La tutela internazionale della proprietà intellettuale: il fenomeno del copyleft/Capitolo 2.2

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Capitolo 2.1 Capitolo 2.3

2.2.1. In mezzo al guado

Parlare di copyleft implica anche l’analisi (che sarà condotta nel paragrafo successivo) della storia dei programmi e dei progetti nati da questa filosofia, inizialmente legata all’ambito informatico e solo più recentemente ampliatasi alle espressioni letterarie e artistiche.

L’ampliamento del campo d’azione, tuttavia, non ha intaccato il principio cardine di questo approccio: il passaggio da un “percorso lungo”, in cui «i creatori non raggiungevano il loro pubblico, se non appoggiandosi a un’impresa»1 che permettesse loro di poter pubblicare il proprio prodotto, a un “percorso breve”, dove l’autore di un’opera possiede già la capacità di sfruttare un mezzo (Internet) per poter pubblicare (e pubblicizzare) autonomamente il proprio prodotto, senza dover ricorrere a un intermediario.

Indubbiamente, questo “percorso breve” è figlio della rivoluzione digitale in corso dagli anni ‘80: come si accennava nell’introduzione a questa analisi, la crescente velocizzazione dei processi produttivi dovuta all’uso di tecnologie informatiche sempre più potenti ha “naturalmente” prodotto la necessità di ridurre ulteriormente i “tempi morti” della produzione.

Come tutte le transizioni, questa rivoluzione impone la riconsiderazione di certi passaggi produttivi, i quali da un lato non possono più essere considerati completamente “efficienti”, ma che allo stesso tempo ormai sono ben sedimentati nel nostro modus operandi. Non va però sottovalutato come la (legittima) tutela di questo modus operandi nasca anche dalla (ancor più legittima) “volontà di sopravvivenza” dell’intermediario, per esempio delle emittenti radiotelevisive e delle case editrici, discografiche e cinematografiche.

La paura di questi attori è un sentimento naturale poiché, come efficacemente sintetizza Barlow nel suo famosissimo saggio Selling Wine Without Bottles: «[s]ince we don’t have a solution to what is a profoundly new kind of challenge, and are apparently unable to delay the galloping digitization of everything not obstinately physical, we are sailing into the future on a sinking ship. This vessel, the accumulated canon of copyright and patent law, was developed to convey forms and methods of expression entirely different from the vaporous cargo it is now being asked to carry. It is leaking as much from within as without». Il rischio della produzione di beni immateriali, prosegue Barlow, è che venga a mancare ogni possibilità di corrispondere un equo compenso all’autore, di fatto ponendo le basi per un futuro di «furor, litigation, and institutionalized evasion of payment except in response to raw force».2

Va da sé che considerare auspicabile quanto paventato da Barlow, ossia il collasso sic et simpliciter dell’attuale assetto legislativo e, di conseguenza, degli attori che su questo si basano per tutelare i propri diritti è un estremo francamente assurdo – che, logicamente, nessuno all’interno del mondo copyleft si sentirebbe di appoggiare.

Il nodo è un altro. Come suggerisce l’adagio, est modus in rebus: esiste un modo con cui far valere le proprie ragioni, senza per questo cadere nel torto o apparire come intenzionati solo a mantenere la propria posizione di privilegio, sancita e legittimata dalla legge.

2.2.2. Eccessi nella tutela del copyright

A essere sempre più criticato è il modo scelto da molte imprese per difendersi: anziché accettare il dato di fatto di una tendenza incontrovertibile e adeguarsi alla necessità di rinnovarsi per poter continuare a restare sul mercato, si preferisce – per utilizzare una terminologia scacchistica – l’arrocco in difesa, richiedendo e ottenendo un rafforzamento dei termini di protezione delle opere e procedendo con costose (e non sempre efficaci) azioni legali, perfino di tipo penale, contro chi viola le norme sul copyright.3

È stato comunque notato come l’inasprimento dei metodi con cui si perseguono i “pirati”, in realtà, non porti affatto a recuperare quei profitti che si intendono illegalmente sottratti dalle attività di contraffazione, anzi. «Le verifiche empiriche mostrano che [...] ciò in molti casi si traduce semplicemente nell’abbandono di consumi e mercato»4 da parte di chi viene perseguito, ossia nel dirottare altrove le proprie intenzioni di spesa.

A questo, si aggiunge il finanziamento, da parte delle major, della ricerca nel campo del digital rights management (DRM), ossia nel campo delle nuove tecnologie volte a impedire o limitare la possibilità di copiare un’opera, soprattutto in ambito musicale. Tentativi questi che, al pari delle altre iniziative, non hanno portato i frutti sperati e che, anzi, hanno causato in taluni casi effetti diametralmente opposti a quelli ricercati.

