Le Metamorfosi/Libro Terzo

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Libro Terzo

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Publio Ovidio Nasone - Le Metamorfosi (2 a.C. - 8 d.C.)
Traduzione dal latino di Giovanni Andrea dell'Anguillara (1561)
Libro Terzo
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Gia del fallace Toro il falso volto
Giove lasciato havea, prendendo il vero,
E del novo amor suo quel frutto colto,
Che poteva appagare il suo pensiero,
E da quel nodo in breve tempo sciolto
S’era tornato al suo celeste impero.
Tornar non volle Europa al patrio seno,
Conoscendo alterato havere il seno.

Il mesto padre suo non la trovando
Per ritrovarla un stran partito piglia,
Dà con pena del capo à ì figli bando
Dal suo dominio, e da la sua famiglia,
Se non vanno di lei tanto cercando,
Ch’à lui ritornin la perduta figlia,
E fu sì caldo in questo suo desio,
Che si mostrò non men crudel, che pio.

Cadmo, un de i figli suoi, che vuol fuggire
Quell’ingiusti del padre empi decreti,
Cercò per tutto, ove si potea gire,
Ne potè mai di lei gli occhi haver lieti.
Ma chi gl’ inganni mai potria scoprire
Del gran motor del cielo, e de pianeti?
Si volse al fine in sì crudele essiglio
À l’oracol d’Apollo per consiglio.

Poi ch’ al bel regno mio non vuol, ch’ io torni
La legge del mio padre iniqua, e dura,
(Cominciò Cadmo) e ’l resto de miei giorni
Ho da fondare in patria più sicura,
Dimmi, Apollo, ove è ben, ch’io mi soggiorni,
Dov’habbia à por le mie novelle mura
Rispondi, e fa, ch’à tal patria io m’appigli,
Ch’à me sia fausta, à miei nepoti, e à figli.

Un ben maturo, e candido vitello
Ne i più deserti campi incontrerai,
(Rispose Febo), à meraviglia bello,
Che non ha il giogo anchor sentito mai,
Prendi seco il camin, segui , fin ch’ello
Si ferma, e quivi il tuo seggio porrai,
Chiama Beotia poi la tua contrada
Dal bue, ch’hor hor ti mostrerà la strada.

À pena pon fuor di quell’antro il piede,
Dove stà de le Muse il sacro fonte,
Cadmo, che solo un bel giuvenco vede,
C’ha volto il tergo à quel famoso monte,
Dando al consiglio pio d’Apollo fede,
Il passo verso lui drizza, e la fronte,
Febo adora fra se, ch’auttor ne fue,
Con ritenuto piè seguendo il bue.

Già le contrade, che’l Cefiso bagna
Havean lasciate, et eran giunti dove
In una amena, e fertile campagna
Dovea Cadmo fondar le mura nove,
Qui volse il volto à quel, che l’accompagna,
À quel, cui tolse la sorella Giove.
Quel bue, che non curando andar più avante
Mugghiando verso il ciel fermò le piante.

Poi c’hebbe il ciel del suo mugghiar ripieno,
Fermò ne i Tirij la fronte superba,
Come dicesse lor, questo è il terreno,
Questa è la patria, che per voi si serba.
Nel loco poi più nobile, et ameno,
Ch’elegger seppe, si colcò sù l’herba,
Forse per dare à lor più certo segno,
Ch’ ivi dovean fondare il novo regno.

Ringratia Cadmo la fortuna, e ’l cielo,
Che vede il bel giuvenco, che s’atterra,
E pien di santo, e di divoto zelo
Corre à baciar la peregrina terra,
Saluta l’aer sano al caldo, e al gielo,
Che scorge amico à la futura terra,
Saluta i lieti campi, e i monti ignoti,
Co i seguaci di lui non men divoti.

Prima i debiti honori à Febo rende,
Poi con più diligenza al Tiro piacque
Far sacrificio à Giove, e farlo intende
Lì dove à punto il bel giuvenco giacque.
À quel divin misterio ogn’ uno accende,
Poi manda tutti per trovar de l’acque
À investigare à piè de i novi monti,
Dove diano acque vile i sacri fonti.

Non molto lungi una gran selva antica
Facea di spessi rami à se stessa ombra,
Che la scure crudele, et inimica
Mai non havea d’alcuna pianta sgombra,
Qui dove il bosco più folto s’ intrica,
Una rustica grotta il centro ingombra,
Rustico un’ humile arco ha ne la fronte,
Rustica è dentro, et ha nel mezzo un fonte.

