La vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze/Libro primo/Capitolo LX

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Libro primo
Capitolo LX

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Abbattessi ad essere fatto legato di Parma quel ditto cardinale Salviati, il quale aveva meco quel grande odio sopraditto. In Parma fu preso un certo orefice milanese falsatore di monete, il quali per nome si domandava Tobbia. Essendo giudicato alla forca e al fuoco, ne fu parlato al ditto Legato, messogli innanzi per gran valente uomo. Il ditto Cardinale fece sopratenere la eseguizione della giustizia, e scrisse a papa Clemente, dicendogli essergli capitato in nelle mane uno uomo il maggior del mondo della professione de l’oreficeria, e che di già gli era condennato alle forche e al fuoco, per essere lui falsario di monete; ma che questo uomo era simplice e buono, perché diceva averne chiesto parere da un suo confessoro, il quale, diceva, che gnene aveva dato licenzia che le potessi fare. Di piú diceva: - Se voi fate venire questo grande uomo a Roma, Vostra Santità sarà causa di abbassare quella grande alterigia del vostro Benvenuto, e sono certissimo che le opere di questo Tobbia vi piaceranno molto piú che quelle di Benvenuto -. Di modo che il Papa lo fece venire subito a Roma. E poi che fu venuto, chiamatici tutti a dua, ci fece fare un disegno per uno a un corno di liocorno il piú bello che mai fusse veduto: si era venduto diciassette mila ducati di Camera. Volendolo il Papa donare a il re Francesco, lo volse in prima guarnire riccamente d’oro, e commesse a tutti a dua noi che facessimo i detti disegni. Fatti che noi gli avemmo, ciascun di noi il portò al Papa. Era il disegno di Tubbia affoggia di un candegliere, dove, a guisa della candela, si imboccava quel bel corno, e del piede di questo ditto candegliere faceva quattro testoline di liocorno con semplicissima invenzione: tanto che quando tal cosa io vidi, non mi potetti tenere che in un destro modo io non sogghignassi. Il Papa s’avvide e subito disse: - Mostra qua il tuo disegno, - il quale era una sola testa di liocorno, a conrispondenza di quel ditto corno. Avevo fatto la piú bella sorte di testa che veder si possa; il perché si era, che io avevo preso parte della fazione della testa del cavallo e parte di quella del cervio, arricchita con la piú bella sorte di velli e altre galanterie, tale che, subito che la mia si vide, ogniuno gli dette il vanto. Ma perché alla presenza di questa disputa era certi milanesi di grandissima autorità, questi dissono: - Beatissimo Padre, Vostra Santità manda a donare questo gran presente in Francia: sappiate che i Franciosi sono uomini grossi, e non cognosceranno l’eccellenzia di questa opera di Benvenuto; ma sí bene piacerà loro questi ciborii, li quali ancora saranno fatti piú presto; e Benvenuto vi attenderà a finire il vostro calice, e verravi fatto dua opere in un medesimo tempo; e questo povero uomo, che voi avete fatto venire, verrà ancora lui ad essere adoperato -. Il Papa, desideroso di avere il suo calice, molto volentieri s’appiccò al consiglio di quei milanesi: cosí l’altro giorno dispose quella opera a Tubbia di quel corno di liocorno, e a me fece intendere per il suo guardaroba che io dovessi finirgli il suo calice. Alle qual parole io risposi, che non desideravo altro al mondo che finire quella mia bella opera; ma che se la fossi d’altra materia che d’oro, io facilissimamente da per me la potrei finire; ma per essere a quel modo d’oro, bisognava che Sua Santità me ne dessi, volendo che io la potessi finire. A questo parole questo cortigiano plebeo disse: - Oimè, non chiedere oro al Papa, che tu lo farai venire in tanta còllora, che guai, guai a te -. Al quale io dissi: - O misser voi, la Signoria vostra, insegnatemi un poco come sanza farina si può fare il pane? cosí sanza oro mai si finirà quell’opera -. Questo guardaroba mi disse, parendogli alquanto che io lo avessi uccellato, che tutto quello che io avevo ditto riferirebbe al Papa; e cosí fece. Il Papa, entrato in un bestial furore, disse che voleva stare a vedere se io ero un cosí pazzo che io non la finissi. Cosí si stette dua mesi passati e se bene io avevo detto di non vi voler dar su colpo, questo non avevo fatto, anzi continuamente io avevo lavorato con grandissimo amore. Veduto che io non la portavo, mi cominciò a disfavorire assai, dicendo che mi gastigherebbe a ogni modo. Era alla presenza di queste parole uno milanese suo gioielliere. Questo si domandava Pompeo, il quale era parente stretto di un certo misser Traiano, il piú favorito servitore che avessi papa Clemente. Questi dua d’accordo dissono al Papa: - Se Vostra Santità gli togliessi la zecca, forse voi gli faresti venir voglia di finire il calice -. Allora il Papa disse: - Anzi sarebbon dua mali: l’uno, che io sarei mal servito della zecca che m’importa tanto; e l’altro, che certissimo io non arei mai il calice -. Questi dua detti milanesi, veduto il Papa mal voIto inverso di me, a l’ultimo possetton tanto, che pure mi tolse la zecca, e la dette a un certo giovane perugino, il quale si domandava Fagiuolo per soprannome. Venne quel Pompeo a dirmi da parte del Papa, come Sua Santità mi aveva tolto la zecca, e che se io non finivo il calice mi torrebbe de l’altre cose. A questo io risposi: - Dite a Sua Santità che la zecca e’ l’ha tolta a sé e non a me, e quel medesimo gli verrebbe fatto di quell’altre cose; e che quando Sua Santità me la vorrà rendere, io in modo nessuno non la rivorrò -. Questo isgraziato e sventurato gli parve mill’anni di giungere dal Papa per ridirgli tutte queste cose, e qualcosa vi messe di suo di bocca. Ivi a otto giorni mandò il Papa per questo medesimo uomo dirmi che non voleva piú che io gli finissi quel calice, e che lo rivoleva appunto in quel modo e a quel termine che io l’avevo condotto. A questo Pompeo io risposi: - Questa non è come la zecca, che me la possa tòrre; ma sí ben e’ cinquecento scudi, che io ebbi, sono di Sua Santità, i quali subito gli renderò: e l’opera è mia, e ne farò quanto m’è di piacere -. Tanto corse a riferir Pompeo, con qualche altra mordace parola, che a lui stesso con giusta causa io avevo detto.