Il caso più eclatante fu quello che coinvolse la Sony BMG nel 2005, accusata di aver inserito un programma DRM “nascosto” in circa un centinaio di titoli musicali. Già in passato, un paio di CD prodotti dalla casa discografica prevedevano una limitazione (di cui però l’utente finale era avvertito) di questo genere. Inoltre, la stessa aveva già integrato nei propri CD un particolare software di riproduzione musicale, la cui installazione sul computer era obbligatoria qualora si volesse utilizzare il proprio PC per ascoltare quel CD e che limitava a tre le copie possibili dello stesso.

La prima denuncia risale al 31 ottobre 2005, da parte del programmatore e ingegnere elettronico della Microsoft Mark Russinovich, che scoprì la presenza di un programma DRM sul proprio PC, apparentemente auto-installatosi a sua insaputa attraverso la riproduzione di un CD prodotto dalla Sony BMG.

In seguito, si scoprì che i programmi DRM utilizzati, Extended Copy Protection (XCP) e MediaMax CD-3, erano in effetti programmi che si auto-installavano sul computer nel momento stesso in cui il CD veniva inserito per la prima volta – in assenza di adeguata segnalazione della loro presenza e, dunque, di assenso esplicito dell’utente finale all’installazione degli stessi.

I programmi venivano poi considerati come “file nascosti” dal sistema, ne rallentavano il funzionamento e avrebbero potuto generare improvvisi malfunzionamenti. Soprattutto, generavano notevoli falle nella sicurezza del computer, facilmente sfruttabili da virus5 e malware6 – cosa che poi puntualmente avvenne.7 Infine, il programma non poteva essere disinstallato, se non con procedure che avrebbero potuto compromettere il sistema. Russinovich lo definì senza mezzi termini «a clear case of Sony taking DRM too far».8

Il 3 novembre, Sony BMG fu costretta a rendere disponibile un software per poter disinstallare i programmi DRM illecitamente installati,9 che però le attirò nuove critiche per la farraginosità delle procedure di richiesta e per la reale efficacia del programma.10 Il 15 novembre, la casa discografica annunciò il ritiro dal commercio di tutti i CD che contenevano quei programmi, così come forme di sostituzione e/o rimborso per chiunque li avesse già comprati.11 Queste azioni non la misero comunque al riparo dai vari ricorsi legali che vennero intentati e che si conclusero nella totalità dei casi con la condanna a un risarcimento, nemmeno tanto simbolico, da parte di Sony BMG a tutte le persone danneggiate.12

Proprio sulla scorta di quanto avvenuto, i docenti dell’Università di Princeton John Halderman e Edward William Felten effettuarono una ricerca sulle tecnologie DRM, arrivando a delle conclusioni molto nette: «the DRM design will not necessarily serve the interests of copyright owners, not to mention artists», poiché «DRM systems [...] make no pretense of enforcing copyright law as written, but instead seek to enforce rules dictated by the label’s and vendor’s business models. These rules, and the technologies that try to enforce them, implicate other public policy concerns, such as privacy and security». Inoltre, «[b]ad DRM design choices can seriously harm users, create major liability for copyright owners and DRM vendors, and ultimately reduce artists’ incentive to create».13

2.2.3. Le critiche all’attuale modello di tutela del copyright

Il caso appena presentato, a onor del vero, rappresenta un tentativo spintosi “troppo oltre” nella difesa delle legittime prerogative dell’industria informatica, delle emittenti radiotelevisive e delle case editrici, discografiche e cinematografiche. Tuttavia, questo non impedisce di riconoscere realisticamente l’esistenza di difetti nel modello copyright e di valutarne gli effetti in termini economici, così come di circolazione delle idee.

I difensori del copyright lo ritengono l’unico metodo in grado di favorire in maniera efficace l’innovazione e la ricerca: esso garantisce, da un lato, gli investimenti e i finanziamenti necessari e, dall’altro, un certo margine di guadagno a tutti gli attori coinvolti – non ultima la società che beneficia di nuove opere e invenzioni.

Nella pratica, però, possono verificarsi situazioni completamente diverse, nelle quali l’applicazione troppo restrittiva di queste norme può rivelarsi dannosa per le dinamiche del mercato, determinando una serie di comportamenti inefficienti.

Gli economisti Antonella Ardizzone e Giovanni Ramello hanno individuato tre critiche al sistema del copyright,14 che per comodità saranno analizzate separatamente. Esso potrebbe determinare:

1) un fenomeno di inaridimento o comunque di “freno” alla creatività, sia attraverso l’aumento dei costi della produzione che attraverso la limitazione al bagaglio di idee a cui si può attingere;

2) una sperequazione nella remunerazione degli autori e al contempo il rischio di creazione di un oligopolio dal lato della produzione editoriale;

3) un processo di selezione di nuovi strumenti produttivi effettuato sulla base della capacità di rafforzare la posizione dominante di chi li seleziona, piuttosto che sul reale grado di benefici e profitti che possono produrre anche per la società.

