La rivoluzione di Napoli nel 1848/7. Famiglia dei Borboni - Delcarretto

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7. Famiglia dei Borboni - Delcarretto

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[p. 24 modifica]7. I governi si trovano mai sempre di fronte quattro influenze, quella della religione, quella della guerra, [p. 25 modifica]quella della intelligenza, e quella delle finanze. La storia non è che la lotta di queste influenze centrifughe contro il potere di assorbimento che esercitano gli Stati. La monarchia di Napoli non ebbe differenti avversarii e neppur essa rinculò dal combattimento. Alla religione oppose il guadagno, il guadagno sotto la sua forma più cinica, l’oro, e vinse. Alla milizia profuse gli allettamenti, gli onori, le promesse, e la guadagnò. Sull’intelligenza si spinse furiosa con le galere ed i carnefici, la avviluppò di preti e di sbirri, cercò forviarla, adulterarla, e fece molti martiri, se non fece proseliti; ritrasse molti invalidi e qualche tregua, se non giunse mai ad ottenere vittoria. Alle finanze infine, alle fortune s’impose come una provvidenza, quasi una condizione necessaria perchè esse potessero esistere, se le fece complici, mostrò solidarietà d’interessi, le atterrì insomma per comparirne poi il salvatore. I mezzi di qualunque natura non furono risparmiati per guadagnar terreno: virtù o vizio non ebbero più significato per assicurare l’esito. — Ferdinando I, Sardanapalo plebeo, regnò con la mannaia e con lo spergiuro; Francesco I, il Claudio de’ tempi moderni, con l’inquisizione, con gli ergastoli, con la forca, ed alla vigilia di una morte contristata da truci fantasmi, protestò voler radiata dalla lingua umana la parola perdono; Ferdinando II, questo pulcinella sanguinario, regna con le bombe, con i gesuiti e con le proscrizioni. La missione comune di questa famiglia è stata dunque corrompere o uccidere: scopo supremo, contaminare lo spirito umano o sopprimerlo: mezzi per riuscire, il carnefice ed il prete, e qualche volta l’oro. — Disprezzati ed obliati nella famiglia europea, la storia [p. 26 modifica]loro è stata monotona, è stata una lunga esecuzione nel seno oscuro di un carcere, in cui i testimonii e il giudice erano di troppo. Il regno del figlio non ha cangiato da quello del padre: il domani non ha variato dalla vigilia: la formola intera si è rinchiusa tra una processione ed una sentenza di morte. — Noi quindi non abbiamo molti fatti da raccontare per trovare la radice della rivoluzione del 1848, e scoprire la sorgente di quella solenne protesta, onde leggere nei precedenti l’avvenire. Potremmo partire dal 1830, dal regno di Ferdinando II; ma questo stesso racconto è assai sterile, perchè si concentra nelle meschine dimensioni delle mura di una corte, è la storia di un uomo che non ha neppure i grandi vizii dei re. La vita di quest’uomo, avvelenata alla sorgente da un monsignor Olivieri suo precettore, la vita di quest’uomo si è compendiata in un furto sistematico del tesoro dello Stato, in una confessione quotidiana dei proprii peccati ad un prete, che lo vendeva ad un gendarme e lo volgeva in ridicolo. La vita di quest’uomo si è manifestata in una rivista perpetua di soldati, mostra brillante di forze, che poi si è coronata con la fuga dai campi romani: è scritta ne’ fasti della bigotteria, delle smargiasserie, dell’avarizia, sì che se avesse potuto espropriare il regno intero o farne un fagotto lo avrebbe venduto ai mercanti di Londra: limitato, plebeo in tutto, e fatuo. Sotto l’influenza della paura degli uomini, fomentata da un birro, e della paura delle idee novelle, destata in lui da un monsignore, tirato a rimorchio da entrambi, egli assunse la parte di sbarbicare ogni fecondità della mente, atterrire ogni ardito. Egli volle dare l’impulso alla [p. 27 modifica]società, sulla quale si elevava per la grazia di Dio e di Talleyrand, e ridurla al regime del convento e della caserma. Ma non è degli uomini dominare le