La vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze/Libro secondo/Capitolo XVI

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Libro secondo
Capitolo XVI

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Restato sadisfatto il Re delle opere mie, se ne tornò al suo palazzo, e mi lasciò pieno di tanti favori, che saria lungo a dirgli. L’altro giorno appresso, al suo desinare, mi mandò a chiamare. V’era alla presenza il cardinal di Ferrara, che desinava seco. Quando io giunsi, ancora il Re era alla siconda vivanda: accostatomi a Sua Maestà, subito cominciò a ragionar meco, dicendo che da poi che gli aveva cosí bel bacino e cosí bel boccale di mia mano, che per compagnia di quelle tal cose richiedeva una bella saliera, e che voleva che io gnene facessi un disegno; ma ben l’arebbe voluto veder presto. Allora io aggiunsi dicendo: - Vostra Maestà vedrà molto piú presto un tal disegno, che la mi domanda; perché in mentre che io facevo il bacino pensavo che per sua compagnia si gli dovessi far la saliera - e che tal cosa era di già fatta; e che se gli piaceva, io gliene mostrerrei subito. El Re si risentí con molta baldanza, e voltosi a quei Signori, qual era il re di Navarra, el cardinal di Loreno e ’l cardinal di Ferrara, e’ disse: - Questo veramente è un uomo da farsi amare e desiderare da ogni uomo che non lo cognosca -; di poi disse a me, che volentieri vedrebbe quel disegno che io avevo fatto sopra tal cosa. Messimi in via, e prestamente andai e tornai, perché avevo solo a passare la fiumara, cioè la Sena: portai meco un modello di cera, il quale io avevo fatto già a richiesta del cardinal di Ferrara in Roma. Giunto che io fui dal Re, scopertogli il modello, il Re maravigliatosi disse: - Questa è cosa molto piú divina l’un cento, che io non arei mai pensato. Questa è gran cosa di quest’uomo! Egli non debbe mai posarsi -. Di poi si volse a me con faccia molto lieta, e mi disse che quella era un’opera che gli piaceva molto, e che desiderava che io gliene facessi d’oro. Il cardinal di Ferrara, che era alla presenza mi guardò in viso e mi accennò, come quello che la ricognobbe che quello era il modello che io avevo fatto per lui in Roma. A questo io dissi che quell’opera già avevo detto che io la farei a chi l’aveva avere. Il Cardinale, ricordatosi di quelle medesime parole, quasi che isdegnato, parutogli che io mi fussi voluto vendicare, disse al Re: - Sire, questa è una grandissima opera, e però io non sospetterei d’altro, se none che io non crederrei mai vederla finita; perché questi valenti uomini, che hanno quei gran concetti di quest’arte, volentieri danno lor principio, non considerando bene quando ell’hanno aver la fine. Per tanto, faccendo fare di queste cotale grande opere, io vorrei sapere quando io l’avessi avere -. A questo rispose il Re dicendo che chi cercassi cosí sottilmente la fine dell’opere, non ne comincerebbe mai nessuna; e lo disse in un certo modo, mostrando che quelle cotali opere non fussino materia da uomini di poco animo. Allora io dissi: - Tutti e’ principi che danno animo ai servitori loro, in quel modo che fa e che dice Sua Maestà, tutte le grande imprese si vengono a facificare; e poi che Dio m’ha dato un cosí maraviglioso padrone, io spero di dargli finite di molte grande e meravigliose opere. - E io lo credo - disse il Re; e levossi da tavola. Chiamommi nella sua camera e mi domandò quanto oro bisognava per quella saliera: - Mille scudi, - dissi io. Subito il Re chiamò un suo tesauriere, che si domandava Monsignor lo risconte di Orbeche, e gli domandò che allora allora mi provvedessi mille scudi vecchi di buon peso, d’oro. Partitici da Sua Maestà, mandai a chiamare quelli dua notati che m’avevan fatto dare l’argento per il Giove e molte altre cose, e passato la Sena, presi una piccolissima sportellina che m’aveva donato una mia sorella cugina, monaca, innel passare per Firenze, e per mia buona aúria tolsi quella sportellina, e none un sacchetto: e pensando di spedire tal faccenda di giorno, perché ancora era buon’otta, e non volendo isviare i lavoranti; e manco non mi curai di menare servitore meco. Giunsi a casa il tesauriere, il quale di già aveva innanzi li danari, e gli sceglieva sí come gli aveva detto il Re. Per quanto a me parve vedere, quel ladrone tesauriere fece con arte il tardare insino a tre ore di notte a contarmi li detti dinari. Io, che non mancai di diligenza, mandai a chiamare parecchi di quei mia lavoranti, che venissino a farmi compagnia, perché era cosa di molta importanza. Veduto che li detti non venivano, io domandai a quel mandato, se gli aveva fatto l’anbasciata mia. Un certo ladroncello servitore disse che l’aveva fatta, e che loro avevan detto non poter venire; ma che lui di buona voglia mi porterebbe quelli dinari: al quale io dissi, che li dinari volevo portar da me. Intanto era spedito il contratto, contato li dinari e tutto. Messomili nella sportellina ditta, di poi messi il braccio nelle dua manichi; e perché entrava molto per forza, erano ben chiusi, e con piú mia comodità gli portavo che se fussi stato un sacchetto. Ero bene armato di giaco e maniche, e con la mia spadetta e ’l pugnale accanto prestamente mi messi la via fra gambe.