2.2.3.a) Il copyright come "freno" alla creatività

Si può ritenere che la produzione di nuovi contenuti «è per sua natura incrementale, in quanto trova fondamento e ispirazione nelle opere precedenti e nel contesto culturale di riferimento. Spesso gli autori aggiungono una nuova riflessione a idee preesistenti, le riorganizzano, le imitano o le copiano per giungere a un risultato inedito».15

Lawrence Lessig, docente dell’Università di Stanford e fondatore della Creative Commons Foundation, nota come la fortuna di Walt Disney si sia basata proprio su questo processo: Steamboat Willie, il primo cortometraggio animato in cui apparve Topolino, in realtà era una parodia di Steamboat Bill, Jr., ultimo film del noto attore e cascatore hollywoodiano Buster Keaton.

«Questo “prendere in prestito” – continua Lessig – non era affatto raro, né per Disney né per l’industria dei cartoni animati. Disney rifaceva sempre il verso ai lungometraggi di maggiore successo dei suoi giorni».16 E non fu il solo episodio: larghissima parte dei lungometraggi prodotti dalla Walt Disney Company si basano su o sono riadattamenti di favole, leggende e opere letterarie del passato (Biancaneve, Pinocchio, Alice nel Paese delle meraviglie, Robin Hood, La spada nella roccia, Il libro della giungla...).

Poiché dunque la creatività nelle c.d. “arti liberali” non nasce quasi mai ex nihilo, l’imposizione di un prezzo sull’opera “ispiratrice” aumenta ipso facto il costo di produzione dell’opera “derivata”, che a sua volta si scaricherà sul prezzo proposto all’utente finale. E più sono i soggetti coinvolti, più «aumenta l’onere che i creatori devono sostenere per [...] riunire i singoli diritti», aumentando dunque ulteriormente i costi di produzione e limitando dunque «l’accesso all’attività creativa solo per coloro che hanno risorse sufficienti per sostenerli (non sempre i creatori più efficienti) e addirittura scoraggiarla».17

Lessig cita come esempio di questo fenomeno l’iniziativa di una azienda, la Starwave, che nel 1993 era intenzionata a promuovere l’immissione sul mercato dei CD-Rom attraverso una serie di retrospettive sui più grandi attori di Hollywood. La realizzazione della prima retrospettiva, che avrebbe visto protagonista Clint Eastwood, richiese circa un anno di lavoro, consistente perlopiù nel rintracciare i legittimi detentori dei diritti di sfruttamento commerciale su sceneggiature, spezzoni di film, locandine, manifesti e altro materiale – «e neppure allora eravamo sicuri che fosse tutto a posto», ammise l’ideatore del progetto, Alex Alben.18

Va da sé che un lavoro del genere può essere effettuato solo da persone che hanno una struttura simile a quella della Starwave alle spalle – struttura che, comunque, non garantisce affatto la possibilità di raggiungere lo scopo che ci si prefigge, poiché il vero problema è dato dalla dipendenza dai desiderata dei detentori dei diritti.

Come lo stesso Alben (sapientemente provocato da Lessig) afferma, l’assenza di un efficiente meccanismo di equo compenso che permettesse di pianificare in anticipo le spese da sostenere è un punto che può fare la differenza, in iniziative del genere.19 Rileva notare anche come Alben sia stato aiutato dalla disponibilità di alcuni fra i soggetti interpellati – circostanza che non può essere data per scontata.20

2.2.3.b) Il copyright come "ostacolo" al libero mercato delle idee

Gli oligopoli sono generalmente diffusi nei mercati dell’editoria e dell’informazione, anche attraverso la concentrazione di più case editrici o testate giornalistiche nelle mani di pochi gruppi, i quali risultano poi detenere quote importanti di mercato. Un esempio è dato dal mercato dell’industria musicale, dove le “Big Four” (ossia le quattro principali case discografiche: Universal Music Group, Sony Music Entertainment, Warner Music Group ed EMI) detengono complessivamente l’87,8% del mercato.21

Una tale conformazione del mercato genera numerosi effetti perversi nell’allocazione delle risorse. Innanzitutto, spinge le aziende dominanti ad adottare comportamenti anti-concorrenziali, quali l’acquisizione di potenziali concorrenti “pericolosi” o di ampie quote dei canali di distribuzione e il ricorso a pratiche volte a danneggiare i concorrenti più deboli e scoraggiare l’entrata nel mercato di nuovi attori.

Queste pratiche sono talvolta in opposizione alle normative anti-trust nazionali, talvolta derivanti proprio dalla posizione di dominanza, assunta sul mercato, come la possibilità di poter investire molti più soldi nel battage pubblicitario o nell’acquisizione di titoli di sicuro successo, oppure ancora la possibilità di poter disporre di propri canali di distribuzione in modo da limitare la distribuzione dei prodotti della concorrenza.

