La testa della vipera/IX

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IX

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VII X

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IX.

Il fratello di Matilde, che era solito vedere ogni giorno il cugino, e passare con lui gran parte del suo tempo, si stupì quando vide passata una settimana senza ch’egli comparisse in casa Danzàno, nè si lasciasse trovare ai soliti convegni.

I genitori di Matilde, i quali avevano approvato quanto essa aveva detto ad Emilio, e Matilde medesima avevano pensato meglio di tacere quell’incidente a Cesare, cervellino un po’ leggiero e dominato dalla volontà più robusta di Lograve, onde, non sapendo a qual causa attribuire quella scomparsa del cugino, fuorchè a una malattìa, Cesare, otto giorni dopo, si recò al quartiere d’Emilio.

Trovò il giovane chiuso nella sua camera, [p. 73 modifica]terreo in faccia, collo sguardo spento, cupo, accasciato, rispondendo a mala pena e di cattiva grazia.

— Tu se’ stato ammalato, caro Emilio?

— No.

— Che cos’hai dunque? Perchè non ti lasci più vedere? Perchè sei così abbattuto? Ti è capitata qualche disgrazia? A me dovresti dirlo.

Emilio piantò negli occhî di Cesare uno sguardo penetrante per leggergli nell’anima.

— Non ho nulla: rispose bruscamente. Non mi è capitata nessuna disgrazia. Che cosa mi avrebbe ad essere capitato?

— Mah! disse ingenuamente il cugino: io non saprei; però mi pare che non per nulla tu dovresti avere quella ciera da mortorio.

Emilio si persuase che a Cesare non era stato detto nulla della scena avvenuta con Matilde.

— Ebbene, sì, sono malato: riprese, malato di nervi. Ho una melanconìa che mi consuma; lo spleen degli inglesi che mi fa dare al diavolo.

— Eh! bisogna mandar lui al diavolo; bisogna cacciarlo ad ogni costo. Scuotiti, esci, vedi della gente, cerca svaghi.

Emilio crollò le spalle.

— Gli è trovarne degli svaghi che mi par difficile... Nulla mi diverte.

— Eh via! Tu parli come un uomo esaurito, di cinquant’anni... Vieni stasera in casa X... e vedrai che ne sarai contento. C’è una raccolta sempre più ricca di belle signorine e di stupende [p. 74 modifica]signore, un’allegrìa di buon gusto, l’insuperabile gentilezza dei padroni di casa, del thè, dei vini, dei pasticcini e dei sandwiches squisiti. Se tu ci fossi venuto queste sere addietro, non saresti cascato in sì brutta melanconìa: ci siamo divertiti un mezzo mondo. S’è fatto un po’ di tutto; mormorazioni, giuochi di società, sciarade in azione, musica, danza, danza sopratutto. C’è venuto un nuovo ballerino, un bel giovane di spirito, simpatico, amenissimo, un certo Nori.

Emilio si riscosse vivamente.

— Ah!

— Lo conosci?

Emilio esitò un momento e poi rispose risoluto:

— Sì... E Matilde è stata lei in casa X... queste sere scorse?

— Sicuro.

— E quel Nori le s’è fatto presentare?

— A Matilde?... Sì, certo; ed ha ballato quasi sempre con lei.

— Sì, lo conosco quel Nori, soggiunse Emilio con accento di acrimonia, troppo bene lo conosco per dolermi ch’egli venga intorno a tua sorella.

— Come! Non sarebbe un giovane per bene?

— È uno fatto apposta per compromettere la virtù in persona; uno di coloro che si cacciano intorno a una donna, zitella o maritata, e la sanno circuire in modo che, anche non riuscendo a conquistarla, danno al mondo tutte le mostre d’esserci riusciti. È uno sfacciato [p. 75 modifica]millantatore, che, a sentirlo, tutte le donne cascano innamorate morte di lui: insomma tale che bisogna ben guardarsi dal lasciarlo penetrare in una famiglia e bazzicare per casa.

