La vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze/Libro secondo/Capitolo IV

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Libro secondo
Capitolo IV

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Partitomi di Viterbo con i sopraddetti, venimmo via cavalcando, quando innanzi e quando indietro al ditto traino del Cardinale, di modo che il giovedí santo a ventidua ore ci trovammo presso Siena a una posta; e veduto io che v’era alcune cavalle di ritorno, e che quei delle poste aspettavano di darle a qualche passeggiere, per qualche poco guadagno, che alla posta di Siena le rimenassi; veduto questo, io dismontai del mio cavallo Tornon, e messi in su quella cavalla il mio cucino e le staffe, e detti un giulio a un di quei garzoni delle poste. Lasciato il mio cavallo a’ mie’ giovani che me lo conducessino, subito innanzi m’avviai per giugnere in Siena una mezz’ora prima, sí per vicitare alcuno mio amico, e per fare qualche altra mia faccenda: però, se bene io venni presto, io non corsi la detta cavalla. Giunto che io fui in Siena, presi le camere all’osteria, buone che ci faceva di bisogno per cinque persone, e per il garzon de l’oste rimandai la detta cavalla alla posta, che stava fuori della porta a Camollía; e in su detta cavalla m’avevo isdementicato le mie staffe e il mio cucino. Passammo la sera del giovedí santo molto lietamente: la mattina poi, che fu il venerdí santo, io mi ricordai delle mie staffe e del mio cucino. Mandato per esso, quel maestro delle poste disse che non me lo voleva rendere, perché io avevo corso la sua cavalla. Piú volte si mandò innanzi e indietro e il detto sempre diceva di non me le voler rendere, con molte ingiuriose e insopportabil parole; e l’oste, dove io ero alloggiato, mi disse: - Voi n’andate bene se egli non vi fa altro che non vi rendere il cucino e le staffe - e aggiunse dicendo: - Sappiate che quello è il piú bestial uomo che avessi mai questa città; e ha quivi duoi figliuoli uomini, soldati bravissimi, piú bestiali di lui; sí che ricomperate quel che vi bisogna, e passate via sanza dirgli niente -. Ricomperai un paio di staffe, pur pensando con amorevol parole di riavere il mio buon cucino: e perché io ero molto bene a cavallo, e bene armato di giaco e maniche, e con un mirabile archibuso all’arcione, non mi faceva spavento quelle gran bestialità che colui diceva che aveva quella pazza bestia. Ancora avevo avezzo quei mia giovani a portare giaco e maniche, e molto mi fidavo di quel giovane romano che mi pareva che non se lo cavassi mai, mentre che noi stavamo in Roma. Ancora Ascanio, ch’era pur giovanetto, ancora lui lo portava: e per essere il venerdí santo, mi pensavo che la pazzia de’ pazzi dovesse pure avere qualche poco di feria. Giugnemmo alla ditta porta a Camollía; per la qual cosa io viddi e cognobbi, per i contrasegni che m’eran dati, per esser cieco de l’occhio manco, questo maestro delle poste. Fattomigli incontro, e lasciato da banda quei mia giovani e quei compagni, piacevolmente dissi: - Maestro delle poste, se io vi fo sicuro che io non ho corso la vostra cavalla, perché non sarete voi contento di rendermi il mio cucino e le mie staffe? - A questo lui rispose veramente in quel modo pazzo, bestiale che m’era stato detto. Per la qual cosa io gli dissi: - Come non siate voi cristiano? O volete voi ’n un venerdí santo scandalizzare e voi e me? - Disse che non gli dava noia o venerdí santo o venerdí diavolo, e che, se io non mi gli levavo d’inanzi, con uno spuntone che gli aveva preso, mi traboccherebbe in terra insieme con quell’archibuso che io avevo in mano. A queste rigorose parole s’accostò un gentiluomo vecchio, sanese, vestito alla civile, il qual tornava da far di quelle divozione che si usano in un cotal giorno; e avendo sentito di lontano benissimo tutte le mie ragione, arditamente s’accostò a riprendere il detto maestro delle poste, pigliando la parte mia, e garriva li sua dua figliuoli perché e’ non facevano il dovere ai forestieri che passavano, e che a quel modo e’ facevano