Gli effetti si ripercuotono sugli autori messi sotto contratto dalle due categorie di attori. Le indagini condotte «su alcuni mercati artistici, anche in Italia, confermano quanto affermato, mostrando da un lato che le remunerazioni [del diritto d’autore] procurano redditi significativi a un numero esiguo di autori, e dall’altro che esiste una certa inerzia in tali redditi, per cui nei vari anni sono sempre gli stessi autori a ricevere redditi rilevanti, mentre il ricambio di tale popolazione è minimo».22

L’asimmetria nella retribuzione degli attori insider e di quelli outsider genera, inoltre, una tendenza dei primi a disperdere ulteriormente le risorse a propria disposizione, attraverso una serie di investimenti improduttivi (magari sostenuti da sussidi statali) effettuati al solo scopo di rafforzare la propria posizione dominante e ricercare dinamiche di rent-seeking.

In definitiva, un mercato distorto da posizioni dominanti risulta essere inefficiente non solo in termini economici, ma anche in termini qualitativi, dal momento che, in condizioni del genere, le idee che hanno la maggior probabilità di diffondersi sono quelle legate agli insider, laddove quelle degli outsider si troveranno a dipendere dalla “beneficenza” dei primi.23

Ma un mercato del genere è anche soggetto a un elevato rischio di sclerotizzazione, tale da cristallizzarsi in configurazioni inefficienti e obsolete. Si è così incapaci di trarre vantaggio, per esempio, dalle strategie di unbundling, che permettono di parcellizzare le opere e di venderle in parti separate (una canzone anziché l’intero disco, un articolo anziché l’intera rivista, un capitolo anziché l’intero libro e così via).

Non a caso, l’esempio di Apple e di iTunes è lampante: è toccato a una azienda che non aveva rapporti col mondo della musica rompere gli schemi e dare a un fenomeno come quello del download illegale di musica una conformazione legale, a pagamento e per di più senza fare ricorso al DRM. Seguendo questo approccio, oggi Apple detiene circa i due terzi del mercato.24

2.2.3.c) Il copyright come "causa" di selezione avversa

Il controllo dei contenuti e una conformazione oligarchica o comunque “chiusa” del mercato possono, infine, influenzare anche le dinamiche di rinnovamento tecnologico dei processi produttivi. Un caso di “selezione avversa” riguarda il Digital Audio Tape (DAT), una tecnologia di registrazione digitale su microcassetta, derivata da quella delle videocassette, sviluppata dalla Sony verso la fine degli anni ‘80.

Introdotto inizialmente nel 1987 in Giappone ed Europa, il DAT venne fortemente osteggiato negli Stati Uniti della Recording Industry Association of America (RIAA), poiché con questa nuova tipologia di registrazione era possibile ottenere una copia della stessa qualità della cassetta originale, al contrario di quanto avveniva invece con i normali supporti analogici – con notevoli ripercussioni, dunque, sul fenomeno della “pirateria musicale”.

Al riguardo, rileva notare come in passato «[n]el campo della musica registrata, la pirateria è stata de facto ben accetta nel contesto analogico perché consentiva alle imprese [...] di ottenere sussidi incrociati dalla vendita di supporti vergini e apparecchi di registrazione prodotti, e inoltre svolgeva una funzione promozionale al disco (“sampling effect”) e introduceva comunque i consumatori meno ricchi al consumo di musica registrata, permettendo poi una successiva loro trasformazione in acquirenti di prodotti legali».25 Va da sé che il sampling effect era, dunque, tollerato anche perché la qualità della registrazione pirata era inferiore all’originale.

Dal momento che il DAT permetteva di colmare questa differenza di qualità, l’industria musicale statunitense iniziò una serie di trattative con la Sony e altre aziende produttrici affinché venissero messi a punto meccanismi per impedire copie digitali non autorizzate di eventuali titoli prodotti con la tecnologia DAT. La RIAA, in particolare, mise in atto un’intensa opera di lobbying presso il Congresso degli Stati Uniti, al fine di ottenere un provvedimento che regolamentasse il sistema.

Nel 1992, venne approvato (con l’accordo di tutte le parti interessate) l’Audio Home Recording Act (AHRA), che stabiliva il pagamento di una tassa da parte di produttori e importatori di supporti digitali del 2% per singolo supporto. Il ricavato avrebbe costituito un fondo con il quale si sarebbe finanziato il lavoro di autori, musicisti, scrittori e anche (per la prima volta) delle etichette musicali. L’AHRA fu abbastanza restrittivo da rallentare l’adozione del DAT, limitandone la diffusione solo agli ambienti professionali e aiutandone la marginalizzazione a favore dei CD. Nel dicembre 2005, infine, la Sony interruppe definitivamente la produzione dei supporti DAT.

Qualcosa di simile è stato tentato nei confronti delle webradio: la RIAA nel 1995 spinse per far approvare una regolamentazione particolarmente restrittiva in materia, in base alla quale le radio che trasmettono via Internet devono corrispondere delle royalty anche all’artista – al contrario delle radio “terrestri”, che continuano a essere dispensate dall’obbligo.

