La vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze/Libro primo/Capitolo LXXII

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Libro primo
Capitolo LXXII

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In questo mezzo il Papa si ammalò; e, giudicando i medici che ’l male fussi pericoloso, quel mio avversario, avendo paura di me, commise a certi soldati napoletani che facessino a me quello che lui aveva paura che io non facessi allui. Però ebbi molte fatiche a difendere la mia povera vita. Seguitando fini’ il rovescio afatto: portatolo su al Papa, lo trovai nel letto malissimo condizionato. Con tutto questo egli mi fece gran carezze, e volse veder le medaglie e e’ conii; e faccendosi dare occhiali e lumi, in modo alcuno non iscorgeva nulla. Si messe a brancolarle alquanto con le dita; di poi fatto cosí un poco, gittò un gran sospiro e disse a certi che gl’incresceva di me, ma che se Idio gli rendeva la sanità, acconcerebbe ogni cosa. Da poi tre giorni il Papa morí, e io, trovatomi aver perso le mie fatiche, mi feci di buono animo, e dissi a me stesso che mediante quelle medaglie io m’ero fatto tanto cognoscere, che da ogni papa, che venissi, io sarei adoperato forse con miglior fortuna. Cosí da me medesimo mi missi animo, cancellando in tutto e per tutto le grande ingiurie che mi aveva fatte Pompeo; e missomi l’arme indosso e accanto, me ne andai a San Piero, baciai li piedi al morto Papa non sanza lacrime; di poi mi ritornai in Banchi a considerare la gran confusione che avviene in cotai occasione. E in mentre che io mi sedeva in Banchi con molti mia amici, venne a passare Pompeo in mezzo a dieci uomini benissimo armati; e quando egli fu a punto a rincontro dove io era, si fermò alquanto in atto di voler quistione con esso meco. Quelli ch’erano meco, giovani bravi e volontoriosi, accennatomi che io dovessi metter mano, alla qual cosa subito considerai, che se io mettevo mano alla spada, ne sarebbe seguito qualche grandissimo danno in quelli che non vi avevano una colpa al mondo; però giudicai che e’ fussi il meglio, che io solo mettessi a ripintaglio la vita mia. Soprastato che Pompeo fu del dir dua Avemarie, con ischerno rise inverso di me; e partitosi, quelli sua anche risono scotendo il capo; e con simili atti facevano molte braverie: quelli mia compagni volson metter mano alla quistione; ai quali io adiratamente dissi, che le mie brighe io ero uomo da per me a saperle finire, che io non avevo bisogno di maggior bravi di me; sí che ognun badassi al fatto suo. Isdegnati quelli mia amici si partirno da me brontolando. In fra questi era il piú caro mio amico, il quale aveva nome Albertaccio del Bene, fratel carnale di Alessandro e di Albizzo, il quale è oggi in Lione grandissimo ricco. Era questo Albertaccio il piú mirabil giovane che io cognoscessi mai, e il piú animoso, e a me voleva bene quanto a sé medesimo; e perché lui sapeva bene che quello atto di pazienzia non era stato per pusillità d’animo, ma per aldacissima bravuria, che benissimo mi conosceva, e replicato alle parole, mi pregò che io gli facessi tanta grazia di chiamarlo meco a tutto quel che io avessi animo di fare. Al quale io dissi: - Albertaccio mio, sopra tutti gli altri carissimo; ben verrà tempo che voi mi potrete dare aiuto; ma in questo caso, se voi mi volete bene, non guardate a me, e badate al fatto vostro, e levatevi via presto sí come hanno fatto gli altri, perché questo non è tempo da perdere -. Queste parole furno dette presto.