La vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze/Libro primo/Capitolo XXIX

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Libro primo
Capitolo XXIX

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Seguitando apresso la peste molti mesi, io mi ero scaramucciato, perché mi era morti di molti compagni, ed ero restato sano e libero. Accadde una sera in fra le altre, un mio confederato compagno menò in casa a cena una meretrice bolognese, che si domandava Faustina. Questa donna era bellissima, ma era di trenta anni in circa, e seco aveva una servicella di tredici in quattordici. Per essere la detta Faustina cosa del mio amico, per tutto l’oro del mondo io non l’arei tocca. Con tutto che la dicesse essere di me forte innamorata, constantemente osservavo la fede allo amico mio; ma poi che a letto furno, io rubai quella servicina, la quali era nuova nuova, ché guai allei se la sua padrona lo avessi saputo. Cosí godetti piacevolmente quella notte con molta piú mia sadisfazione, che con la patrona Faustina fatto non arei. Apressandosi all’ora del desinare, onde io stanco, che molte miglia avevo camminato, volendo pigliare il cibo, mi prese un gran dolore di testa, con molte anguinaie nel braccio manco, scoprendomisi un carbonchio nella nocella della mana manca, dalla banda di fuora. Spaventato ugnuno in casa, lo amico mio, la vacca grossa e la minuta tutte fuggite, onde io restato solo con un povero mio fattorino, il quale mai lasciar mi volse, mi sentivo soffocare il cuore, e mi conoscevo certo esser morto. In questo, passando per la strada il padre di questo mio fattorino, il quale era medico del cardinale Iacoacci e a sua provisione stava, disse il detto fattore al padre: - Venite, mio padre, a veder Benvenuto, il quale è con un poco di indisposizione a letto -. Non considerando quel che la indisposizione potessi essere, subito venne a me, e toccatomi il polso, vide e sentí quel che lui volsuto non arebbe. Subito vòlto al figliuolo, gli disse: - O figliuolo traditore, tu m’hai rovinato: come poss’io piú andare innanzi al cardinale? - A cui il figliuol disse: - Molto piú vale, mio padre, questo mio maestro, che quanti cardinali ha Roma -. Allora il medico a me si volse, e disse: - Da poi che io son qui, medicare ti voglio. Solo di una cosa ti fo avvertito, che avendo usato il coito, se’ mortale -. Al quali io dissi: - Hollo usato questa notte -. A questo disse il medico: - In che creatura, e quanto? - E gli dissi: - La notte passata, e innella giovinissima fanciulletta -. Allora avvedutosi lui delle sciocche parole usate, subito mi disse: - Sí per esser giovini a cotesto modo, le quali ancor non putano, e per essere a buona ora il rimedio, non aver tanta paura, chi io spero per ogni modo guarirti -. Medicatomi, e partitosi, subito comparse un mio carissimo amico, chiamato Giovanni Rigogli, il quali, increscendoli e del mio gran male e dell’essere lasciato cosí solo da il compagno mio, disse: - Non ti dubitare, Benvenuto mio, che io mai non mi spiccherò da te, per infin che guarito io non ti vegga -. Io dissi a questo amico, che non si appressassi a me, perché spacciato ero. Solo lo pregavo che lui fussi contento di pigliare una certa buona quantità di scudi che erano in una cassetta quivi vicina al mio letto, e quelli, di poi che Idio mi avessi tolto al mondo, gli mandassi a donare al mio povero padre, scrivendogli piacevolmente, come ancora io avevo fatto sicondo l’usanza che prommetteva quella arrabbiata istagione. Il mio caro amico mi disse non si voler da me partir in modo alcuno, e quello che da poi occorressi innell’uno o innell’altro modo, sapeva benissimo quel che si conveniva fare per lo amico. E cosí passammo innanzi con lo aiuto di Dio: e con i maravigliosi rimedi cominciato a pigliare grandissimo miglioramento, presto a bene di quella grandissima infirmitate campai. Ancora tenendo la piaga aperta, dentrovi la tasta e un piastrello sopra, me ne andai in sun un mio cavallino salvatico, il quale io avevo. Questo aveva i peli lunghi piú di quattro dita; era a punto grande come un grande orsacchio, e veramente un orso pareva. In sun esso me ne andai a trovare il Rosso pittore, il quale era fuor di Roma in verso Civitavecchia, a un luogo del conte dell’Anguillara, detto Cervetera, e trovato il mio Rosso, il quale oltra modo si rallegrò, onde io gli dissi: - I’ vengo a fare a voi quel che voi facesti a me tanti mesi sono -. Cacciatosi subito a ridere, e abracciatomi e baciatomi, appresso mi disse, che per amor del conte io stessi cheto. Cosí filicemente e lieti con buon vini e ottime vivande, accarezzato dal ditto conte, in circa a un mese ivi mi stetti, e ogni giorno soletto me ne andavo in sul lito del mare, e quivi smontavo, caricandomi di piú diversi sassolini, chiocciolette e nicchi rari e bellissimi. L’ultimo giorno, che poi piú non vi andai, fui assaltato da molti uomini, li quali, travestitisi, eran discesi d’una fusta di Mori; e pensandosi d’avermi in modo ristretto a un certo passo, il quali non pareva possibile a scampar loro delle mani, montato subito in sul mio cavalletto, resolutomi al periglioso passo quivi d’essere o arosto o lesso, perché poca speranza vedevo di scappare di uno delli duoi modi, come volse Idio, il cavalletto, che era qual di sopra io dissi, saltò quello che è impossibile a credere; onde io salvatomi ringraziai Idio. Lo dissi al conte: lui dette a l’arme: si vidde le fuste in mare. L’altro giorno apresso sano e lieto me ne ritornai in Roma.