Le Laude (1915)/XXI. De quello che domanda perdonanza da poi la morte
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XXI
De quello che domanda perdonanza da poi la morte
— O Cristo pietoso, — perdona el mio peccato,
ch’a quella son menato — che non posso piú mucciare.
Giá non posso piú mucciare — ché la morte m’ha ’battuto;
tolto m’ha el solazzare — desto mondo ove son suto;
non ho potuto altro fare, — son denante a te venuto;
èlme oporto el tuo aiuto — ché ’l Nemico volme accusare.
— Non è tempo aver pietanza — po’ la morte del peccato;
fatta te fo recordanza — che tu fusse confessato;
non voleste aver leanza — en quel che te fo comandato,
la iustizia ha ’l principato — che te vole esaminare.
Lo Nemico sí ce vene — a questa entenzagione:
— O Signor, pregote bene — che m’entende a ragione;
che a questo omo s’avene — ch’io lo mene en pregione,
s’io provo la cagione — co el se de’ condennare. —
El Signor che è statera — responde a questo ditto:
— La prova, se ella è vera, — entenderolla a distritto;
ché onne bono omo spera — ch’io sia verace e dritto;
se hai il suo fatto scritto — or ne di’ ciò che te pare.
— Signore, tu l’hai creato — come fo tuo piacemento;
de grazie l’hai ornato, — désteli descernemento;
nulla cosa ha osservato — de lo tuo comandamento;
a cui fece el servemento — lo ne deve meritare.
Ché molto ben sapea — quando tollea l’usura,
al povero si daéa — molto manca mesura;
ma ne la corte mea — li farò tal pagatura,
ch’el non sentí ancura — de que i farò asagiare.
Quando altri li dicía: — Pènsate del finire! —
e quel se ne ridía, — che non credea morire;
cortese so a casa mia, — farollo ben servire;
poi ch’a mi volse venire, — non lo sappi arnunzare.
Se vedea assembiamento — de donne e de donzelli,
andava con stromento — con soi canti novelli;
facea acquistamento — per lui de tapinelli;
en mia corte ho fancelli — che gl’insegnaran cantare.
Se dico tutta storia, — mo è rencrescemento;
ché pur de vanagloria — saría grande strumento;
perché glie torne a memoria — fatto n’ho toccamento;
senza pagar argento — la carta ne fei trare.
Facciane testificanza — l’angelo so guardiano,
se ho detto in ciò fallanza — verso quest’om mondano;
credome en sua leanza, — ché ’l mentir non gli è sano;
pregote, Dio sovrano, — che me degi ragion fare. —
L’angel viene encontenente — a fare testificanza:
— Sappi, Signor, veramente — ch’egli ha detto la certanza;
detto ha quasi niente — de la sua nequitanza;
tenuto m’ha en vilanza — mentre lo stei a guardare.
— Respondi, o malvagione — se hai nulla scusanza;
far ne voglio ragione — de que è fatta provanza;
non avesti cagione — de far tal soperchianza;
far ne voglio vegnanza, — nol pos piú comportare.
— De ciò che m’è provato — nulla scusanza n’agio,
pregote, Dio beato, — che m’aiuti al passagio;
che m’ha sí empaurato — menacciato del viagio,
sí è scuro suo visagio — che me fa angustiare.
— Longo tempo t’ho aspettato — che te dovessi pentire;
con ragion sei condannato — che te déi da me partire;
del mio viso sei privato — che mai nol porrai vedere,
fate gli aversere venire — che ’l degian acompagnare.
— O Signor, co me departo — da la tua visione!
co so adunati ratto — che me menino in pregione!
poi che da te me parto, — damme la benedizione
famme consolazione — en questo mio trapassare!
— Ed io sí te maledico, — d’ogne ben si’ tu privato!
vanne, peccator inico, — che tanto m’hai desprezato!
se me fusse stato amico, — non saríe cosí menato;
a lo ’nferno se’ dannato — eternalmente ad estare. —
E1 Nemico fa adunare — mille de soi con forconi,
e mille altri ne fa stare — che pagono co dragoni;
ciascun lo briga d’apicciare — e cantar le lor canzone;
dicon: — Questo en cor te poni, — ch’è t’opo con noi morare. —
Con grandissima catena — strettamente l’on legato,
a lo ’nferno con gran pena — duramente l’on menato;
poi gridan quelli con l’oncina: — Èsciti fore, — al condennato.
Tutto el popol s’è adunato — e nel foco el fon gettare.