La vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze/Libro secondo/Capitolo XXXII

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Libro secondo
Capitolo XXXII

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A questo il Bologna rispose e disse: - O Benvenuto, ogniun cerca di fare il fatto suo in tutt’i modi che si può: se il Re vuol cosí, che volete voi replicare altro? ché getteresti via il tempo, perché io l’ho aúta ispedita, ed è mia. Or dite voi ciò che voi volete, e io v’ascolterò -. Dissi cosí: - Sappiate, messer Francesco, che io v’arei da dire molte parole, per le quale con ragion mirabile e vera io vi farei confessare che tal modi non si usano, qual son cotesti che voi avete fatto e ditto, in fra gli animali razionali; però verrò con breve parole presto al punto della conclusione ma aprite gli orecchi e intendetemi bene, perché la importa -. Costui si volse muovere da sedere, perché mi vidde tinto in viso e grandemente cambiato: io dissi che non era ancor tempo a muoversi: che stessi a sedere e che m’ascoltassi. Allora io cominciai, dicendo cosí: - Messer Francesco, voi sapete che l’opera era prima mia, e che, a ragion di mondo, gli era passato il tempo che nessuno non ne doveva piú parlare: ora io vi dico, che io mi contento che voi facciate un modello, e io, oltra a quello che io ho fatto, ne farò un altro; di poi cheti cheti lo porteremo al nostro gran Re; e chi guadagnerà per quella via il vanto d’avere operato meglio, quello meritamente sarà degno del colosso; e se a voi toccherà a farlo, io diporrò tutta questa grande ingiuria che voi m’avete fatto, e benedirovvi le mane, come piú degne delle mia d’una tanta gloria. Sí che rimagnamo cosí, e saremo amici; altrimenti noi saremo nimici; e Dio che aiuta sempre la ragione, e io che le fo la strada, vi mostrerrei in quanto grande error voi fussi -. Disse messer Francesco: - L’opera è mia, e da poi che la m’è stata data, io non voglio mettere il mio in compromesso -. A cotesto io rispondo: - Messer Francesco, che da poi che voi non volete pigliare il buon verso, quale è giusto e ragionevole, io vi mostrerrò quest’altro, il quale sarà come il vostro, che è brutto e dispiacevole. Vi dico cosí, che se io sento mai in modo nessuno che poi parliate di questa mia opera, io subito vi ammazzerò come un cane: e perché noi non siamo né in Roma, né in Bologna, né in Firenze - qua si vive in un altro modo - se io so mai che voi ne parliate al Re o ad altri, io vi ammazzerò a ogni modo. Pensate qual via voi volete pigliare: o quella prima buona, che io dissi, o questa ultima cattiva, che io dico -. Quest’uomo non sapeva né che si dire, né che si fare, e io ero in ordine per fare piú volentieri quello effetto allora che mettere altro tempo in mezzo. Non disse altre parole che queste, il ditto Bologna: - Quando io farò le cose che debbe fare uno uomo da bene, io non arò una paura al mondo -. A questo dissi: - Bene avete detto; ma faccendo il contrario abbiate paura, perché la v’importa - e subito mi parti’ dallui, e anda’mene dal Re, e con Sua Maestà disputai un gran pezzo la faccenda delle monete; la quale noi non fummo molto d’accordo; perché essendo quivi il suo Consiglio, lo persuadevano che le monete si dovessin fare in quella maniera di Francia, sí come le s’eran fatte insino a quel tempo. Ai quali risposi che Sua Maestà m’aveva fatto venire della Italia perché io gli facessi dell’opere che stessin bene; e se Sua Maestà mi comandassi al contrario, a me non comporteria l’animo mai di farle. A questo si dette spazio per ragionarne un’altra volta: subito io me ne tornai a Parigi.