Quivi era ascoso un martial serpente,
Di creste, e d’oro horribimente adorno,
Ch’in tre partite havea distinto il dente,
E su la fronte un bellicoso corno.
Il suo collo elevato, et eminente
Ovunque vuol, snoda, e raggira intorno,
E fa scherno col collo agile, e leve
Al dorso suo più faticoso, e greve.

Ne gli occhi un così horribil foco splende,
Che l’huom non puote in lui fermar la vista,
Di fuor la lingua triforcata rende,
E con sibilo horrendo il mondo attrista.
Quando di più color l’ali distende,
Prestezza, e forza al pigro corpo acquista,
Noce assai con la lunga, et agil coda,
La qual non men del collo aggira, e snoda.

Non fa il piè nel ferir minore effetto,
Che l’unghia ha curva, e lacera, e divide.
L’aer, che fuor la bocca essala infetto,
L’herbe, e le piante, e gli animali uccide.
Hor qual fia mai sì valoroso petto,
Ch’estinguer possa le membra homicide ?
Ch’ogni parte, ch’è in lui, nocer si vede,
La coda, il corno, il fiato, il dente, e ’l piede.

Gli sfortunati Tirij, che non sanno,
Che quivi il fier serpente ascoso stassi,
Lieti, e senza sospetto se ne vanno,
E pongon dentro gl’ infelici passi,
Ma risonar la fonte à pena fanno
Con l’urna, ch’à tuffar ne l’onda dassi,
Che l’ali sibilando il drago scuote,
E ’l collo inalza, e stende più che puote.

Come il romore ode la gente Tira,
E vede quel dragon tanto inalzarsi,
Che minaccioso, et empio gli rimira,
E guarda à chi di lor debbia aventarsi,
Da gli estremi del corpo si ritira
Il sangue al core, e lascia i membri sparsi,
D’un subito tremor, che tanto abonda,
Che cadon lor di mano i vasi, e l’onda.

Mentre tiene il timor ciascun sospeso
S’han da tentar la fuga, ò pur la spada,
Fù dal dragone un ne la testa preso,
Per torgli à un tratto l’una, e l’altra strada,
Cadere il lascia poi morto, e disteso
Il mostro, onde ogn’un fugge, e più non bada.
Vede il dragon quel, che tal fuga importa,
E corre ratto anch’ei fuor de la porta.

Sì come un fiume, ch’esce del suo letto
Per troppe piogge rapido, et errante,
À ciò, che l’ impedisce, dà di petto,
E schianta, e rompe le più grosse piante,
Tal quel dragon pien d’ ira, e dispetto
Seguendo quei, che gli han volte le piante,
Per forza apre le macchie, e rompe e passa,
E chi ceder non vuol, schiantato lassa.

Altri uccide co i denti, e altri col fiato,
Quei straccia l’unghia, e quei trafora il corno.
Poi che ’l crudel serpente hebbe mirato
Non haver huom, che non sia morto intorno,
Come un’ eccelsa torre in piè levato
Cercò con gli occhi tutto quel contorno,
E ’l può ben far la mostruosa belva,
Che vede sotto à lei tutta la selva.

Ben grande può parer distesa, e in piede,
Che se vien torta nel suo stato à porse,
Non men grande del drago esser si crede,
Che come un fiume in ciel divide l’Orse.
Hor poi, che ’l mostro incomparabil vede,
Ch’altri non v’è, che possa contraporse,
Distese in terra in varij modi attorti
Gli stanchi membri in mezzo à i corpi morti.

Già nel meridiano era il Sol giunto
Da la nova città, che far si deve,
E stando allhor nel più supremo punto
In quel loco rendea l’ombra più breve,
Quando al lor Re da gran pensier compunto
Pareva l’aspettar noioso, e greve,
E stranamente il cor teneangli oppresso
Maraviglia, e timor d’un mal successo.

Non è per l’orme loro à seguir tardo
Di pelle di leon, forte, et ornato,
Tien ne la destra atto à lanciar un dardo,
La spada al fianco ha dal sinistro lato,
La manca un cerro tien grosso, e gagliardo,
Ch’uno estremo ha d’acciar lucido armato,
Ha il cor poi sì magnanimo, e preclaro,
Che più d’ogni arme val, più d’ogni acciaro.

Come entra, e vede la selva funesta,
E come il troppo sangue il fondo allaghe,
E ’l drago star con elevata cresta
Leccando altier le velenose piaghe,
Forza è, fidi compagni, che di questa
Ingiuria vostra io mi compiaccia, e paghe,
Ó ch’ io vendicherò sì fatto torto
(Disse.) ò qui presso à voi resterò morto.

