La vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze/Libro primo/Capitolo XXVII

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Libro primo
Capitolo XXVII

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In questo tempo, essendo io ancora giovane di ventitré anni in circa, si risentí un morbo pestilenziale tanto inistimabile, che in Roma ogni dí ne moriva molte migliaia. Di questo alquanto spaventato, mi cominciai a pigliare certi piaceri, come mi dittava l’animo, pure causati da qualcosa che io dirò. Perché io me ne andavo il giorno della festa volentieri alle anticaglie, ritraendo di quelle or con cera or con disegno; e perché queste ditte anticaglie sono tutte rovine, e infra quelle ditte ruine cova assaissimi colombi, mi venne voglia di adoperare contra essi lo scoppietto: in modo che per fuggire il commerzio, spaventato dalla peste, mettevo uno scoppietto in ispalla al mio Pagolino, e soli lui e io ce ne andavamo alle ditte anticaglie. Il che ne seguiva che moltissime volte ne tornavo carico di grassissimi colombi. Non mi piaceva di mettere innel mio scoppietto altro che una sola palla, e cosí per vera virtú di quella arte facevo gran caccie. Tenevo uno scoppietto diritto, di mia mano; e drento e fuora non fu mai specchio da vedere tale. Ancora facevo di mia mano la finissima polvere da trarre, innella quale io trovai i piú bei segreti, che mai per insino a oggi da nessuno altro si sieno trovati; e di questo, per non mi ci stendere molto, solo darò un segno da fare maravigliare tutti quei che son periti in tal professione. Questo si era, che con la quinta parte della palla il peso della mia polvere, detta palla mi portava ducento passi andanti in punto bianco. Se bene il gran piacere, che io traevo da questo mio scoppietto, mostrava di sviarmi dalla arte e dagli studii mia, ancora che questo fussi la verità, in uno altro modo mi rendeva molto piú di quel che tolto mi aveva: il perché si era, che tutte le volte che io andavo a questa mia caccia, miglioravo la vita mia grandemente, perché l’aria mi conferiva forte. Essendo io per natura malinconico, come io mi trovavo a questi piaceri, subito mi si rallegrava il cuore, e venivami meglio operato e con piú virtú assai, che quando io continuo stavo a’ miei studii ed esercizii; di modo che lo scoppietto alla fin del giuoco mi stava piú a guadagno che a perdita. Ancora, mediante questo mio piacere, m’avevo fatto amicizie di certi cercatori, li quali stavano alle velette di certi villani lombardi, che venivano al suo tempo a Roma a zappare le vigne. Questi tali innel zappare la terra sempre trovavono medaglie antiche, agate, prasme, corniuole, cammei: ancora trovavano delle gioie, come s’è dire ismeraldi, zaffini, diamanti e rubini. Questi tali cercatori da quei tai villani avevano alcuna volta per pochissimi danari di queste cose ditte; alle quali io alcuna volta, e bene spesso, sopragiunto i cercatori, davo loro tanti scudi d’oro, molte volte di quello che loro appena avevano compero tanti giuli. Questa cosa, non istante il gran guadagno che io ne cavavo, che era per l’un dieci o piú, ancora mi facevo benivolo quasi attutti quei cardinali di Roma. Solo dirò di queste qualcuna di quelle cose notabile e piú rare. Mi capitò alle mane, infra tante le altre, una testa di un dalfino grande quant’una fava da partito grossetta. Infra le altre, non istante che questa testa fusse bellissima, la natura in questo molto sopra faceva la arte; perché questo smiraldo era di tanto buon colore, che quel tale che da me lo comperò a decine di scudi, lo fece acconciare a uso di ordinaria pietra da portare in anello: cosí legato lo vendé centinaia. Ancora un altro genere di pietra: questo si fu una testa del piú bel topazio, che mai fusse veduto al mondo: in questo l’arte adeguava la natura. Questa era grande quant’una grossa nocciuola, e la testa si era tanto ben fatta quanto inmaginar si possa: era fatta per Minerva. Ancora un’altra pietra diversa da queste: questo fu un cammeo: in esso intagliato uno Ercole che legava il trifauce Cerbero. Questo era di tanta bellezza e di tanta virtú ben fatto, che il nostro gran Michelagnolo ebbe a dire non aver mai veduto cosa tanto maravigliosa. Ancora infra molte medaglie di bronzo, una me ne capitò, nella quale era la testa di Iove. Questa medaglia era piú grande che nessuna che veduto mai io ne avessi: la testa era tanto ben fatta, che medaglia mai si vidde tale. Aveva un bellissimo rovescio di alcune figurette simili allei fatte bene. Arei sopra di questo da dire di molte gran cose, ma non mi voglio stendere per non essere troppo lungo.