La vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze/Libro secondo/Capitolo V

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Libro secondo
Capitolo V

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Intanto e’ figliuoli del morto corsono al Duca di Melfi, che dessi loro parecchi cavagli leggieri, per raggiugnerci e pigliarci. Il detto Duca, saputo che noi eramo degli uomini del cardinale di Ferrara, non volse dare né cavagli né licenzia. Intanto noi giugnemmo a Staggia, dove ivi noi fummo sicuri. Giunti in Istaggia, cercammo d’un medico, il meglio che in quel luogo si poteva avere: e fatto vedere il detto Pagolo, la ferita andava pelle pelle, e cognobbi che non arebbe male. Facemmo mettere in ordine da desinare. Intanto comparse messer Cherubino e quel pazzo di quel milanese, che continuamente mandava il canchero alle quistione, e diceva d’essere iscomunicato, perché non aveva potuto dire in quella santa mattina un sol Paternostro. Per essere costui brutto di viso, e la bocca aveva grande per natura; da poi per la ferita che in essa aveva auta gli era cresciuta la bocca piú di tre dita; e con quel suo giulío parlar milanese, e con essa lingua isciocca, quelle parole che lui diceva ci davano tanta occasione di ridere, che in cambio di condolerci della fortuna, non possevamo fare di non ridere a ogni parola che costui diceva. Volendogli il medico cucire quella ferita della bocca, avendo fitto di già tre punti, disse al medico che sostenessi alquanto, ché non arebbe voluto che per qualche nimicizia e’ gliene avessi cucita tutta: e messe mano a un cucchiaio, e diceva che voleva che lui gnene lasciassi tanto aperta, che quel cucchiaio v’entrassi, acciò che potessi tornar vivo alle sue brigate. Queste parole che costui diceva con certi scrollamenti di testa, davano sí grande occasione di ridere, che in cambio di condolerci della nostra mala fortuna, noi non restammo mai di ridere; e cosí sempre ridendo ci conducemmo a Firenze. Andammo a scavalcare a casa della mia povera sorella, dove noi fummo dal mio cognato e dallei molto maravigliosamente carezzati. Quel messer Cherubino e ’l milanese andorno ai fatti loro. Noi restammo in Firenze per quattro giorni, inne’ quali si guarí Pagolo; ma era ben gran cosa, che continuamente che e’ si parlava di quella bestia del milanese, ci moveva a tante risa, quanto ci moveva a pianto l’altre disgrazie avvenute; di modo che continuamente in un tempo medesimo si rideva e piagneva. Facilmente guarí Pagolo: di poi ce ne andammo alla volta di Ferrara, e il nostro Cardinale trovammo che ancora non era arrivato a Ferrara, e aveva inteso tutti e’ nostri accidenti; e condolendosi disse: - Io priego Idio che mi dia tanta grazia che io ti conduca vivo a quel Re che io t’ho promesso -. Il ditto Cardinale mi consegnò in Ferrara un suo palazzo, luogo bellissimo, dimandato Belfiore: confina con le mura della città: quivi mi fece acconciare da lavorare. Di poi dette ordine di partirsi sanza me alla volta di Francia; e veduto che io restavo molto mal contento, mi disse: - Benvenuto, tutto quello che io fo si è per la salute tua; perché innanzi che io ti levi della Italia, io voglio che tu sappia benissimo in prima quel che tu vieni a fare in Francia: in questo mezzo sollecita il piú che tu puoi questo mio bacino e boccaletto; e tutto quel che tu hai di bisogno lascerò ordine a un mio fattore che te lo dia -. E partitosi, io rimasi molto mal contento, e piú volte ebbi voglia di andarmi con Dio: ma sol mi teneva quell’avermi libero da papa Pagolo, perché del resto io stavo mal contento e con mio gran danno. Pure, vestitomi di quella gratitudine che meritava il benifizio ricevuto, mi disposi aver pazienzia e vedere che fine aveva da ’vere questa faccenda; e messomi a lavorare con quei dua mia giovani, tirai molto maravigliosamente innanzi quel boccale e quel bacino. Dove noi eramo alloggiati era l’aria cattiva, e per venire verso la state, tutti ci ammalammo un poco. In queste nostre indisposizione andavamo guardando il luogo dove noi eramo, il quale era grandissimo, e lasciato salvatico quasi un miglio di terreno scoperto, innel quale era tanti pagoni nostrali, che come uccei salvatici ivi covavano. Avvedutomi di questo, acconciai il mio scoppietto con certa polvere senza far romore; di poi appostavo di quei pagoni giovani, e ogni dua giorni io ne ammazzavo uno, il quale larghissimamente ci nutriva, ma di tanta virtú che tutte le malattie da noi si partirno: e attendemmo quei parecchi mesi lietissimamente a lavorare, e tirammo innanzi quel boccale e quel bacino, quale era opera che portava molto gran tempo.