Ecco, che vede un grave sasso in terra,
Che gli pare atto à far l’hoste morire,
Posa il dardo la destra, e ’l sasso afferra,
per abondare in arme da ferire
Gli tira quel con tal furor, ch’à terra
Un grosso muro havria fatto venire,
Ma l’aurea squama sua sostenne il peso,
E restò da quel colpo il drago illeso.

Se ben non nocque al crudo serpe il sasso,
Pure il fe resentire, e ’l mosse ad ira,
Sbatte l’ali, e la coda, e affretta il passo,
E d’assalire il suo nemico mira.
Vedendo Cadmo l’impeto, e ’l fracasso
Prende tosto di terra il dardo, e tira,
Che le squame passò, la carne, e l’osso,
E fu cagion, che non gli venne adosso.

Perche, come il crudel mostro s’accorse,
Del dardo, che per torgli andò la vita,
À quella parte il curvo collo torse,
E riguardò fu ’l tergo la ferita,
Poi con gran rabbia l’hasta affisa morse,
Ne lasciò fin che non la vide uscita.
E tanto fe, che al fin fuor trasse il cerro,
Ma restò ben ne la ferita il ferro.

Cadmo in quel tempo, ch’era il drago volto
À trarsi il dardo col tenace morso,
Impiagò con l’altra hasta (il tempo colto)
Ne l’altra parte à l’animale il dorso,
Ma come ei fu di quello impaccio sciolto,
Contra al nemico suo rivolse il corso,
Cadmo, ben fermo, in bell’atto si pone,
E la punta de l’hasta al mostro oppone.

Il Drago del suo sangue il ferro opposto
Vede tutto esser tinto, e quello incolpa
Del suo gran male, et imboccandol tosto
Si sfoga contra lui, che non n’ ha colpa,
Ma ben dal duro acciar gli fu risposto,
Che nel palato penetrò la polpa,
Ma l’osso nò, che ’l ferir, ch’ei sentio
À mezzo il corso il fe venir restio.

Non può ne l’osso penetrar la punta,
Che ’l crudel mostro ha ritirato il piede,
E per non far maggior la parte punta,
Ritira il collo, e la persona, e cede,
Cresce ogni hor Cadmo innanzi, e perche giunta
Quell’empia belva à mal partito vede,
Tien nel suo stato l’hasta, e à crescer mira,
Quanto cede il serpente, e si ritira.

Mentre, che in quello stato ogn’un contrasta,
E Cadmo pinge ben la punta ultrice,
E ’l drago cede à l’ impeto de l’hasta,
Acciò che non gli fori la cervice,
Un’alta quercia ogni disegno guasta
Al mostro, e ’l ritirarsi gli disdice,
La dove urtando à caso il tergo offeso,
Piegar fe il tronco il suo soverchio peso.

Il ferro al drago allhor fora la testa,
E perche par, che l’arbor vi consenta,
La coda di vendetta avida, e presta,
La quercia à più poter batte, e tormenta,
L’arbor di lui mal satisfatto resta,
E geme, si rammarica, e lamenta,
Gli par, che faccia, torto il serpe ingiusto
A l’innocente suo sostegno, e fusto.

Mentre nel morto drago egli si specchia,
E considera i membri smisurati,
Una gran voce gl’ introna l’orecchia,
Perchè più (dice) in quel serpente guati,
Se tu ne l’età tua matura, e vecchia
Non sai, che t’habbian destinato i Fati?
La serpe hor miri tu, che più non serpe,
E serper tu sarai mirato serpe.

Scorger non si potè da cui venisse
La voce, pure uscir s’udì dal cielo,
E di colore, e d’animo smarrisse
Il tiro, et arriccioglisi ogni pelo,
Mentre stava così, gli apparve, e disse
Minerva, accesa d’amichevol zelo,
I denti al drago cava, e spargi in terra,
Se vuoi fondar la destinata terra,

Così detto la Dea disparve presto,
E lasciò quel signor tutto smarrito,
Che non sa s’egli dorme, ò s’egli è desto,
Da tante novità viene assalito,
Pur desioso di vedere il resto,
Da poi, che si fù alquanto risentito,
Per obedir la Dea si fe bifolco,
Con l’aratro à la terra aprendo il solco.

Su’l campo arato quei denti comparte.
E poi fa, che l’aratro gli ricopra,
Indi si mette à rimirar da parte,
Che frutto mieterà di sì stran’opra.
Non molto stà, che molte punte sparte
Di fino acciar vede apparir di sopra,
E percosse dal Sol rendeano il lampo,
Che rende il ferro di molt’haste in campo.

