La vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze/Libro primo/Capitolo XCVI

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Libro primo
Capitolo XCVI

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Quando noi fummo a mezzo il lago, noi trovammo un po’ di piano da poterci riposare, e in su questo piano viddi ismontato quei quattro gentiluomini tedeschi. Quando noi volemmo ismontare, il barcherolo non voleva per niente. Allora io dissi a’ mia giovani: - Ora è tempo a far qualche pruova di noi: sí che mettete mano alle spade, e facciàno che per forza e’ ci mettino in terra -. Cosí facemmo con gran difficultà, perché lor fecion grandissima resistenza. Pure messi che noi fummo in terra, bisognava salire due miglia su per quel monte, il quale era piú difficile che salire su per una scala a piuoli. Io ero tutto armato di maglia con istivali grossi e con uno scoppietto in mano, e pioveva quanto Idio ne sapeva mandare. Quei diavoli di quei gentiluomini tedeschi con quei lor cavalletti a mano facevano miracoli, il perché i nostri cavagli non valevano per questo effetto, e crepavamo di fatica a farli salire quella difficil montagna. Quando noi fummo in su un pezzo, il cavallo d’Ascanio, che era un cavall’unghero mirabilissimo, questo era innanzi un pochetto al Busbacca corriere, e ’l ditto Ascanio gli aveva dato la sua zagaglia, che gliene aiutassi portare; avvenne che per e’ cattivi passi quel cavallo isdrucciolò e andò tanto barcollone, non si potendo aiutare, che percosse in su la punta della zagaglia di quel ribaldo di quel corriere, che non l’aveva saputa iscansare; e passata al cavallo la gola a banda a banda, quell’altro mio garzone, volendo aiutare ancora il suo cavallo, che era un caval morello, isdrucciolò inverso il lago e s’attenne a un respo, il qual era sottilissimo. In su questo cavallo era un paio di bisacce, nelle quali era drento tutti e’ mia danari con ciò che io avevo di valore: dissi al giovane che salvassi la sua vita, e lasciassi andare il cavallo in malora: la caduta si era piú d’un miglio e andava a sottosquadro e cadeva nel lago. Sotto questo luogo a punto era fermato quelli nostri barcheruoli; a tale che se il cavallo cadeva, dava loro a punto addosso. Io era innanzi a tutti e stavamo a vedere tombolare il cavallo, il quale pareva che andassi al sicuro in perdizione. In questo io dicevo a’ mia giovani: - Non vi curate di nulla, salvianci noi e ringraziamo Idio d’ogni cosa; a me mi sa solamente male di questo povero uomo del Busbacca, che ha legato il suo bicchiere e le sue gioie, che son di valore di parecchi migliaia di ducati, all’arcione di quel cavallo, pensando quell’essere piú sicuro: e mia son pochi cento di scudi, e non ho paura di nulla al mondo, purché io abbia la grazia de Dio -. Il Busbacca allora disse: - E’ non m’incresce de’ mia, ma e m’incresce ben de’ vostri -. Dissi a lui: - Perché t’incresc’egli de’ mia pochi, e non t’incresce de’ tua assai? - Il Busbacca disse allora: - Dirovelo in nel nome di Dio: in questi casi e ne’ termini che noi siamo, bisogna dire il vero. Io so che i vostri sono iscudi, e son da dovero; ma quella mia vesta di bicchiere, dove io ho detto esser tante gioie e tante bugie, è tutta piena di caviale -. Sentendo questo io non possetti fare che io non ridessi: quei mia giovani risono; lui piagneva. Quel cavallo si aiutò, quando noi l’avevamo fatto ispacciato. Cosí ridendo ripigliammo le forze e mettemmoci a seguitare il monte. Quelli quattro gentiluomini tedeschi, ch’erono giunti prima di noi in cima di quella ripida montagna, ci mandorno alcune persone, le quali ci aiutorno; tanto che noi giugnemmo a quel salvatichissimo alloggiamento: dove, essendo noi molli, istracchi e affamati, fummo piacevolissimamente ricevuti; e ivi ci rasciugammo, ci riposammo, sodisfacemmo alla fame e con certe erbacce fu medicato il cavallo ferito; e ci fu insegnato quella sorte d’erbe, le quali n’era pieno la siepe, e ci fu detto, che tenendogli continuamente la piaga piena di quell’erbe, il cavallo non tanto guarirebbe, ma ci servirebbe come se non avessi un male al mondo: tanto facemmo. Ringraziato i gentiluomini, e noi molto ben ristorati, di quivi ci partimmo e passammo innanzi, ringraziando Idio, che ci aveva salvati da quel gran pericolo.