La vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze/Libro primo/Capitolo XIII

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Libro primo
Capitolo XIII

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Ora torniamo a Piero Torrigiani, che con quel mio disegno in mano disse cosí: - Questo Buonaarroti e io andavamo a ’mparare da fanciulletti innella chiesa del Carmine, dalla cappella di Masaccio: e perché il Buonaarroti aveva per usanza di ucellare tutti quelli che disegnavano, un giorno in fra gli altri dandomi noia il detto, mi venne assai piú stizza che ’l solito, e stretto la mana gli detti sí grande il pugno in sul naso, che io mi senti’ fiaccare sotto il pugno quell’osso e tenerume del naso, come se fosse stato un cialdone: e cosí segnato da me ne resterà insin che vive -. Queste parole generorono in me tanto odio, perché vedevo continuamente i fatti del divino Michelagnolo, che non tanto ch’a me venissi voglia di andarmene seco in Inchilterra, ma non potevo patire di vederlo.

Attesi continuamente in Firenze a imparare sotto la bella maniera di Michelagnolo, e da quella mai mi sono ispiccato. In questo tempo presi pratica e amicizia istrettissima con uno gentil giovanetto di mia età, il quale ancora lui stava allo orefice. Aveva nome Francesco, figliuolo di Filippo di fra Filippo eccellentissimo pittore. Nel praticare insieme generò in noi un tanto amore, che mai né dí né notte stavamo l’uno senza l’atro: e perché ancora la casa sua era piena di quelli belli studii che aveva fatto il suo valente padre, i quali erano parecchi libri disegnati di sua mano, ritratti dalle belle anticaglie di Roma; la qual cosa, vedendogli, mi innamororno assai; e dua anni in circa praticammo insieme. In questo tempo io feci una opera di ariento di basso rilievo, grande quanta è una mana di un fanciullo piccolo. Questa opera serviva per un serrame per una cintura da uomo, che cosí grandi alora si usavono. Era intagliato in esso un gruppo di fogliame fatto all’antica, con molti puttini e altre bellissime maschere. Questa tale opera io la feci in bottega di uno chiamato Francesco Salinbene. Vedendosi questa tale opera per l’arte degli orefici, mi fu dato vanto del meglio giovane di quella arte. E perché un certo Giovanbatista, chiamato il Tasso, intagliatore di legname, giovane di mia età a punto, mi cominciò a dire che, se io volevo andare a Roma, volentieri insieme ne verrebbe meco - questo ragionamento che noi avemmo insieme fu poi il desinare a punto - e per essere per le medesime cause del sonare adiratomi con mio padre, dissi al Tasso: - Tu sei persona da far delle parole e non de’ fatti -. Il quale Tasso mi disse: - Ancora io mi sono adirato con mia madre, e se io avessi tanti quattrini che mi conducessino a Roma, io non tornerei indrieto a serrare quel poco della botteguccia che io tengo -. A queste parole io aggiunsi, che se per quello lui restava, io mi trovavo a canto tanti quattrini, che bastavano a portarci a Roma tutti a dua. Cosí ragionando insieme, mentre andavamo, ci trovammo alla porta a San Piero Gattolini disavedutamente. Al quale io dissi: - Tasso mio, questa è fattura d’Idio l’esser giunti a questa porta, che né tu né io aveduti ce ne siàno: ora, da poi che io son qui, mi pare aver fatto la metà del cammino -. Cosí d’accordo lui e io dicevamo, mentre che seguivamo il viaggio: - Oh che dirà i nostri vecchi stasera? - Cosí dicendo facemmo patti insieme di non gli ricordar piú insino a tanto che noi fussimo giunti a Roma. Cosí ci legammo i grembiuli indietro, e quasi alla mutola ce ne andammo insino a Siena. Giunti che fummo a Siena, il Tasso disse che s’era fatto male ai piedi, che non voleva venire piú innanzi, e mi richiese gli prestassi danari per tornarsene: al quale io dissi: - A me non ne resterebbe per andare innanzi; però tu ci dovevi pensare a muoverti di Firenze; e se per causa dei piedi tu resti di non venire, troveremo un cavallo di ritorno per Roma, e allora non arai scusa di non venire -. Cosí preso il cavallo, veduto che lui non mi rispondeva, inverso la porta di Roma presi il cammino. Lui, vedutomi risoluto, non restando di brontolare, il meglio che poteva, zoppicando drieto assai ben discosto e tardo veniva. Giunto che io fui alla porta, piatoso del mio compagnino, lo aspettai e lo missi in groppa, dicendogli: - Che domin direbbono e’ nostri amici di noi, che partitici per andare a Roma, non ci fussi bastato la vista di passare Siena? - Allora il buon Tasso disse che io dicevo il vero; e per esser persona lieta, cominciò a ridere e a cantare: e cosí sempre cantando e ridendo ci conducemmo a Roma. Questo era a punto l’età mia di diciannove anni, insieme col millesimo. Giunti che noi fummo in Roma, subito mi messi a bottega con uno maestro, che si domandava Firenzola. Questo aveva nome Giovanni e era da Firenzuola di Lombardia, ed era valentissimo uomo di lavorare di vasellami e cose grosse. Avendogli mostro un poco di quel modello di quel serrame che io avevo fatto in Firenze col Salinbene, gli piacque maravigliosamente, e disse queste parole, voltosi a uno garzone che lui teneva, il quale era fiorentino e si domandava Giannotto Giannotti, ed era stato seco parecchi anni; disse cosí: - Questo è di quelli Fiorentini che sanno, e tu sei di quelli che non sanno -. Allora io, riconosciuto quel Giannotto, gli volsi fare motto; perché inanzi che lui andassi a Roma, spesso andavamo a disegnare insieme, ed eravamo stati molto domestici compagnuzzi. Prese tanto dispiacere di quelle parole che gli aveva detto il suo maestro, che egli disse non mi cognoscere né sapere chi io mi fussi: onde io sdegnato a cotal parole, gli dissi: - O Giannotto, già mio amico domestico, che ci siamo trovati in tali e tali luoghi, e a disegnare e a mangiare e bere e dormire in villa tua; io non mi curo che tu faccia testimonianza di me a questo uomo da bene tuo maestro, perché io spero che le mane mia sieno tali, che sanza il tuo aiuto diranno quale io sia.