«Questo peso finanziario non è cosa da poco. Secondo le stime di William Fisher, professore di legge ad Harvard, se un’emittente su Internet distribuisse musica di successo senza inserzioni pubblicitarie a (mediamente) diecimila ascoltatori, per ventiquattro ore al giorno, i diritti che dovrebbe pagare agli artisti, complessivamente ammonterebbero a oltre un milione di dollari l’anno».26

In aggiunta, le webradio dovevano indicare una lunga serie di dati riguardo la trasmissione di ciascuna canzone. L’obbligo fu poi successivamente rimosso e le tariffe riconsiderate al ribasso, ma resta comunque una disparità di trattamento che penalizza le emittenti via Internet. Il motivo di questa differenza è presto detto: in un incontro fra alcuni dirigenti della Real Networks e alcuni esperti della RIAA, questi ultimi hanno dichiarato che «un modello industriale con migliaia di emittenti web non è esattamente quello che ci immaginiamo; pensiamo a un’industria con cinque o al massimo sette grandi società in grado di pagare tariffe elevate, e così avremo un mercato stabile, prevedibile».27

2.2.4. I vantaggi dell’apertura al copyleft

In opposizione a questi schemi “chiusi”, è stato rilevato da giuristi ed economisti come garantire oggi un certo grado di permissività riguardo la tutela dei diritti di sfruttamento commerciale, nei limiti in cui ciò non si riveli eccessivamente pregiudizievole degli interessi del detentore, si traduca domani in un considerevole aumento dei profitti. La chiave è, ancora una volta, puramente economica: ribaltare l’ottica per risolvere il problema dei processi produttivi inefficienti e della “pirateria intellettuale”.

Il fenomeno dell’open source e delle licenze libere costituisce una risposta a questi problemi. Sempre più i dati empirici confermano che, attraverso la rivelazione dei propri “segreti aziendali” a comunità composte da “anonimi”, si ottengono risultati molto più vantaggiosi rispetto a quando questi segreti vengono gelosamente tutelati.

Il decentramento dei processi di sviluppo e il processo di revisione paritaria diffusa, alla base dell’open source, permettono di ottenere feedback più veloci e consente, agli utilizzatori più esperti, di segnalare (ed eventualmente risolvere) errori e malfunzionamenti con maggiore efficacia, a tutto vantaggio della funzionalità del prodotto. Le licenze libere, in aggiunta, garantiscono modalità di uso e di diffusione più flessibili, incentivandone l’adozione e aumentando le possibilità di feedback.

Il caso probabilmente più eclatante – che verrà ripreso anche nel prossimo paragrafo – è quello dell’apertura di IBM al mondo dell’open source: passando da un modello di sviluppo estremamente accentratore e rigido a uno aperto e dinamico, ha abbattuto i costi, recuperato importanti fette di mercato e rafforzato la posizione nei confronti dei principali avversari, Microsoft e Sun.28

Un altro esempio è dato proprio da Sun, che acquisì i diritti nell’agosto 1999 su StarOffice, un pacchetto di software di produttività personale29 prodotto dalla StarDivision. Quasi un anno dopo (luglio 2000), il codice sorgente di StarOffice fu reso pubblico con un formato copyleft30 e venne annunciata la creazione del progetto OpenOffice.org, con lo scopo di coagulare una comunità open source che potesse sviluppare un pacchetto basato su un formato “aperto”.

L’obbiettivo era quello di sfruttare le soluzioni sviluppate dalla comunità per migliorare le prestazioni del pacchetto StarOffice, da cui Sun intendeva ottenere profitti sia in termini di vendite che di fornitura di servizi di assistenza collegati: in parole povere, un classico esempio di outsourcing. La scommessa sembra aver funzionato: OpenOffice registra circa 130 milioni di download,31 mentre StarOffice è in vendita a costi decisamente inferiori rispetto ad altri pacchetti “proprietari”, offrendo funzionalità di qualità simile o addirittura superiore.

La possibilità di poter usufruire di soluzioni o strumenti di qualità a costi più contenuti genera a sua volta ripercussioni positive su tutto il sistema economico: per esempio, per una piccola o media impresa, che potrebbe usufruirne per abbattere i costi interni, o per i creatori stessi di quegli strumenti, che potrebbero ricevere offerte di lavoro o di consulenza allettanti (oltre che trarne prestigio e soddisfazione personale).

Non è vero, dunque, che solo una indistinta “collettività” sia interessata a un simile modello di sviluppo, né che il vantaggio di coloro che collaborano a progetti open source siano puramente morali, per quanto è pur vero che una libera disponibilità di opere prodotte in questo modo, che possono essere «anche di nicchia e di alta qualità, [...] risulta funzionale anche a non accentuare l’appiattimento dei gusti e della sensibilità degli utenti per effetto della continua stimolazione alle produzioni di massa».32

In un’ottica imprenditoriale, inoltre, ciò promuove «la vendita di [beni e] servizi complementari o comunque l’acquisizione della conoscenza necessaria ad ampliare la gamma dei servizi offerti o anche a raggiungere quelle fasce di domanda che si rivolgono preferibilmente ai software diffusi secondo modalità aperta».33

