La vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze/Libro secondo/Capitolo LIX

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Libro secondo
Capitolo LIX

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La Duchessa mi faceva favori inistimabili, e arebbe voluto che io avessi atteso a lavorare per lei, e non mi fussi curato né di Perseo né di altro. Io, che mi vedevo in questi vani favori, sapevo certo che la mia perversa e mordace fortuna non poteva soprastare a farmi qualche nuovo assassinamento; perché ogniora mi s’appresentava innanzi el gran male che io avevo fatto, cercando di fare un sí gran bene: dico quanto alle cose di Francia. Il Re non poteva inghiottire quel gran dispiacere che gli aveva della mia partita, e pure arebbe voluto che io fussi ritornato, ma con ispresso suo onore: a me pareva avere molte gran ragione, e non mi volevo dichinare; perché pensavo, se io mi fussi dichinato a scrivere umilmente, quelli uomini alla franciosa arebbono detto che io fussi stato peccatore e che e’ fussi stato il vero certe magagne, che a torto m’erano aposte. Per questo io stavo in su l’onorevole, e, come uomo che ha ragione, iscrivevo rigorosamente, quale era il maggior piacere che potevano avere quei dua traditori mia allevati: perché io mi vantavo, scrivendo loro, delle gran carezze che m’era fatte nella patria mia da un Signore e da una Signora, assoluti patroni della città di Firenze, mia patria. Come eglino avevano una di queste cotal lettere, andavano dal Re e strignevano Sua Maestà a dar loro il mio castello, in quel modo che l’aveva dato a me. Il Re, qual era persona buona e mirabile, mai volse acconsentire alle temerarie dimande di questi gran ladroncelli, perché si era cominciato a ’vedere a quel che loro malignamente espiravano: e per dar loro un poco di speranza e a me occasione di tornar subito, mi fece iscrivere alquanto in còllora da un suo tesauriere, che si dimandava messer Giuliano Buonaccorsi, cittadino fiorentino. La lettera conteneva questo: che, se io volevo mantenere quel nome de l’uomo da bene che io v’avevo portato, da poi che io me n’ero partito sanza nessuna causa, ero veramente ubrigato a render conto di tutto quello che io avevo maneggiato e fatto per Sua Maestà. Quando io ebbi questa lettera, mi dette tanto piacere, che a chiedere a lingua, io non arei domandato né piú né manco. Messomi a scrivere, empie’ nove fogli di carta ordinaria; e in quegli narrai tritamente tutte l’opere che io avevo fatte e tutti gli accidenti che io avevo aúti in esse, e tutta la quantità de’ denari che s’erano ispesi in dette opere, i quali tutti s’erano dati per mano di dua notari e d’un suo tesauriere, e sottoscritti da tutti quelli proprii uomini che gli avevano aúti, i quali alcuno aveva dato delle robe sue e gli altri le sue fatiche; e che di essi danari io non m’ero messo un sol quattrino in borsa, e che delle opere mie finite io non avevo aùto nulla al mondo; solo me ne avevo portato in Italia alcuni favori e promesse realissime, degne veramente di Sua Maestà. E se bene io non mi potevo vantare d’aver tratto nulla altro delle mie opere, che certi salari ordinatimi da Sua Maestà per mio trattenimento, e di quelli anche restavo d’avere piú di settecento scudi d’oro, i quali apposta io lasciai, perché mi fussino mandati per il mio buon ritorno; - però, conosciuto che alcuni maligni per propia invidia hanno fatto qualche malo uffizio, la verità ha a star sempre di sopra: io mi glorio di Sua Maestà cristianissima, e non mi muove l’avarizia. Se bene io cognosco d’avere attenuto molto piú a Sua Maestà di quello che io mi offersi di fare: e se bene a me non è conseguito il cambio promissomi, d’altro non mi curo al mondo, se non di restare, nel concetto di Sua Maestà, uomo da bene e netto, tal quale io fui sempre. E se nessun dubbio di questo fussi in Vostra Maestà, a un minimo cenno verrò volando a render conto di me, con la propia vita: ma vedendo tener cosí poco conto di me, non son voluto tornare a offerirmi, saputo che a me sempre avanzerà del pane dovunche io vada: e quando io sia chiamato, sempre risponderò -. Era in detta lettera molti altri particulari degni di quel maraviglioso Re e della salvazione dell’onor mio. Questa lettera, innanzi che io la mandassi, la portai al mio Duca, il quale ebbe molto piacere di vederla; di poi subito la mandai in Francia, diritta al cardinal di Ferrara.