ancora, consigliarsi; pari ad un condannato chiese grazia al messaggiere del popolo. La sera il consiglio di Stato si riunì. Il re udì tutti, pesò tutto, accolse tutti i pareri e tutti i propositi, ma senza palesare, anzi senza neppure far [p. 56 modifica]trapelare il suo voto, sciolse il consiglio. Indi si ritirò col marchese di Pietracatella, col cavaliere Fortunato e qualche altro suo fedel servitore, e cominciarono a deliberare. Qualche ora dopo un messo andava ad annunziare al marchese Delcarretto che era novellamente desiderato dal re.