Proprio questo ampliamento tanto dell’offerta, quanto del mercato stesso potrebbe generare effetti benefici anche per i Paesi meno industrializzati: sebbene sia eccessivamente ottimistico pensare che in questo modo essi possano completamente recuperare il gap tecnologico che li divide dai Paesi occidentali, è ragionevole ritenere che la fornitura di prodotti basati sulla filosofia “open” possa essere loro d’aiuto nel colmarlo in parte.34

2.2.5. Il copyleft come approccio complementare al copyright

Esistono dunque esempi di aziende che, pure avendo rinunciato a una parte del controllo sulle proprie creazioni, continuano a sviluppare un modello vincente di impresa. Tutto questo non significa, evidentemente, che «la proprietà intellettuale sia meno rilevante tout court», ma che «le regole della sua gestione diventano più complesse e, in generale, più permeabili perché aumenta, grazie e a causa di Internet, la complessità dei mercati e la velocità a cui si evolvono»,35 dunque servono nuove regole (interne ed esterne) per approcciarsi efficientemente ai nuovi modelli produttivi.

Barlow è esplicito nel condannare quella che ritiene essere l’inadeguatezza delle attuali norme: «The laws regarding unlicensed reproduction of commercial software are clear and stern... and rarely observed. Software piracy laws are so practically unenforceable and breaking them has become so socially acceptable that only a thin minority appears compelled, either by fear or conscience, to obey them».36

Oggi, nonostante i sussidi garantiti alle imprese per “compensarle” dei danni subiti dalla “pirateria” non siano stati né oggetto di rinuncia da parte dei produttori di programmi informatici o di opere letterarie e artistiche, né eliminati da parte dei Governi (alcuni dei quali, anzi, hanno preferito estenderli a nuove forme di supporti),37 il fenomeno è decisamente meno tollerato dalle major, mentre resta nella società un atteggiamento di comprensione (se non addirittura di solidarietà “attiva”) nei confronti dei “pirati”.

Sempre Barlow nota che «[w]henever there is such profound divergence between the law and social practice, it is not society that adapts. [...] Part of the widespread popular disregard for commercial software copyrights stems from a legislative failure to understand the conditions into which it was inserted. To assume that systems of law based in the physical world will serve in an environment which is as fundamentally different as Cyberspace is a folly for which everyone doing business in the future will pay».38 Rileva aggiungere come un “sistema di legge” complesso e affastellato di continue aggiunte e correzioni sia ancor più inadeguato a gestire tali rapporti.39

Il copyleft appare, dunque, una soluzione praticabile (economicamente e giuridicamente) per ridurre le distorsioni dovute a interpretazioni troppo restrittive delle leggi sul copyright. È, tuttavia, sbagliato pensare che “il mercato, da solo, ha trovato un correttivo alla sfrenata corsa monopolistica verso la conquista di sempre più forti privative sulle conoscenze e sugli strumenti che consentono di accedervi. Il realismo suggerisce maggiore cautela”.40

Sussistono, in effetti, ancora ampi margini di miglioramento riguardo la fornitura dei servizi collegati. Per esempio, riferendosi al problema della produzione di documentazione e di manuali d’uso dei programmi free e open source, Stallman ammette senza mezzi termini: «The biggest deficiency in our free operating systems is [...] the lack of good free manuals that we can include in our systems. Documentation is an essential part of any software package; when an important free software package does not come with a good free manual, that is a major gap. We have many such gaps today».41

Mancanze di questo genere sono “normali” nelle comunità open source, dove spesso ci si concentra sulla più “gratificante” attività di correzione dei problemi, piuttosto che sulla lunga e tediosa stesura di documenti sul funzionamento e sul corretto uso del programma. Scelte del genere sono dovute soprattutto alla natura stessa degli aderenti a queste comunità, spesso volontari non pagati, e all’assenza strutturale di un “controllo centrale” che garantisce sì flessibilità, ma può generare meccanismi di disimpegno nei confronti delle attività noiose o a basso livello cognitivo.42

L’analisi dei costi e dei benefici, dunque, suggerisce un approccio molto più pragmatico che non consideri il copyleft come “panacea di tutti i mali” o, addirittura, come il regime che soppianterà completamente il copyright in un prossimo futuro. Soprattutto quest’ultimo, estremistico obbiettivo (come notato prima) non è nelle corde della filosofia copyleft, che peraltro rappresenta piuttosto una evoluzione del copyright verso modalità più flessibili e “liberali”.

Notano Ghidini e Falce: «In realtà, dunque, la tutela erga omnes che discende dal potere escludente del paradigma classico rappresenta l’arsenale difensivo del modello [open source], consentendo a questo di preservare la sua fisionomia tipicamente di rete di licenze volontarie[, con ciò] senza degenerare nel caos di un free riding di tutti contro tutti».43

Date queste premesse, è logico dedurne che l’adozione di un modello piuttosto che dell’altro continuerà a dipendere unicamente dalle scelte dei singoli autori, incentivati a “riappropriarsi” delle prerogative che spettano loro in quanto tali, e dei singoli consumatori, che continueranno ad avere interesse ad acquistare prodotti di qualità a prezzi competitivi.

