La vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze/Libro primo/Capitolo XCV

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Libro primo
Capitolo XCV

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Presi il cammino per terra di Grigioni, perché altro cammino non era sicuro, rispetto alle guerre. Passammo le montagne dell’Alba e della Berlina: era agli otto dí di maggio ed era la neve grandissima. Con grandissimo pericolo della vita nostra passammo queste due montagne. Passate che noi le avemmo, ci fermammo a una terra la quale, se ben mi ricordo, si domanda Valdistà: quivi alloggiammo. La notte vi capitò un corriere fiorentino, il quale si domandava il Busbacca. Questo corriere io l’avevo sentito ricordare per uomo di credito e valente nella sua professione, e non sapevo che gli era scaduto, per le sue ribalderie. Quando e’ mi vedde all’osteria, lui mi chiamò per nome, e mi disse che andava per cose d’inportanza a Lione, e che di grazia io gli prestassi dinari per il viaggio. A questo io dissi, che non avevo danari da potergli prestare, ma che volendo venir meco di compagnia io gli farei le spese insino a Lione. Questo ribaldo piagneva e facevami le belle lustre dicendomi, come - per e’ casi d’importanza della nazione essendo mancato danari a un povero corrieri, un par vostro è ubbrigato a ’iutarlo - e di piú mi disse che portava cose di grandissima importanza di messer Filippo Strozzi: e perché gli aveva una guaina d’un bicchiere coperta di cuoio, mi disse innell’orecchio, che in quella guaina era un bicchier d’argento, e che in quel bicchiere era gioie di valore di molte migliaia di ducati, e che e’ v’era lettere di grandissima importanza, le quali mandava messer Filippo Strozzi. A questo io dissi a lui, che mi lasciassi rinchiuder le gioie a dosso a lui medesimo, le quali porterebbon manco pericolo che a portarle in quel bicchiere; e che quel bicchiere lasciassi a me, il quale poteva valere dieci scudi incirca, e io lo servirei di venticinque. A queste parole il corrier disse, che se ne verrebbe meco, non potento far altro, perché lasciando quel bicchiere non gli sarebbe onore. Cosí la mozzammo; e la mattina partendoci arrivammo a un lago, che è in fra Valdistate e Vessa; questo lago è lungo quindici miglia, dove e s’arriva a Vessa. Veduto le barche di questo lago, io ebbi paura; perché le dette barche son d’abete, non molto grande e non molto grosse, e non son confitte, né manco impeciate; e se io non vedevo entrare in un’altra simile quattro gentiluomini tedeschi con i loro cavagli, io non entravo mai in questa; anzi mi sarei piú presto tornato addietro; ma io mi pensai, alle bestialità che io vedevo fare a coloro, che quelle acque tedesche non affogassino, come fanno le nostre della Italia. Quelli mia dua giovani mi dicevano pure: - Benvenuto, questa è una pericolosa cosa a entrarci drento con quattro cavalli -. A e’ quali io dicevo: - Non considerate voi, poltroni, che quei quattro gentiluomini sono entrati innanzi a noi, e vanno via ridendo? Se questo fussi vino, come l’è acqua, io direi che lor vanno lieti per affogarvi drento; ma perché l’è acqua, io so ben che e’ non hanno piacere d’affogarvi, sí ben come noi -. Questo lago era lungo quindici miglia e largo tre in circa; da una banda era un monte altissimo e cavernoso, dall’altra era piano e erboso. Quando noi fummo drento in circa quattro miglia, il ditto lago cominciò a far fortuna, di sorte che quelli che vogavano ci chiedevano aiuto che noi gli aiutassimo vogare; cosí facemmo un pezzo. Io accennavo, e dicevo che ci gettassino a quella proda di là; lor dicevano non esser possibile, perché non v’è acqua che sostenessi la barca, e che e’ v’è certe secche, per le quale la barca subito si disfarebbe e annegheremmo tutti, e pure ci sollecitavano che noi aiutassimo loro. E’ barcheriuoli si chiamavano l’un l’altro, chiedendosi aiuto. Vedutogli io sbigottiti, avendo un caval savio gli acconciai la briglia al collo e presi una parte della cavezza con la man mancina. Il cavallo che era, sí come sono, con qualche intelligenza, pareva che si fussi avveduto quel che io volevo fare, che avendogli volto il viso in verso quell’erba fresca, volevo che, notando, ancora me istrascicassi seco. In questo venne una onda sí grande da quel lago, che la soprafece la barca. Ascanio gridando: - Misericordia, padre mio, aiutatemi - mi si volse gittare addosso; il perché io messi mano al mio pugnaletto, e gli dissi che facessino quel che io avevo insegnato loro, perché i cavagli salverebbon lor la vita sí bene, com’io speravo camparla ancora io per quella via; e se piú e’ mi si gittassi addosso, io l’ammazzerei. Cosí andammo innanzi parecchi miglia con questo mortal pericolo.