La vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze/Libro secondo/Capitolo XC

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Libro secondo
Capitolo XC

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Quando il Duca intese che tutta la mia opera del Perseo si poteva mostrare come finita, un giorno la venne a vedere e mostrò per molti segni evidenti che la gli sattisfaceva grandemente; e voltosi a certi Signori, che erano con Sua Eccellenzia illustrissima disse: - Con tutto che questa opera ci paia molto bella, ell’ha anche a piacere ai popoli; sí che, Benvenuto mio, innanzi che tu gli dia la ultima sua fine io vorrei che per amor mio tu aprissi un poco questa parte dinanzi, per un mezzo giorno, alla mia Piazza, per vedere quel che ne dice ’l popolo; perché e’ non è dubbio che da vederla a questo modo ristretta al vederla a campo aperto, la mosterrà un diverso modo da quello che la si mostra cosí ristretta -. A queste parole io dissi umilmente a Sua Eccellenzia illustrissimo: - Sappiate, Signor mio, che la mosterrà meglio la metà. O come non si ricorda Vostra Eccellenzia illustrissima d’averla veduta nell’orto della casa mia, innel quale la si mostrava in tanta gran largura tanto bene, che per l’orto delli Innocenti l’è venuta a vedere ’l Bandinello, e con tutta la sua mala e pessima natura, la l’ha sforzato ed ei n’ha detto bene, che mai non disse ben di persona a’ sua dí? Io mi avveggo che Vostra Eccellenzia illustrissima gli crede troppo -. A queste mie parole, sogghignando un poco isdegnosetto, pur con molte piacevol parole disse: - Fallo, Benvenuto mio, solo per un poco di mia sattisfazione -. E partitosi, io cominciai a dare ordine di scoprire; e perché e’ mancava certo poco di oro, e certe vernice e altre cotai coselline, che si appartengono alla fine dell’opera, sdegnosamente borbottavo e mi dolevo, bestemmiando quel maladetto giorno che fu causa accondurmi a Firenze; perché di già io vedevo la grandissima e certa perdita che io avevo fatta alla mia partita di Francia, e non vedevo né conoscevo ancora che modo io dovevo sperare di bene con questo mio Signore in Firenze; perché dal prencipio al mezzo, alla fine, sempre tutto quello che io avevo fatto, si era fatto con molto mio dannoso disavvantaggio; e cosí malcontento il giorno seguente io la scopersi. Or siccome piacque a Dio, subito che la fu veduta, ei si levò un grido tanto smisurato in lode della detta opera, la qual cosa fu causa di consolarmi alquanto. E non restavano i popoli continuamente di appiccare alle spalle della porta, che teneva un poco di parato, in mentre che io le davo la sua fine. Io dico che ’l giorno medesimo, che la si tenne parecchi ore scoperta, e’ vi fu appiccati piú di venti sonetti, tutti in lode smisuratissime della mia opera; dappoi che io la ricopersi, ogni dí mi v’era appiccati quantità di sonetti e di versi latini e versi greci; perché gli era vacanza allo Studio di Pisa, tutti quei eccellentissimi dotti e gli scolari facevano a gara. Ma quello che mi dava maggior contento, con isperanza di maggior mia salute inverso ’l mio Duca, si era che quegli dell’arte, cioè scultori e pittori, ancora loro facevano aggara a chi meglio diceva. E infra gli altri, quale io stimavo piú, si era il valente pittore Iacopo da Puntorno, e piú di lui il suo eccellente Bronzino, pittore, che non gli bastò il farvene appiccare parecchi, che egli me ne mandò per il suo Sandrino insino a casa mia, i quali dicevano tanto bene, con quel suo bel modo, il quale è rarissimo, che questo fu causa di consolarmi alquanto. E cosí io la ricopersi, e mi sollicitavo di finirla.