La vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze/Libro secondo/Capitolo XXXV

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Libro secondo
Capitolo XXXV

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Tornando allei, mandavo una mia serva che l’aiutassi vestire, la qual serva era una donna vecchia che si domandava Ruberta, amorevolissima; e giunta a questa ribaldella, le portava di nuovo da bere e da mangiare; di poi l’ugneva con un poco di grasso di carnesecca arrostito quelle male percosse che io le avevo date, e ’l resto del grasso che avanzava se lo mangiavano insieme. Vestita, poi si partiva bestemmiando e maladicendo tutti li taliani e il Re che ve gli teneva: cosí se ne andava piagnendo e borbottando insino a casa. Certo che a me questa prima volta parve molto aver mal fatto; e la mia Ruberta mi riprendeva, e pur mi diceva: - Voi sete ben crudele a dare tanto aspramente a una cosí bella figlietta -. Volendomi scusare con questa mia Ruberta, dicendole le ribalderie che l’aveva fatte, e lei e la madre, quando la stava meco, a questo la Ruberta mi sgridava, dicendo che quel non era nulla, perché gli era il costume di Francia, e che sapeva certo che in Francia non era marito che non avessi le sue cornetta. A queste parole io mi movevo a risa, e poi dicevo alla Ruberta che andassi a vedere come la Caterina istava, perché io arei aùto a piacere di poter finire quella mia opera, servendomi di lei. La mia Ruberta mi riprendeva, dicendomi che io non sapevo vivere; perché - a pena sarà egli giorno, che lei verrà qui da per sé, dove che, se voi la mandassi a domandare o a visitare, la farebbe il grande e non ci vorrebbe venire -. Venuto il giorno seguente, questa ditta Caterina venne alla porta mia, e con gran furore picchiava la ditta porta, di modo che, per essere io abbasso, corsi a vedere se questo era pazzo o di casa. Aprendo la porta, questa bestia ridendo mi si gittò al collo, abbracciommi e baciommi, e mi dimandò se io era piú crucciato con essa. Io dissi che no. Lei disse: - Datemi ben d’asciolvere addunche -. Io le detti ben d’asciolvere, e con essa mangiai per segno di pace. Di poi mi messi a ritrarla, e in quel mezzo vi occorse le piacevolezze carnali, e di poi a quell’ora medesima del passato giorno, tanto lei mi stuzzicò, che io l’ebbi a dare le medesime busse; e cosí durammo parecchi giorni, faccendo ogni dí tutte queste medesime cose, come che a stampa: poco variava dal piú al manco. Intanto io, che m’avevo fatto grandissimo onore e finito la mia figura, detti ordine di gittarla di bronzo; innella quale io ebbi qualche difficultà, che sarebbe bellissimo per gli accidenti dell’arte a narrare tal cosa; ma perché io me ne andrei troppo in lunga, me la passerò. Basta che la mia figura venne benissimo, e fu cosí bel getto come mai si facessi.