— Oh, guarda! esclamò Cesare tutto meravigliato. E dire che m’apparve tutt’altra cosa: e non soltanto a me, ma anche al babbo e alla mamma; allegro, vivace, un buon figliuolo.

— Un volpone... Farai bene a stare in guardia per Matilde.

— Diamine! diamine!... È un fatto ch’egli le è sempre intorno... Per questa sera hanno già insieme impegnato non so quanti ballabili.

— Questa sera? In casa X...?

— Sì.

— C’è ballo?

— In tutta regola... Come fare a levarlo d’attorno a Matilde?... Avviserò lei che stia in contegno; ma non basta.

— No, non basta.

— Ci verrai tu?

— Non so... Forse!... Se sarò di umore meno rabbioso.

— Vieni, vieni: mi ajuterai a tener lontano il Nori.

— Va bene... Ah, senti! Parlando con tua sorella di colui, non dirle che le informazioni le hai avute da me.

— No?... Perchè?...

— Perchè Matilde mi ha in uggia talmente, che le basterebbe sapere ch’io ho detto nero per veder bianco. [p. 76 modifica]

Ma questa cauta raccomandazione doveva sortire poco effetto. Quando Cesare venne ripetendo a Matilde le brutte cose dette da Emilio del Nori, la fanciulla, ficcando il suo limpido sguardo in quello del fratello, e con una vivacità che dimostrava quanto tale argomento l’interessasse, domandò:

— Chi ti ha rivelato tutto codesto?

— Una persona che lo conosce molto bene.

— Il suo nome?...

— Il nome non ci ha che fare.

— Ci ha che far moltissimo; e te lo dico io: è il nome di Emilio Lograve.

— Che che!... nemmeno per sogno.

— È inutile il negare; già a me stessa Emilio ha tentato di mettere quel giovane in mala vista: e so che tu da Emilio ti lasci facilmente imbeccare.

— Mi lascio i fichi secchi! gridò Cesare stizzito. E da qualunque io abbia ricevuto quelle informazioni, è mio dovere e saprò ben io levarti quel moscone d’attorno.

— Tu avrai la compiacenza di non far nulla! proseguì con forza Matilde. Oltre il babbo e la mamma non ho bisogno d’altri vigilatori e custodi.

Quella sera, entrando nel salone di casa X..., la prima cosa che vide Emilio fu la cugina e Alberto Nori che ballavano un valzer animatissimo, con aspetto evidentissimo di reciproca soddisfazione. Egli s’accostò a Cesare, che era poco lontano. [p. 77 modifica]

— Bravo! gli disse con un sogghigno. Hai saputo bene tener lontano il Nori da Matilde.

— Che vuoi? Matilde era impegnata... io non ho voluto fare scandali.

— Hai ragione, hai ragione! disse Emilio, il cui labbro scolorato si assottigliava sotto l’impressione dell’ira repressa.

Il valzer era finito. Emilio traendosi seco Cesare venne ad appostarsi a pochi passi dal Nori che stava discorrendo con Matilde e colla madre di lei. Si mise a parlare vivamente col cugino, dando a quel suo satanico sogghigno la più maligna espressione e fissando instintivamente uno sguardo maligno del pari su Alberto Nori: questi sentì quello sguardo pesare su di sè; si volse, vide i due e capì che parlavano di lui; se ne avesse dubitato, ne lo avrebbe chiarito il suo nome che udì pronunciato da Lograve. Turbato, offeso da quel contegno, Alberto si congedò dalle signore Danzàno e venne accostandosi ai due giovani. Emilio lo lasciò venire fino alla distanza di due passi, e poi, quando già l’altro cominciava un saluto, girò sui tacchi e s’allontanò guardando in aria.

— Lograve! chiamò vibratamente Alberto che sentì il sangue salirgli alla faccia; ma Emilio non se ne diede per inteso, e continuò ad allontanarsi. Non fece un movimento per corrergli dietro, ma si trattenne e si volse a Cesare.

