La vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze/Libro primo/Capitolo LXXXIII

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Libro primo
Capitolo LXXXIII

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Tornatomi a riposare, mi senti’ forte travagliato, né mai possetti rappiccar sonno. Avevo fatto proposito che, come gli era giorno, di farmi trar sangue; però ne presi consiglio da misser Giovanni Gaddi, e lui da un suo mediconzolo, il quale mi domandò se io avevo aùto paura. Or cognoscete voi che giudizio di medico fu questo, avendogli conto un caso sí grande, e lui farmi una tal dimanda! Questo era un certo civettino, che rideva quasi continuamente e di nonnulla; e in quel modo ridendo, mi disse che io pigliassi un buon bicchier di vin greco, e che io attendessi a stare allegro e non aver paura. Messer Giovanni pur diceva: - Maestro, chi fussi di bronzo o di marmo a questi casi tali arebbe paura; or maggiormente uno uomo -. A questo quel mediconzolino disse: - Monsignore, noi non siamo tutti fatti a un modo: questo non è uomo né di bronzo né di marmo, ma è di ferro stietto - e messomi le mane al polso, con quelle sua sproposite risa, disse a messer Giovanni: - Or toccate qui; questo non è polso di uomo, ma è d’un leone o d’un dragone - onde io, che avevo il polso forte alterato, forse fuor di quella misura che quel medico babbuasso non aveva imparata né da Ipocrate né da Galeno, sentivo ben io il mio male, ma per non mi far piú paura né piú danno di quello che aùto io avevo, mi dimostravo di buono animo. In questo tanto il ditto messer Giovanni fece mettere in ordine da desinare, e tutti di compagnia mangiammo: la quale era, insieme con il ditto messer Giovanni, un certo misser Lodovico da Fano, messer Antonio Allegretti, messer Giovanni Greco, tutte persone litteratissime, messer Annibal Caro, quale era molto giovane; né mai si ragionò d’altro a quel desinare, che di questa brava faccenda. E piú la facevan contare a quel Cencio, mio servitorino, il quale era oltramodo ingegnoso, ardito e bellissimo di corpo: il che tutte le volte che lui contava questa mia arrabbiata faccenda, facendo l’attitudine che io faceva, e benissimo dicendo le parole ancora che io dette aveva, sempre mi sovveniva qualcosa di nuovo; e spesso loro lo domandavano se egli aveva aùto paura: alle qual parole lui rispondeva, che dimandassino me se io avevo aùto paura; perché lui aveva aùto quel medesimo che avevo aùto io. Venutomi a noia questa pappolata, e perché io mi sentivo alterato forte, mi levai da tavola, dicendo che io volevo andare a vestirmi di nuovo di panni e seta azzurri, lui e io; che volevo andare in processione ivi a quattro giorni, che veniva le Sante Marie, e volevo il ditto Cencio mi portassi il torchio bianco acceso. Cosí partitomi andai a tagliare e’ panni azzurri con una bella vestetta di ermisino pure azzurro e un saietto del simile; e allui feci un saio e una vesta di taffettà, pure azzurro. Tagliato che io ebbi le ditte cose, io me ne andai dal Papa; il quale mi disse che io parlassi col suo messer Ambruogio; che aveva dato ordine che io facessi una grande opera d’oro. Cosí andai a trovare misser Ambruogio; il quale era informato benissimo della cosa del bargello, e era stato lui d’accordo con i nimici mia per farmi tornare, e aveva isgridato il bargello che non mi aveva preso; il qual si scusava, che contra a uno salvo condotto a quel modo lui non lo poteva fare. Il ditto messer Ambruogio mi cominciò a ragionare della faccenda che gli aveva commesso il Papa; di poi mi disse che io ne facessi i disegni e che si darebbe a ogni cosa. Intanto ne venne il giorno delle Sante Marie; e perché l’usanza si è, quelli che hanno queste cotai grazie, di costituirsi in prigione; per la qual cosa io mi ritornai al Papa e dissi a Sua Santità, che io non mi volevo mettere in prigione e che io pregavo quella, che mi facessi tanto di grazia, che io non andassi prigione. Il Papa mi rispose che cosí era l’usanza, e cosí si facessi. A questo io m’inginocchiai di nuovo, e lo ringraziai del salvo condotto che Sua Santità mi aveva fatto; e che con quello me ne ritornerei a servire il mio Duca di Firenze, che con tanto desiderio mi aspettava. A queste parole il Papa si volse a un suo fidato e disse: - Faccisi a Benvenuto la grazia senza il carcere; cosí se gli acconci il suo moto propio, che stia bene -. Fattosi acconciare il moto propio, il Papa lo risegnò: fecesi registrare al Campidoglio; di poi, quel deputato giorno, in mezzo a dua gentiluomini molto onoratamente andai in processione, ed ebbi la intera grazia.