Note

  1. M. Ricolfi, Presentazione di AA.VV., Copyright digitale, Torino, 2009, pag. 1.
  2. J.P. Barlow, “Selling Wine Without Bottles – The Economy of Mind on the Global Net”, 1992. Disponibile al sito: http://w2.eff.org/Misc/Publications/John_Perry_Barlow/HTML/idea_economy_article.html.
  3. A margine, rileva ricordare come questo arroccamento si concretizzi, fra l’altro, in quella riluttanza da parte dei Paesi industrializzati, cui si è fatto accenno nel finale del capitolo precedente, a risolvere il problema dell’esaurimento dei diritti. Riluttanza che – è necessario ripeterlo – al momento giova solo ed esclusivamente agli interessi dei Paesi industrializzati, rectius delle aziende di cui questi Paesi si fanno portavoce.
  4. A. Ardizzone, G.B. Ramello, “Diritto d’autore e mercato: effetti economici, rilievi critici e novità nell’era digitale”, in AA.VV., op. cit., pag. 24.
  5. Per “virus” si intende, in ambito informatico, un programma in grado, una volta eseguito, di infettare dei file in modo da riprodursi facendo copie di sé stesso, generalmente senza farsi rilevare dall’utente.
  6. Per “malware” si intende un programma creato con il preciso scopo di causare danni, più o meno gravi, al computer su cui viene eseguito. Il termine è una contrazione delle parole inglesi malicious (“malvagio”) e software. In italiano è detto anche “codice maligno”.
  7. I. Thomson, T. Sanders, “Virus writers exploit Sony DRM”, Vnunet.com, 10 novembre 2005. Disponibile al sito: http://www.v3.co.uk/vnunet/news/2145874/virus-writers-exploit-sony-drm.
  8. M. Russinovich, “Sony, Rootkits and Digital Rights Management Gone Too Far”, Mark’s Blog, Microsoft MSDN, 31 ottobre 2005. Disponibile al sito: http://blogs.technet.com/markrussinovich/archive/2005/10/31/sony-rootkits-and-digital-rights-management-gone-too-far.aspx.
  9. T. Sanders, “Sony rapped over music CD rootkit”, Vnunet.com, 3 novembre 2005. Disponibile al sito: http://www.v3.co.uk/vnunet/news/2145413/sony-rapped-rootkit-music-cd.
  10. M. Russinovich, “More on Sony: Dangerous Decloaking Patch, EULAs and Phoning Home”, Mark’s Blog, Microsoft MSDN, 4 novembre 2005. Disponibile al sito: http://blogs.technet.com/markrussinovich/archive/2005/11/04/more-on-sony-dangerous-decloaking-patch-eulas-and-phoning-home.aspx.
  11. T. Sanders, “Sony backs out of rootkit anti-piracy scheme”, Vnunet.com, 15 novembre 2005. Disponibile al sito: http://www.v3.co.uk/vnunet/news/2146053/sony-backs-root-kit-anti-piracy.
  12. La Federal Trade Commission costrinse nel 2007 la Sony BMG a pagare fino a 150 dollari per ogni PC danneggiato. In altri casi, il risarcimento variava dalla possibilità di scaricare prodotti gratis dal sito della casa discografica a rimborsi in denaro fino a 125 dollari.
  13. J.A. Halderman, E.W. Felten, Lessons from the Sony CD DRM Episode, Center for Information Technology Policy, Department of Computer Science, Princeton University, 14 febbraio 2006. Disponibile al sito: http://www.copyright.gov/1201/2006/hearings/sonydrm-ext.pdf.
  14. Cfr. A. Ardizzone, G.B. Ramello, op. cit., pag. 11.
  15. A. Ardizzone, G.B. Ramello, op. cit., pagg. 11-12.
  16. L. Lessig, Cultura libera, Milano, 2005, pag. 16.
  17. A. Ardizzone, G.B. Ramello, op. cit., pagg. 12-13.
  18. L. Lessig, op. cit., pag. 50.
  19. Cfr. L. Lessig, op. cit., pag. 51.
  20. È il caso del documentarista Jon Else, che si è visto negare dalla Fox il permesso all’utilizzo di un frammento di 4,5 secondi(!) della serie animata I Simpson, incidentalmente registrato durante le riprese di un documentario, nonostante teoricamente si potesse fare ricorso all’eccezione del c.d. fair use prevista dall’ordinamento statunitense. La circostanza è citata in Lessig, op. cit., pagg. 47-49.
  21. E. Christman, “2009 Sales Wrap: Transactions Up As Digital Growth Slows”, Billboard, 6 gennaio 2010. Disponibile al sito: http://www.billboard.biz/bbbiz/content_display/industry/e3ib067cb2aa5cb826b34641dba4e3f0c59.
  22. A. Ardizzone, G.B. Ramello, op. cit., pag. 15.