— Che cos’ha meco Lograve?

— Ma! che ne so io? rispose freddo freddo il fratello di Matilde. [p. 78 modifica]

— Sì, che lo deve sapere: ribattè con qualche risentimento Alberto, perchè dianzi Lograve le parlava di me... Oh! l’ho ben visto... Che cosa le diceva? Ho pure il diritto di saperlo.

— Io non so se lei abbia questo diritto: ma so bene che io non ho il dovere di parlarne... e non dirò nulla.

— Ha ragione... Andrò a domandarlo a Lograve medesimo: e spero bene che non avrà sempre il coraggio di sfuggire, come ha fatto adesso.

Si mise subito in cerca d’Emilio. I due rivali s’incontrarono in un salottino appartato dove, mentre si danzava nel salone, rimasero soli.

— Tu hai parlato di me testè col signor Danzàno?

— Può darsi.

— E ne hai parlato in modo che quel giovane, il quale m’aveva sempre trattato con molta cortesìa, ha cambiato meco aspetto e contegno.

— Credi?

La calma beffarda di Emilio accrebbe lo sdegno del Nori.

— Ho diritto di sapere che cosa hai detto di me!

— E io non ho nessun obbligo di dirtelo.

— Ti obbligherò io a parlare, disse fremendo Alberto al quale facevano bollire il sangue la faccia canzonatoria, lo sguardo provocatore e l’accento insolente di Emilio.

E questi, con un ghigno ancora più insultante: [p. 79 modifica]

— Obbligarmi?... Cospetto!... Vediamo un poco! Eri un prepotentone in collegio e sei sempre tale e quale; ma allora avevi da fare con ragazzi.

— E ora ho da fare con un vigliacco.

Emilio s’allontanò d’un passo e disse lentamente, con voce sommessa, quasi soffocata, sibilante:

— Badate, signor Nori, che questo è un sanguinoso, gratuito oltraggio.

— È quello che vi meritate. Vile chi sparla di una persona dietro le spalle e si rifiuta di ripeterle in faccia le sue accuse.

— Ho capito! disse Emilio, accrescendo ancora l’insolenza del suo accento sarcastico. Questa è, come dicono i francesi, una mauvaise querelle che voi volete avere con me: ma io non mi lascierò trascinare a vostro talento, e per evitare il pericolo che alla fine il sangue freddo mi abbandoni, me ne vado.

E si mosse per partire.

Alberto lo trattenne, stringendogli vigorosamente il braccio.

— No, non partirete prima d’avermi dato soddisfazione.

— Signore! gridò vivamente Emilio, liberando con violenza il suo braccio, osate mettermi le mani addosso!... È troppo!... La soddisfazione che cercate sono pronto a darvela, ma non qui, non con parole, se voi avrete il coraggio di domandarmela.

— Sì, ve la domando. [p. 80 modifica]

— Badate bene!... Sarete voi che l’avrete voluto. Io sono ancora disposto a darvi passata, purchè mi lasciate tranquillo e dimostriate, non fosse che con una parola, rincrescimento di quanto mi avete detto e fatto...

— O impudente vigliacco!...

— Basta, signore!... Non più insulti. Sarà come volete. Aspetto i vostri padrini, e di tutte le conseguenze avrete da dire mea culpa.

E ratto, senza che l’altro avesse più tempo a trattenerlo, Emilio s’allontanò e sparì dal ballo.

Alberto, quando tornò in sala, aveva tuttora in viso un poco di quell’espressione di sdegno che la scena con Lograve gli aveva eccitato, e Matilde se ne accorse.

— Con chi l’ha, signor Nori? gli disse mezzo scherzosa, mezzo sul serio, esaminandolo bene con que’ suoi occhî lucenti come diamanti sotto un raggio di sole. Qualcheduno l’ha fatta inquietare?

Il giovane rispianò subito la fronte, e seppe trovare un sorriso affatto di buon umore.

