La vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze/Libro secondo/Capitolo XXIX

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Libro secondo
Capitolo XXIX

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Di poi dua giorni appresso, venendo la festa, messer Mattia del Nazaro, ancora lui italiano e servitor del Re, della medesima professione valentissimo uomo, m’aveva invitato con quelli mia giovani a godere a un giardino. Per la qual cosa io mi messi in ordine, e dissi ancora a Pagolo che lui dovessi venire a spasso a rallegrarsi, parendomi d’avere alquanto quietato un poco quella ditta fastidiosa lite. Questo giovane mi rispose dicendomi: - Veramente che sarebbe grande errore a lasciare la casa cosí sola: vedete quant’oro, argenti e gioie voi ci avete. Essendo a questo modo in città di ladri, bisogna guardarsi di dí come di notte: io mi attenderò a dire certe mie orazioni, in mentre che io guarderò la casa; andate con l’animo posato a darvi piacere e buon tempo: un’altra volta farà un altro questo uflizio -. Parendomi di andare con l’animo riposato, insieme con Pagolo, Ascanio e il Chioccia al ditto giardino andammo a godere, e quella giornata gran pezzo d’essa passammo lietamente. Cominciatosi a ’pressare piú inverso la sera, sopra il mezzo giorno mi toccò l’umore, e cominciai a pensare a quelle parole che con finta semplicità m’aveva detto quello isciagurato; montai in sul mio cavallo e con dua mia servitori tornai al mio castello; dove io trovai Pagolo e quella Caterinaccia quasi in sul peccato; perché giunto che io fui, la franciosa ruffiana madre con gran voce disse: - Pagolo, Caterina, gli è qui il padrone -. Veduto venire l’uno e l’altro ispaventati e sopragiunti a me tutti scompigliati, non sapendo né quello che lor si dicevano, né, come istupidi, dove loro andavano, evidentemente si cognobbe il commesso lor peccato. Per la qual cosa sopra fatta la ragione dall’ira, messi mano alla spada, resolutomi per ammazzargli tutt’a dua. Uno si fuggí, l’altra si gittò in terra ginocchioni, e gridava tutte le misericordie del cielo. Io, che arei prima voluto dare al mastio, non lo potendo cosí giugnere al primo, quando da poi l’ebbi raggiunto intanto m’ero consigliato: il mio meglio si era di cacciargli via tutt’a dua; perché con tante altre cose fattesi vicine a questa, io con difficultà arei campato la vita. Però dissi a Pagolo: - Se gli occhi mia avessino veduto quello che tu, ribaldo, mi fai credere, io ti passerei dieci volte la trippa con questa spada: or lievamiti dinanzi, che se tu dicesti mai il Pater nostro, sappi che gli è quel di san Giuliano -. Di poi cacciai via la madre e la figliuola a colpi di pinte, calci e pugna. Pensorno vendicarsi di questa ingiuria, e conferito con uno avvocato normando, insegnò loro che lei dicessi che io avessi usato seco al modo italiano; qual modo s’intendeva contro natura, cioè in soddomia; dicendo: - Per lo manco, come questo italiano sente questa tal cosa, e saputo quanto e’ l’è di gran pericolo, subito vi donerà parecchi centinaia di ducati, acciò che voi non ne parliate, considerando la gran penitenzia che si fa in Francia di questo tal peccato -. Cosí rimasino d’accordo: mi posono l’accusa, e io fui richiesto.