contro a Dio, e davano biasimo alla città di Siena. Quei dua giovani suoi figliuoli, scrollato il capo sanza dir nulla, se ne andorno in là, nel drento della lor casa. Lo arrabbiato padre invelenito dalle parole di quello onorato gentiluomo, subito con vituperose bestemmie abbassò lo spuntone, giurando che con esso mi voleva ammazzare a ogni modo. Veduto questa bestial resoluzione, per tenerlo alquanto indietro, feci segno di mostrargli la bocca del mio archibuso. Costui piú furioso gittandomisi addosso, l’archibuso che io avevo in mano, se bene in ordine per la mia difesa, non l’avevo abbassato ancora tanto, che fussi arrincontro di lui, anzi era colla bocca alta; e da per sé dette fuoco. La palla percosse nell’arco della porta, e sbattuta indietro, colse nella canna della gola del detto, il quale cadde in terra morto. Corsono i dua figliuoli velocemente, e preso l’arme da un rastrello uno, l’altro prese lo spuntone del padre; e gittatisi addosso a quei mia giovani, quel figliuolo che aveva lo spuntone investí il primo Pagolo romano sopra la poppa manca; l’altro corse addosso a un milanese, che era in nostra compagnia, il quale aveva viso di pazzo: e non valse raccomandarsi dicendo che non aveva che far meco, e difendendosi dalla punta d’una partigiana con un bastoncello che gli aveva in mano: con il quale non possette tanto ischermire che fu investito un poco nella bocca. Quel messer Cherubino era vestito da prete, e se bene egli era maestro di oriuoli eccellentissimo, come io dissi, aveva aùto benefizii dal Papa con buone entrate. Ascanio, se bene egli era armato benissimo, non fece segno di fuggire, come aveva fatto quel milanese; di modo che questi dua non furno tocchi. Io, che avevo dato di piè al cavallo e in mentre che lui galoppava, prestamente avevo rimesso in ordine e carico il mio archibuso e tornavo arrovellato indietro, parendomi aver fatto da motteggio, per voler fare daddovero, e pensavo che quei mia giovani fussino stati ammazzati, resoluto andavo per morire anch’io. Non molti passi corse il cavallo indietro, che io riscontrai che inverso me venivano, ai quali io domandai se gli avevano male. Rispose Ascanio, che Pagolo era ferito d’uno spuntone a morte. Allora io dissi: - O Pagolo figliuol mio! Addunche lo spuntone ha sfondato il giaco? - No - disse - ché il giaco avevo messo nella bisaccia questa mattina -. Addunche e’ giachi si portano per Roma per mostrarsi bello alle dame? e inne’ luoghi pericolosi, dove fa mestiero avergli, si tengono alla bisaccia? Tutti e’ mali che tu hai, ti stanno molto bene e se’ causa che io voglio andare a morire quivi anch’io or ora - e in mentre che io dicevo queste parole, sempre tornavo indietro gagliardamente. Ascanio e lui mi pregavono che io fussi contento per l’amor de Dio salvarmi e salvargli, perché sicuro s’andava alla morte. In questo scontrai quel messer Cherubino, insieme con quel milanese ferito: subito mi sgridò, dicendo che nissuno non aveva male, e che il colpo di Pagolo era ito tanto ritto, che non era isfondato; e che quel vecchio delle poste era restato in terra morto, e che i figliuoli, con altre persone assai, s’erano messi in ordine, e che al sicuro ci arebbon tagliati tutti a pezzi: - Sicché, Benvenuto, poiché la fortuna ci ha salvati da quella prima furia, non la tentar piú, ché la non ci salverebbe -. Allora io dissi: - Da poi che voi sete contenti cosí, ancora io son contento - e voltomi a Pagolo e Ascanio, dissi loro: - Date di piè a’ vostri cavalli, e galoppiamo insino a Staggia sanza mai fermarci, e quivi saremo sicuri -. Quel milanese ferito disse: - Che venga il canchero ai peccati! ché questo male che io ho, fu solo per il peccato d’un po’ di minestra di carne che io mangiai ieri, non avendo altro che desinare -. Con tutte queste gran tribulazioni che noi avevamo, fummo forzati a fare un poco di segno di ridere di quella bestia e di quelle sciocche parole che lui aveva detto. Demmo di piedi a’ cavagli, e lasciammo messer Cherubino e ’l milanese, che a loro agio se ne venissino.