— Punto, punto, rispose; cioè sì, l’ho con un certo nojoso, che per discorrermi d’alcune sue bazzecole, m’ha fatto perdere una polka.

— Quel nojoso, se non isbaglio, è stato mio cugino.

— No, signorina.

— Mi è sembrato vederla parlare con lui e con mio fratello.

— Sì, poche parole... È stato un altro a trattenermi. [p. 81 modifica]

Matilde sentì rinforzarsi il concepito sospetto, cercò di Emilio, e l’improvvisa di lui partenza l’inquietò maggiormente. Poco dopo anche Alberto se n’andò. Matilde interrogò vivamente il fratello. Questi negò bensì che fra Emilio e il Nori vi fosse stata contesa, ma la sua negazione parve debole e poco persuasiva alla ragazza.

Il domattina, Cesare, ricevuto un biglietto di Emilio che lo pregava di venire subito da lui, stava per recarsi alla chiamata, quando Matilde lo sorprese colla mano sulla serratura dell’uscio di casa.

— Dove vai così di buon’ora e così sollecito?

Cesare, che non era abbastanza accorto per vedere il motivo di tacere il vero, disse d’essere stato chiamato da Emilio.

Matilde se ne turbò.

— Ah! io l’avevo indovinato fin da jeri sera. Quel tristo d’Emilio vuol battersi col signor Nori.

Cesare disse quanto meglio seppe a persuadere la sorella che ciò non era possibile, ma ogni sua parola rimase inutile.

— Senti, Cesare, disse Matilde con forza. Tu hai da impedire codesto duello ad ogni costo... ad ogni costo, capisci... Ne faccio te responsabile... Va, e torna presto a rassicurarmi.

— Cesare, disse Emilio al fratello di Matilde, appena l’ebbe veduto entrare, quel bellimbusto del Nori mi ha sfidato, e ci battiamo questa stessa mattina. [p. 82 modifica]

— Possibile! esclamò Cesare tutto turbato. Ah! Matilde ha visto giusto.

— Ah ah! Che cosa t’ha detto tua sorella?

— Che si trattava di questo duello, e ch’io dovevo a ogni costo impedirlo.

— Sì, proprio? esclamò col suo malvagio sogghigno Emilio. Convien dunque dire che Matilde s’interessa vivamente, troppo vivamente, per quel signore... Oh! me ne rincresce, perchè il duello oramai non v’è modo d’evitarlo.

— Oh sì che ci sarà, disse con calore il buon Cesare; ci dev’essere. Sento anch’io essere mio dovere d’impedirlo, questo duello... Tu ne hai già avuti troppi, nessuno più di te può rinunziare ad uno scontro senza scapitarne... Di questo duello poi non c’è una soda ragione.

Emilio l’interruppe bruscamente.

— La ragione c’è, e la so ben io... Non impacciartene dell’altro tu, che per quello ch’io ti domando... Vorresti farmi da Mentore? Questo duello ti dico io che è inevitabile... È stato lui, Alberto, quello che l’ha voluto... Io ho fatto di tutto per esimermene; sono stato rimessivo fin troppo; Nori ha persistito; mi ha mandato a sfidare, stamattina son venuti i suoi padrini e fra un quarto d’ora torneranno per intendersi definitivamente coi miei, dei quali tu sarai uno e B. l’altro. Siamo già d’accordo che si finirà tutto di questa mattina medesima. Posso io dare addietro? Mai più! Lo può egli, provocatore, sfidatore ostinato, senza coprirsi di vergogna? Nemmen per ombra. Dunque? E [p. 83 modifica]avresti cuore tu di abbandonarmi, di lasciarmi negli impicci?... Hanno suonato. È certo l’altro mio padrino. Conto su voi due. Saprete fare le mie parti a dovere.

Cesare, dominato dall’accento e dallo sguardo di Emilio, non osò più contraddire, non osò più rifiutarsi.

Secondo le istruzioni date dallo sfidato ai suoi padrini, fu convenuto che il duello avrebbe luogo fra due ore, alla pistola, dietro il campo santo, i due avversarî alla distanza di venti passi, facendo fuoco nello stesso tempo.

