La vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze/Libro secondo/Capitolo VIII

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Libro secondo
Capitolo VIII

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Intanto il sopra ditto messer Alberto aveva ripreso la buona via, e m’aveva provisto di tutto quello che io avevo domandato. Eromi quel dí disposto di partirmi di Ferrara a ogni modo; ma quel diligente cameriere del Duca aveva ordinato col ditto messer Alberto, che per quel dí io non avessi cavalli. Avevo carico un mulo di molte mia bagaglie, e con esse avevo incassato quel bacino e quel boccale che fatto avevo per il Cardinale. In questo sopraggiunse un gentiluomo ferrarese, il quale si domandava per nome messer Alfonso de’ Trotti. Questo gentiluomo era molto vecchio e era persona affettatissima, e si dilettava delle virtú grandemente; ma era una di quelle persone che sono difficilissime a contentare; e se per aventura elle s’abbattono mai a vedere qualche cosa che piaccia loro, se la dipingono tanto eccellente nel cervello, che mai piú pensono di rivedere altra cosa che piaccia loro. Giunse questo messer Alfonso; per la qual cosa messer Alberto gli disse: - A me sa male che voi sete venuto tardi: perché di già s’è incassato e fermo quel boccale e quel bacino che noi mandiamo al Cardinale di Francia -. Questo messer Alfonso disse che non se ne curava; e accennato a un suo servitore, lo mandò a casa sua: il quale portò un boccale di terra bianca, di quelle terre di Faenza, molto dilicatamente lavorato. In mentre che il servitore andò e tornò, questo messer Alfonso diceva al ditto messer Alberto: - Io vi voglio dire per quel che io non mi curo di vedere mai piú vasi: questo si è che una volta io ne vidi uno d’argento, antico, tanto bello e tanto maraviglioso, che la immaginazione umana non arriverebbe a pensare a tanta eccellenzia; e però io non mi curo di vedere altra cosa tale, acciò che la non mi guasti quella maravigliosa inmaginazione di quello. Questo si fu un gran gentiluomo virtuoso, che andò a Roma per alcune sue faccende e segretamente gli fu mostro questo vaso antico; il quale per vigore d’una gran quantità di scudi corroppe quello che l’aveva, e seco ne lo portò in queste nostre parti; ma lo tien ben segreto, che ’l Duca non lo sappia; perché arebbe paura di perderlo a ogni modo -. Questo messer Alfonso, in mentre che diceva queste sue lunghe novellate, egli non si guardava da me, che ero alla presenza, perché non mi conosceva. Intanto, comparso questo benedetto modello di terra, iscoperto con una tanta boriosità, ciurma e sicumera, che veduto che io l’ebbi, voltomi a messer Alberto, dissi: - Pur beato che io l’ho veduto! - Messer Alfonso adirato, con qualche parola ingiuriosa, disse: - O chi se’ tu, che non sai quel che tu di’? - A questo io dissi: - Ora ascoltatemi, e poi vedrete chi di noi saprà meglio quello che e’ si dice -. Voltomi a messer Alberto, persona molto grave e ingegnosa, dissi: - Questo è un boccaletto d’argento di tanto peso, il quale io lo feci innel tal tempo a quel ciurmadore di maestro Iacopo cerusico da Carpi, il quale venne a Roma e vi stette sei mesi; e con una sua unzione imbrattò di molte decine di signori e poveri gentiluomini, da i quali lui trasse di molte migliara di ducati. In quel tempo io gli feci questo vaso e un altro diverso da questo; e lui me lo pagò, l’uno e l’altro, molto male, e ora sono in Roma tutti quelli sventurati che gli unse, storpiati e malcondotti. A me è gloria grandissima che l’opere mie sieno di tanto nome appresso a voi altri Signori ricchi; ma io vi dico bene, che da quei tanti anni in qua io ho atteso quanto io ho potuto a ’mparare; di modo che io mi penso, che quel vaso ch’io porto in Francia, sia altrimenti degno del Cardinale e del Re, che non fu quello di quel vostro mediconzolo -. Ditte che io ebbi queste mie parole, quel messer Alfonso pareva proprio che si struggessi di desiderio di vedere quel bacino e boccale, il quale io continuamente gli negavo. Quando un pezzo fummo stati in questo, disse che se andrebbe al Duca e per mezzo di Sua Eccellenzia lo vedrebbe. Allora messer Alberto Bendidio ch’era, come ho detto, superbissimo, disse: - Innanzi che voi partiate di qui, messer Alfonso, voi lo vedrete, sanza adoperare i favori del Duca -. A queste parole io mi parti’ e lasciai Ascanio e Pagolo che lo mostrassi loro; qual disse poi che egli avean ditto cose grandissime in mia lode. Volse poi messer Alfonso che io mi addomesticassi seco, onde a me parve mill’anni di uscir di Ferrara e levarmi lor dinanzi. Quanto io v’avevo aùto di buono si era stata la pratica del cardinal Salviati e quella del cardinal di Ravenna, e di qualcuno altro di quelli virtuosi musici, e non d’altri; perché i Ferraresi son gente avarissime e piace loro la roba d’altrui in tutti e’ modi che la possino avere; cosí son tutti. Comparse alle ventidua ore il sopra ditto Fiaschino, e mi porse il ditto diamante di valore di sessanta scudi in circa; dicendomi con faccia malinconica e con breve parole che io portassi quello per amore di Sua Eccellenzia. Al quale io risposi: - E io cosí farò -. Mettendo i piedi innella staffa in sua presenza, presi il viaggio per andarmi con Dio. Notò l’atto e le parole; e riferito al Duca, in còllora ebbe voglia grandissima di farmi tornare indietro.