La vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze/Libro primo/Capitolo XV

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Libro primo
Capitolo XV

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Seguitando di lavorare con questo maestro Pagolo Arsago, guadagnai assai, sempre mandando la maggior parte al mio buon padre. In capo di dua anni, alle preghiere del buon padre me ne tornai a Firenze, e mi messi di nuovo a lavorare con Francesco Salinbene, con il quale molto bene guadagnavo, e molto mi affaticavo a ’mparare. Ripreso la pratica con quel Francesco di Filippo, con tutto che io fussi molto dedito a qualche piacere, causa di quel maledetto sonare, mai lasciavo certe ore del giorno o della notte, quale io davo alli studii. Feci in questo tempo un chiavacuore di argento, il quale era in quei tempi chiamato cosí. Questo si era una cintura di tre dita larga, che alle spose novelle s’usava di fare, ed era fatta di mezzo rilievo con qualche figuretta ancora tonda in fra esse. Fecesi a uno che si domandava Raffaello Lapaccini. Con tutto che io ne fussi malissimo pagato, fu tanto l’onore che io ne ritrassi, che valse molto di piú che ’l premio che giustamente trar ne potevo. Avendo in questo tempo lavorato con molte diverse persone in Firenze, dove io avevo cognusciuto in fra gli orefici alcuni uomini da bene, come fu quel Marcone mio primo maestro, altri che avevano nome di molto buoni uomini, essendo sobissato da loro innelle mie opere quanto e’ potettono mi ruborno grossamente. Veduto questo, mi spiccai da loro e in concetto di tristi e ladri gli tenevo. Uno orafo in fra gli altri, chiamato Giovanbatista Sogliani, piacevolmente mi accomodò di una parte della sua bottega, quale era in sul canto di Mercato Nuovo, accanto a il banco che era de’ Landi. Quivi io feci molte belle operette e guadagnai assai: potevo molto bene aiutare la casa mia. Destossi la invidia da quelli cattivi maestri, che prima io avevo aúti, i quali si chiamavano Salvadore e Michele Guasconti: erano ne l’arte degli orefici tre grosse botteghe di costoro, e facevano di molte faccende; in modo che, veduto che mi offendevano, con alcuno uomo da bene io mi dolsi, dicendo che ben doveva lor bastare le ruberie che loro mi avevano usate sotto il mantello della lor falsa dimostrata bontà. Tornando loro a orecchi, si vantorno di farmi pentire assai di tal parole; onde io non conoscendo di che colore la paura si fusse, nulla o poco gli stimava.