La vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze/Libro primo/Capitolo LXXVI

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Libro primo
Capitolo LXXVI

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Io giunsi a Firenze, e feci motto al duca Lessandro, il quale mi fece maravigliose carezze, e mi ricercò che io mi dovessi restar seco. E perché in Firenze era un certo scultore chiamato il Tribolino, ed era mio compare, per avergli io battezzato un suo figliuolo, ragionando seco, mi disse che uno Iacopo del Sansovino, già primo suo maestro, lo aveva mandato a chiamare; e perché lui non aveva mai veduto Vinezia, e per il guadagno che ne aspettava, ci andava molto volentieri; e domandando me se io avevo mai veduto Vinezia, dissi che no; onde egli mi pregò che io dovessi andar seco a spasso; al quale io promessi: però risposi al duca Lessandro che volevo prima andare insino a Vinezia, di poi tornerei volentieri a servirlo; e cosí volse che io gli promettessi, e mi comandò che inanzi che io mi partissi io gli facessi motto. L’altro dí appresso, essendomi messo in ordine, andai per pigliare licenza dal Duca; il quale io trovai innel palazzo de’ Pazzi, innel tempo che ivi era alloggiato la moglie e le figliuole del signor Lorenzo Cibo. Fatto intendere a Sua Eccellenzia come io volevo andare a Vinezia con la sua buona grazia, tornò con la risposta Cosimino de’ Medici, oggi Duca di Firenze, il quale mi disse che io andassi a trovare Nicolò da Monte Aguto, e lui mi darebbe cinquanta scudi d’oro, i quali danari mi donava la Eccellenzia del Duca, che io me gli godessi per suo amore; di poi tornassi a servirlo. Ebbi li danari da Nicolò, e andai a casa per il Tribolo, il quale era in ordine; e mi disse se io avevo legato la spada. Io li dissi che chi era a cavallo per andare in viaggio non doveva legar le spade. Disse che in Firenze si usava cosí, perché v’era un certo ser Maurizio, che per ogni piccola cosa arebbe dato della corda a San Giovanbatista; però bisognava portar le spade legate per insino fuor della porta. Io me ne risi, e cosí ce ne andammo. Accompagnammoci con il procaccia di Vinezia, il quale si chiamava per sopra nome Lamentone: con esso andammo di compagnia, e passato Bologna una sera in fra l’altre arrivammo a Ferrara; e quivi alloggiati a l’osteria di Piazza, il detto Lamentone andò a trovare alcuno de’ fuora usciti, a portar loro lettere e imbasciate da parte della loro moglie: che cosí era di consentimento del Duca, che solo il procaccio potessi parlar loro, e altri no, sotto pena della medesima contumazia in che loro erano. In questo mezzo, per essere poco piú di ventidua ore, noi ce ne andammo, il Tribulo e io, a veder tornare il duca di Ferrara, il quale era ito a Belfiore a veder giostrare. Innel suo ritorno noi scontrammo molti fuora usciti, e’ quali ci guardavano fiso, quasi isforzandoci di parlar con esso loro. Il Tribolo, che era il piú pauroso uomo che io cognoscessi mai, non cessava di dirmi: - Non gli guardare e non parlare con loro, se tu vuoi tornare a Firenze -. Cosí stemmo a veder tornare il Duca; di poi tornaticene a l’osteria, ivi trovammo Lamentone. E fattosi vicina a un’ora di notte, ivi comparse Nicolò Benintendi e Piero suo fratello, e un altro vecchione, qual credo che fussi Iacopo Nardi, insieme con parecchi altri giovani; e’ quali subito giunti dimandavano il procaccia, ciascuno delle sue brigate di Firenze: il Tribolo e io stavamo là discosto, per non parlar con loro. Di poi che gl’ebbono ragionato un pezzo con Lamentone, quel Nicolò Benintendi disse: - Io gli cognosco quei dua benissimo; perché fann’eglino tante merde di non ci voler parlare? - Il Tribolo pur mi diceva che io stessi cheto. Lamentone disse loro, che quella licenzia che era data allui, non era data a noi. Il Benintendi aggiunse e disse che l’era una asinità, mandandoci cancheri e mille belle cose. Allora io alzai la testa con piú modestia che io potevo e sapevo, e dissi: - Cari gentiluomini, voi ci potete nuocere assai, e noi a voi non possiamo giovar nulla; e con tutto che voi ci abiate detto qualche parola la quale non ci si conviene, né anche per questo non vogliamo essere adirati con esso voi -. Quel vecchione de’ Nardi disse che io avevo parlato da un giovane da bene, come io ero. Nicolò Benintendi allora disse: - Io ho in culo loro e il Duca -. Io replicai, che con noi egli aveva torto, che non avevàno che far nulla de’ casi sua. Quel vecchio de’ Nardi la prese per noi, dicendo al Benintendi che gli aveva il torto; onde lui pur continuava di dire parole ingiuriose. Per la qualcosa io li dissi che io li direi e farei delle cose che gli dispiacerebbono; sí che attendessi al fatto suo, e lasciassici stare. Rispose che aveva in culo il Duca e noi di nuovo, e che noi e lui eramo un monte di asini. Alle qual parole mentitolo per la gola, tirai fuora la spada; e ’l vecchio, che volse essere il primo alla scala, pochi scaglioni in giú cadde, e loro tutti l’un sopra l’altro addòssogli. Per la qual cosa, io saltato inanzi, menavo la spada per le mura con grandissimo furore, dicendo: - Io vi ammazzerò tutti - e benissimo avevo riguardo a non far lor male, che troppo ne arei potuto fare. A questo romore l’oste gridava; Lamenton diceva - Non fate - alcuni di loro dicevano - Oimè il capo! - altri - Lasciami uscir di qui -. Questa era una bussa inistimabile: parevano un branco di porci: l’oste venne col lume; io mi ritirai sú e rimessi la spada. Lamentone diceva a Nicolò Benintendi, che gli aveva mal fatto; l’oste disse a Nicolò Benintendi: - E’ ne va la vita a metter mano per l’arme qui, e se il Duca sapessi queste vostre insolenzie, vi farebbe appiccare per la gola; sí che io non vi voglio fare quello che voi meriteresti; ma non mi ci capitate mai piú in questa osteria, che guai a voi -. L’oste venne sú da me, e volendomi io scusare, non mi lasciò dire nulla, dicendomi che sapeva che io avevo mille ragioni, e che io mi guardassi bene innel viaggio da loro.