La vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze/Libro secondo/Capitolo VII

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Libro secondo
Capitolo VII

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In questo tempo, che io messi a fare questo ditto rovescio, il Cardinale m’aveva scritto dicendomi che io mi mettessi in ordine, perché il Re m’aveva domandato: e che alle prime lettere sue s’arebbe l’ordine di tutto quello che lui m’aveva promesso. Io feci incassare il mio bacino e ’l mio boccale bene acconcio; e l’avevo di già mostro al Duca. Faceva le faccende del Cardinale un gentiluomo ferrarese, il qual si chiamava per nome messer Alberto Bendedio. Questo uomo era stato in casa dodici anni sanza uscirne mai, causa d’una sua infirmità. Un giorno con grandissima prestezza mandò per me, dicendomi che io dovessi montare in poste subito per andare a trovare il Re, il quale con grand’istanzia m’aveva domandato, pensando che io fussi in Francia. Il Cardinale per iscusa sua aveva detto che io ero restato a una sua badia in Lione, un poco ammalato, ma che farebbe che io sarei presto da Sua Maestà; però faceva questa diligenza che io corressi in poste. Questo messer Alberto era grande uomo da bene, ma era superbo, e per la malattia superbo insopportabile; e sí come io dico, mi disse che io mi mettessi in ordine presto, per correre in poste. Al quale io dissi che l’arte mia non si faceva in poste, e che se io vi avevo da ’ndare, volevo andarvi a piacevol giornate e menar meco Ascanio e Pagolo, mia lavoranti, i quali avevo levati di Roma; e di piú volevo un servitore con esso noi a cavallo, per mio servizio, e tanti danari che bastassino a condurmivi. Questo vecchio infermo con superbissime parole mi rispose, che in quel modo che io dicevo, e non altrimenti, andavano i figliuoli del Duca. Allui subito risposi che i figliuoli de l’arte mia andavano in quel modo che io avevo detto; e per non essere stato mai figliuol di duca, quelli non sapevo come s’andassino; e che se gli usava meco quelle istratte parole ai mia orecchi, che io non v’andrei in modo nessuno, sí per avermi mancato il Cardinale della fede sua e, arrotomi poi queste villane parole, io mi risolverei sicuramente di non mi voler impacciare con ferraresi; e voltogli le stiene, io brontolando e lui bravando, mi parti’. Andai a trovare il sopraditto Duca con la sua medaglia finita; il quale mi fece le piú onorate carezze che mai si facessino a uomo del mondo: e aveva commesso a quel suo messer Girolamo Giliolo, che per quelle mie fatiche trovassi uno anello d’un diamante di valore di ducento scudi, e che lo dessi al Fiaschino suo cameriere, il quale me lo dessi. Cosí fu fatto. Il ditto Fiaschino, la sera che il giorno gli avevo dato la medaglia, a un’ora di notte mi porse uno anello drentovi un diamante, il quale aveva gran mostra; e disse queste parole da parte del suo Duca: che quella unica virtuosa mano, che tanto bene aveva operato, per memoria di Sua Eccellenzia con quel diamante si adornassi la ditta mano. Venuto il giorno, io guardai il ditto anello, il quale era un diamantaccio sottile, il valore d’un dieci scudi in circa. E perché quelle tante meravigliose parole, che quel Duca m’aveva fatto usare, io, che non volsi che le fussino vestite di un cosí poco premio, pensando il Duca d’avermi ben sattisfatto; e io che m’immaginai che la venissi da quel suo furfante tesauriere, detti l’anello a un mio amico, che lo rendessi al cameriere Fiaschino, in ogni modo che egli poteva. Questo fu Bernardo Saliti, che fece questo uffizio mirabilmente. Il detto Fiaschino subito mi venne a trovare con grandissime sclamazioni, dicendomi che se il Duca sapeva che io gli rimandassi un presente in quel modo, che lui cosí benignamente m’aveva donato, che egli l’arebbe molto per male, e forse me ne potrei pentire. Al ditto risposi, che l’anello che Sua Eccellenzia m’avea donato, era di valore d’un dieci scudi in circa, e che l’opera che io avevo fatta a Sua Eccellenzia valeva piú di ducento; ma per mostrare a Sua Eccellenzia che io stimavo l’atto della sua gentilezza, che solo mi mandassi uno anello del granchio, di quelli che vengon d’Inghilterra che vagliono un carlino in circa; quello io lo terrei per memoria di Sua Eccellenzia in sin che io vivessi, insieme con quelle onorate parole che Sua Eccellenzia m’aveva fatto porgere; perché io facevo conto che lo splendore di Sua Eccellenzia avessi largamente pagato le mie fatiche, dove quella bassa gioia me le vituperava. Queste parole furno di tanto dispiacere al Duca, che egli chiamò quel suo detto tesauriere, e gli disse villania, la maggiore che mai pel passato lui gli avessi detto; e a me fe’ comandare, sotto pena della disgrazia sua, che io non partissi di Ferrara se lui non me lo faceva intendere; e al suo tesauriere comandò che mi dessi un diamante che arrivassi a trecento scudi. L’avaro tesauriere ne trovò uno che passava di poco sessanta scudi, e dette ad intendere che il ditto diamante valeva molto piú di dugento.