  23. È il caso della World Cinema Foundation, fondata nel 2007 dal celebre regista Martin Scorsese, il cui intento è usare la notorietà dei registi affermati «per far pressione sugli studios, ottenere i diritti dei film, oltre che trovare quei capitali e quegli sponsor necessari ai costosi progetti di restauro» di pellicole prodotte principalmente nei Paesi in via di sviluppo, dove mancano fondi e progetti adeguati alla loro tutela. Cfr. G. Manin, “Scorsese: lotto per i film dimenticati”, Corriere della Sera, 23 maggio 2007. Disponibile al sito: http://archiviostorico.corriere.it/2007/maggio/23/Scorsese_lotto_per_film_dimenticati_co_9_070523008.shtml.
  24. “Digital Music Increases Share of Overall Music Sales Volume in the U.S.”, The NPD Group, 18 agosto 2009. Disponibile al sito: http://www.npd.com/press/releases/press_090818.html.
  25. A. Ardizzone, G.B. Ramello, op. cit., pag. 19.
  26. L. Lessig, op. cit., pag. 91.
  27. L. Lessig, op. cit., pag. 92.
  28. Un’analisi interessante del “caso IBM” è rintracciabile in D. Tapscott, A.D. Williams, Wikinomics, Milano, 2007, pagg. 83-91.
  29. Per “software di produttività personale” si intende un pacchetto di programmi che permettono di creare documenti di testo, fogli di calcolo, grafici, presentazioni o altri contenuti (per esempio, i “proprietari” Microsoft Office e iWork, oppure il pacchetto open source OpenOffice.org).
  30. In particolare, vennero usate due licenze libere: la Lesser General Public License, che sarà analizzata più in avanti, e la Sun Industry Standards Source License, creata dalla stessa Sun e che fu poi ritirata nel 2005.
  31. Dati aggiornati all’8 febbraio 2010, disponibili al sito: http://wiki.services.openoffice.org/wiki/Market_Share_Analysis.
  32. A. Ardizzone, G.B. Ramello, op. cit., pag. 20.
  33. G. Ghidini, V. Falce, “Open source, General Public Licence e incentivo all’innovazione”, in L.C. Ubertazzi (a cura di), op. cit., pag. 7. In tal senso, cfr. anche M. Bertani, op. cit., pagg. 38-40.
  34. Peraltro, rileva notare come questi prodotti possano, in un certo senso, aiutare i Paesi occidentali a rispettare quegli impegni di natura pattizia che essi stessi hanno sottoscritto nei confronti dei PVS – come, per esempio, quelli sulla promozione e incoraggiamento dei trasferimenti di tecnologia (art. 66, par. 2 TRIPs) e sulla cooperazione tecnica ed economica (art. 67 TRIPs).
  35. L. Benussi, “Sulla natura economica della creatività digitale ovvero sul perché sia essenziale condividere e riutilizzare informazioni digitali”, in AA.VV., op. cit., pag. 39.
  36. J.P. Barlow, op. cit.
  37. È il caso, per esempio, del recente decreto del Governo italiano che aumenta le c.d. “misure di compenso per copia privata”, ovvero le imposte gravanti sui supporti analogici e digitali intesi alla registrazione di materiali audio e/o video (musicassette, videocassette, CD, DVD, Blu-ray disk, etc.), e che le estende anche alle periferiche di archiviazione di massa (chiavette USB, hard disk esterni o integrati in telefoni cellulari o lettori multimediali o simili). Il provvedimento del Ministero dei Beni Culturali è disponibile al sito: http://www.beniculturali.it/mibac/multimedia/MiBAC/documents/1263481888506_d1.pdf.
  38. J.P. Barlow, op. cit.
  39. È il caso dell’ordinamento italiano e in particolar modo della legge 22 aprile 1941, n. 633, impietosamente analizzata e dovutamente criticata da C. Blengino, “La tutela penale del copyright digitale: un’onda confusa e asincrona”, in AA.VV., op. cit., pagg. 69 e segg. Da notare come, al momento, non esista una versione consolidata ufficiale della legge citata, nonostante le modifiche succedutesi dal 2004 a oggi.
  40. V. Zeno-Zencovich, P. Sammarco, “Sistema e archetipi delle licenze open source”, in L.C. Ubertazzi (a cura di), op. cit., pagg. 267-268.
  41. R. Stallman, The GNU Project, Free Software Foundation (ultimo aggiornamento: 11 gennaio 2010). Disponibile al sito: http://www.gnu.org/gnu/thegnuproject.html.
  42. Un’analisi più generale sui meccanismi interni alle comunità free software/open source, cfr. D. Tapscott, A.D. Williams, op. cit., pagg. 311-337. Per una critica sui difetti di queste comunità, invece, cfr. G. Sanseverino, op. cit., pagg. 36-39.
  43. G. Ghidini, V. Falce, op. cit., pag. 11.