idee, non è degli uomini arrestare le passioni mature. Malgrado tutto, malgrado gli assassinii di Aquila, del Cilento, di Calabria, di Sicilia; malgrado le messe di obbligo, le prediche, le suggestioni degl’institutori, le dogane messe alla intelligenza, lo spionaggio; malgrado infine tutti i prodotti di enervazione del genio malefico di Metternich e di Guizot, la generazione nuova accolse le idee di riordinamento sociale, e non seppe dominare lo slancio del proprio cuore. Un uomo di mediocre ingegno, ambizioso e temerario come Catilina, sanguinario come Silla, ateo, dissoluto, superbo, il marchese Francesco Saverio Delcarretto comprese la situazione e cercò dominarla. Tutti i mezzi che può adoperare un uomo senza principii e senza cuore, erano stati adoperati da lui. I martirii dell’inquisizione erano stati risuscitati; i soprusi feudali tornati a vita; la spia ed il confessore messi in opera; le leggi lacerate per dar luogo all’arbitrio; ogni specie di prostituzione decorata; il birro ed il gendarme fatto signore del paese; il dominio della polizia steso su tutte le regioni del governo; il trabocchetto, l’assassinio non risparmiato; tutto infine quanto il pervertimento della mente umana aveva saputo creare per sopprimere, scoraggiare, ed atterrire, era stato sperimentato da lui. Ma non lo scoraggiamento, non l’atterrimento fu quello che si raccolse, sibbene l’odio senza misericordia, e la perseveranza nel riconquistare i diritti usurpati dalla casa di Borbone. Questa messe terribile avrebbe forse spaventato qualunque altro uomo, ma Delcarretto accettò la [p. 28 modifica]sfida e cercò rivolgerla a suo profitto. Egli si era trovato sempre sulle trincee quando un Borbone aveva avuto bisogno di un essere a tempra spietata per percuotere senza viscere e consumare come l’incendio. Egli aveva comandato lo sgozzamento in massa del Cilento, ed aveva tirato l’aratro e seminato il sale su parecchie borgate: egli aveva ordinato il massacro di Palermo, le proscrizioni di Aquila, le fucilazioni di Cosenza. Dovunque vi era sangue a versare e terre a distruggere, Ferdinando lo investiva dei suoi istinti con un alter ego e lo mandava. La sua natura, composta di tutti gli eccessi, si esilarava nelle scene le più infami. Niente lo arrestava se non la soddisfazione; niente lo soddisfaceva se non l’abnormale e l’orribile. Egli aveva trovata la poesia nel delitto. Però alla necessità del sangue che metteva in orgasmo le sue fibre e destava per un istante una vita sciupata per diciotto anni in ogni maniera di dissolutezze, in ogni maniera di arbitrii, di libidini, di delitti, le specialità di Margherita di Borgogna non escluse, a tutta questa epilessia di enormità subentrò l’ambizione. Con i suoi eccessi aveva accelerata la rivolta, voleva compierla. Perciò non sentì egli l’ambizione che lo avea dominato fin allora, cioè quella del servo che si vuol rendere aggradevole al suo signore; non quella dell’uomo probo che vuol salvare il suo paese e colui che gli ha confidati i suoi destini; ma l’ambizione di un pretoriano che cerca finirla con un padrone stupido e vile; ma l’ambizione di un satrapo che anela soppiantare il suo signore; l’ambizione di un Cromwello senza genio e senza principii; l’ambizione di un Robespierre volgare, la velleità forse di una seconda edizione di [p. 29 modifica]Espartero. Delcarretto quindi seguì il movimento progressivo delle idee, assistette con l’arma al braccio alla propaganda, seppe tutto e lasciò fare. Voleva con ciò riabilitarsi? domandava accomodarsi un perdono per i delitti passati? no: voleva sorprendere; sorprendere il vigliacco tirannello che lo aveva adoperato fin allora e, sull’orlo del precipizio, o balzarlo giù o obbligarlo ad abdicare: sorprende il popolo, rivelandosi ad un tratto come il suo liberatore, rivestendo della toga di Cassio il corpo di un Tigellino, e farsi nominar primo console o dittatore. La sua ambizione era smisurata come la sua ferocia, come la sua stoltizia.