Quando i due avversarî si trovarono a fronte, Cesare non potè a meno di essere colpito dalla differenza dei loro aspetti. Alberto Nori, un po’ pallido, ma franco e sorridente, guardava dritto innanzi a sè cogli occhî levati; Emilio Lograve teneva un po’ chino il capo e di sotto la fronte lo sguardo velenoso guizzava a scatti sull’avversario mentre sulle labbra gli si disegnava il sogghigno diabolico di un malvagio che vuole compiere un maleficio e sa di riuscirvi. Il fratello di Matilde fu assalito da una specie di rimorso; nel consegnare l’arma ad Emilio, gli disse piano, ma con calda espressione di preghiera:

— Tu lo risparmierai, non è vero?

L’altro sogghignò a suo modo.

— Vedrai come!... Lo colpirò al terzo bottone del soprabito.

Cesare volle insistere.

— Va, va al tuo posto, e non seccarmi. [p. 84 modifica]

Al cenno, i due colpi risuonarono insieme. Emilio stette fermo, immobile, senza batter ciglio. Alberto portò la mano sinistra al petto ed esclamò:

— Son ferito!

Si scosse come per fare un passo, vacillò, e perdendo di subito le forze, lasciò cader l’arma che impugnava colla destra, s’accasciò e si distese lungo per terra.

I quattro testimonî e il medico si precipitarono presso di lui; il terzo bottone del soprabito a doppio petto era rotto e lì vicino un bucherello lasciava uscire una goccia di sangue. Il ferito girò intorno uno sguardo incerto, volle parlare, una lieve schiuma sanguigna gli venne agli angoli della bocca, e svenne.

Emilio, senza muoversi dal suo posto, aveva incrociato le braccia e stava aspettando.

Il medico aprì sollecito i panni del caduto, ne stracciò la camicia, osservò la piaga, ne tastò coi suoi ferri la profondità, cercò la palla, non la trovò, e volgendosi ai presenti, disse con malauguroso scuoter del capo:

— La ferita è gravissima.

Mentre il medico faceva una fasciatura provvisoria, Cesare s’accostò ad Emilio, e questi senza lasciarlo parlare gli disse subito:

— Hai visto? Al terzo bottone.

Cesare sentì uno sdegno, un orrore indicibile per quel cinico omicida.

— Tu l’hai assassinato, gli rispose con labbro fremente. Ora, che vuoi tu ancora far qui? Vattene. [p. 85 modifica]

Emilio scosse la spalla sogghignando, gettò in terra la pistola che teneva ancora in mano e si allontanò lentamente.

Cesare rientrò in casa con aspetto così turbato, che i genitori e la sorella subito s’accorsero che qualche cosa di grave gli era intravvenuto; e siccome era impossibile nascondere la verità, egli narrò con ogni particolare l’avvenimento di quella mattina. Amarissimi rimproveri glie ne fece Matilde, severissimi il padre e la madre.

Il signor Danzàno scrisse al figlioccio tali rampogne che gli levarono affatto la volontà di presentarsi nella casa del padrino a sentirsele ripetere in faccia.

Per tutta la città l’interessamento fu vivo pel ferito, rigorosa la disapprovazione pel feritore.

Il fisco, trattandosi di un duello che fece tanto rumore, e di cui la conseguenza era la vicina, temuta, pur troppo inevitabile morte di un uomo, si trovò in debito di procedere con qualche premura.

Emilio, per togliersi alle seccature del processo e alla indignazione della cittadinanza, di cui in quei primi giorni sentiva gravarsi addosso il molesto peso, dato sesto ai suoi affari, provvistosi d’una buona somma, senza dare un saluto a chicchessia, fuggì all’estero, coll’animo di non rimpatriar più che a cose quiete e protetto dall’oblìo che nella vita sociale, coll’ajuto del tempo, seppellisce ogni cosa.