La vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze/Libro secondo/Capitolo XXX

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Libro secondo
Capitolo XXX

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Quanto piú cercavo di riposo, tanto piú mi si mostrava le tribulazione. Offeso dalla fortuna ogni dí in diversi modi, cominciai a pensare qual cosa delle dua io dovevo fare; o andarmi con Dio e lasciare la Francia nella sua malora; o sí veramente combattere anche questa pugna e vedere a che fine m’aveva creato Idio. Un gran pezzo m’ero tribolato sopra questa cosa; all’utimo poi, preso per resoluzione d’andarmi con Dio, per non voler tentare tanto la mia perversa fortuna, che lei m’avessi fatto rompere il collo, quando io fui disposto in tutto e per tutto, e mosso i passi per dar presto luogo a quelle robe che io non potevo portar meco, e quell’altre sottile, il meglio che io potevo, accomodarle a dosso a me e miei servitori, pur con molto mio grave dispiacere faceva tal partita. Era rimasto solo innun mio studiolo; perché quei mia giovani, che m’avevano confortato che io mi dovessi andar con Dio, dissi loro, che gli era bene che io mi consigliassi un poco da per me medesimo; con tutto ciò che io conoscevo bene che loro dicevano in gran parte il vero; perché da poi che io fussi fuor di prigione e avessi dato un poco di luogo a questa furia, molto meglio mi potrei scusare con il Re, dicendo con lettere questo tale assassinamento fattomi sol per invidia. E sí come ho detto, m’ero risoluto a far cosí; e mossomi, fui preso per una spalla e volto, e una voce che disse animosamente: - Benvenuto, come tu suoi, e non aver paura -. Subito presomi contrario consiglio da quel che avevo fatto, i’ dissi a quei mia giovani taliani: - Pigliate le buone arme e venite meco, e ubbidite a quanto io vi dico, e non pensate ad altro, perché io voglio comparire. Se io mi partissi, voi andresti l’altro dí tutti in fumo; sí che ubbidite e venite meco -. Tutti d’accordo quelli giovani dissono: - Da poi che noi siamo qui e viviamo del suo, noi doviamo andar seco e aiutarlo insinché c’è vita a ciò che lui proporrà; perché gli ha detto piú il vero che noi non pensavamo. Subito che e’ fossi fuora di questo luogo, e’ nemici sua ci farebbon tutti mandar via. Consideriamo bene le grande opere, che son qui cominciate, e di quanta grande inportanza le sono: a noi non ci basterebbe la vista di finirle sanza lui, e li nimici sua direbbono che e’ se ne fussi ito per non gli bastar la vista di fluire queste cotale imprese -. Dissono di molte parole, oltre a queste, d’importanza. Quel giovane romano de’ Macaroni fu il primo a metter animo agli altri: ancora chiamò parecchi di quei tedeschi e franciosi che mi volevan bene. Eramo dieci infra tutti: io presi il cammino dispostomi resoluto di non mi lasciare carcerare vivo. Giunto alla presenza dei giudici cherminali, trovai la ditta Caterina e sua madre. Sopragiunsi loro addosso che le ridevano con un loro avvocato: entrai drento e animosamente domandai il giudice, che gonfiato, grosso e grasso, stava elevato sopra gli altri in su ’n un tribunale. Vedutomi quest’uomo, minaccioso con la testa, disse con sommissa voce: - Se bene tu hai nome Benvenuto, questa volta tu sarai il mal venuto -. Io intesi, e replicai un’altra volta dicendo: - Presto ispacciatemi: ditemi quel che io son venuto a far qui -. Allora il ditto giudice si volse a Caterina e le disse: - Caterina, di’ tutto quel che t’è occorso d’avere a fare con Benvenuto -. La Caterina disse che io avevo usato seco al modo della Italia. Il giudice voltosi a me, disse: - Tu senti quel che la Caterina dice, Benvenuto -. Allora io dissi: - Se io avessi usato seco al modo italiano, l’arei fatto solo per desiderio d’avere un figliuolo, sí come fate voi altri -. Allora il giudice replicò, dicendo: - Ella vuol dire che tu hai usato seco fuora del vaso dove si fa figliuoli -. A questo io dissi che quello non era il modo italiano; anzi che doveva essere il modo franzese, da poi che lei lo sapeva e io no; e che io volevo che lei dicessi a punto innel modo che io avevo aùto a far seco. Questa ribaldella puttana iscelleratamente disse iscoperto e chiaro il brutto modo che la voleva dire. Io gnene feci raffermare tre volte l’uno appresso a l’altro; e ditto che l’ebbe, io dissi ad alta voce: - Signor giudice, luogotenente del Re Cristianissimo, io vi domando giustizia; perché io so che le legge del Cristianissimo Re a tal peccato promettono il fuoco a l’agente e al paziente; però costei confessa il peccato: io non la cognosco in modo nessuno: la ruffiana madre è qui che per l’un delitto e l’altro merita il fuoco; io vi domando iustizia -. E queste parole replicavo tanto frequente e ad alta voce, sempre chiedendo il fuoco per lei e per la madre: dicendo al giudice, che se non la metteva prigione alla presenza mia, che io correrei al Re, e direi la ingiustizia che mi faceva un suo luogotenente cherminale. Costoro a questo mio gran romore cominciorno a ’bassar le voci; allora io l’alzavo piú: la puttanella a piagnere insieme con la madre, e io al giudice gridavo: - Fuoco, fuoco -. Quel poltroncione, veduto che la cosa non era passata in quel modo che lui aveva disegnato, cominciò con piú dolce parole a iscusare il debole sesso femminile. A questo, io considerai che mi pareva pure d’aver vinto una gran pugna, e borbottando e minacciando, volentieri m’andai con Dio; che certo arei pagato cinquecento scudi a non v’esser mai comparso. Uscito di quel pelago, con tutto il cuore ringraziai Idio, e lieto me ne tornai con i mia giovani al mio castello.