La vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze/Libro secondo/Capitolo XXXIII

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Libro secondo
Capitolo XXXIII

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Non fui sí tosto iscavalcato, che una buona persona, di quelli che hanno piacere di vedere del male, mi venne a dire che Pagolo Miccieri aveva preso una casa per quella puttanella della Caterina e per sua madre, e che continuamente lui si tornava quivi, e che parlando di me, sempre con ischerno diceva: - Benvenuto aveva dato a guardia la lattuga ai paperi, e pensava che io non me la mangiassi; basta che ora e’ va bravando e crede che io abbia paura di lui: io mi son messo questa spada e questo pugnale a canto per dargli a divedere che anche la mia spada taglia e son fiorentino come lui, de’ Miccieri, molto meglio casata che non sono i sua Cellini -. Questo ribaldo, che mi portò tale imbasciata, me la disse con tanta efficacia, io mi senti’ subito balzare la febbre addosso, dico la febbre sanza dire per comparazione. E perché forse di tale bestiale passione io mi sarei morto, presi per rimedio di dar quell’esito, che m’aveva dato tale occasione, sicondo il modo che in me sentivo. Dissi a quel mio lavorante ferrarese, che si chiamava il Chioccia, che venissi meco, e mi feci menar dietro dal servitore el mio cavallo; e giunto a casa, dove era questo isciagurato, trovato la porta socchiusa, entrai dentro: viddilo che gli aveva accanto la spada e ’l pugnale, ed era assedere in su ’n un cassone, e teneva il braccio al collo a la Caterina: appunto arrivato, senti’ che lui con la madre di lei motteggiava de’ casi mia. Spinta la porta innun medesimo tempo messo la mana alla spada, gli posi la punta d’essa alla gola, non gli avendo dato tempo a poter pensare che ancora lui aveva la spada, dissi a un tratto: - Vil poltrone, raccomandati a Dio, che tu se’ morto -. Costui, fermo, disse tre volte: - O mamma mia, aiutatemi -. Io che avevo voglia d’ammazzarlo a ogni modo, sentito che ebbi quelle parole tanto sciocche, mi passò la metà della stizza. Intanto aveva detto a quel mio lavorante Chioccia, che non lasciassi uscire né lei né la madre, perché se io davo allui, altretanto male volevo fare a quelle dua puttane. Tenendo continuamente la punta della spada alla gola, e alquanto un pochetto lo pugnevo, sempre con paventose parole; veduto poi che lui non faceva una difesa al mondo, e io non sapevo piú che mi fare, e quella bravata fatta non mi pareva che l’avessi fine nessuna, mi venne in fantasia, per il manco male, di fargnene isposare, con disegno di far da poi le mie vendette. Cosí resolutomi, dissi: - Càvati quello anello che tu hai in dito, poltrone, e sposala, acciò che poi io possa fare le vendette che tu meriti -. Costui subito disse: - Purché voi non mi ammazziate, io farò ogni cosa. - Adunche - diss’io - mettigli l’anello -. Scostatogli un poco la spada dalla gola, costui le misse l’anello. Allora io dissi: - Questo non basta, perché io voglio che si vadia per dua notari, che tal cosa passi per contratto -. Ditto al Chioccia che andassi per e’ notari, subito mi volsi allei e alla madre. Parlando in franzese dissi: - Qui verrà i notari e altri testimoni: la prima che io sento di voi che parli nulla di tal cosa, subito l’ammazzerò, e v’ammazzerò tutt’a tre; sí che state in cervello -. A lui dissi in italiano: - Se tu replichi nulla a tutto quel che io proporrò, ogni minima parola che tu dica, io ti darò tante pugnalate, che io ti faro votare ciò che tu hai nelle budella -. A questo lui rispose: - A me basta che voi non mi ammazziate; e io farò ciò che voi volete -. Giunse i notari e li testimoni, fecesi il contratto altentico e, mirabile!, passommi la stizza e la febbre. Pagai li notari, e anda’ mene. L’altro giorno venne a Parigi il Bologna a posta, e mi fece chiamare da Mattio del Nasaro: andai e trovai il detto Bologna, il quale con lieta faccia mi si fece incontro, pregandomi che io lo volessi per buon fratello, e che mai piú parlerebbe di tale opera, perché conosceva benissimo che io avevo ragione.