Ecco, che l’hasta appar già fuori un piede,
E mentre ei mira, à che questo riesce,
La penna, e ’l morion la terra eccede,
Di più d’un cavalier, che di sotto esce.
Il busto già d’ogni guerrier si vede,
E tutta via la nobil biada cresce,
Già mostra i fianchi, e gli altri membri ornati
La nobil messe di guerrieri armati.

Tal se ’l theatro il ricco razzo adorna,
Mentre s’inalza al ciel la seta, e l’opra,
De le varie figure, ond’ella è adorna,
Prima lascia apparir la testa sopra,
Poi secondo ch’al panno alzan le corna
Le corde, fa, che ’l busto si discopra
Come poi giunge al segno ivi si vede
D’ogni effigie ogni membro insino al piede.

Cadmo, che vede sì superba gente,
E tanto ben’ armata, e ben disposta,
De i denti nata del crudel serpente,
Ch’ei pur dianzi atterrò, da lor si scosta,
Prende le solite armi immantinente,
E in buona guardia la persona posta,
L’aspetta, e fermo tien, che quelle squadre
Cerchin vendetta à l’ infelice padre.

Quando un di quei, che nacquer de la terra,
Che in atto il vide di voler ferire,
Non impedir la civil nostra guerra,
(Disse) e fra noi la lascia diffinire.
Così dicendo addosso ad un si serra,
E con la spada ignuda il fa morire,
Ecco lui fere un dardo à l’ improviso,
E fa, che l’uccisor rimane ucciso.

Questo homicida anchor, che con lo strale
L’altro homicida havea morto atterrato,
Fu ferito da un colpo aspro, e mortale,
D’una hasta, che gli aperse il manco lato,
E spirò quello spirito vitale,
Che pur dianzi gli havea la terra dato.
Così l’un contra l’altro empi, e ribelli
S’uccidon tutti i miseri fratelli.

Quelle due squadre coraggiose, e pronte
Voglion morire, ò guadagnar la lite,
E questi, e quelli mostrando la fronte
Caggion per le reciproche ferite.
Così se ’n vanno al regno d’Acheronte
Le così poco incorporate vite,
Il corpo cade, à cui lo spirto è tolto,
Battendo à la sanguigna madre il volto.

Già s’era à cinque il numero ridutto,
Quando un di lor detto Echinon già cede,
E getta l’arme da Minerva instrutto,
E pace à gli altri suoi fratelli chiede.
Gli altri deposta ogni discordia al tutto,
D’eterna pace si donar la fede,
Questi hebbe il Tiro valoroso, e degno
Compagni per fondare il fatal regno.

Cadmo dopo sì vario, e gran periglio
Tebe veduto havea crescer di sorte,
Ch’in questo suo non meritato essiglio
Si potea contentar de la sua sorte,
Havea più d’un nipote, e più d’un figlio,
E la più bella, e più saggia consorte,
Ch’al mondo fosse in qual si voglia parte,
E per soceri havea Venere, e Marte.

Che gran felicità, che gran contento
Vedersi una famiglia sì fiorita,
E cominciata haver dal fondamento
Una città sì nobile, e fornita?
Ma, che? nessun si può chiamar contento
Fin à l’estremo punto de la vita.
Fortuna ogni suo gaudio in pianto volse,
E ’l contento, c’havea, tutto gli tolse.

Cadmo un nipote havea d’una sua figlia,
Felice lui se non l’havesse havuto,
Ch’anchor serene havria le meste ciglia,
Che non si piange il ben non conosciuto,
Cortese era, e leale à maraviglia,
Da tutto quanto il Regno ben voluto,
Grato, giocondo, e di piacevol faccia,
E sopra modo vago de la caccia.

Un caso strano al misero intervenne,
Il maggior infortunio non fu mai,
E di quanti parlar l’antiche penne,
Tutti gli altri avanzò questo d’assai.
Da lui Diana offesa un dì si tenne,
Ma non l’offese, e tu Fortuna il sai,
E se ben quel meschin Diana incolpa,
Tu sai pur, che fu tua tutta la colpa.

Io scuso in parte la silvestre Dea,
C’hebbe à pensar di tempo poco spatio
De la pena, ch’à lui donar dovea,
Che non havria sofferto sì gran stratio,
Ch’ogni vil can, che l’ infelice havea,
S’havesse à far de l’heril sangue satio.
Ben saria stata di pietade ignuda,
Se fosse stata in lei voglia sì cruda.

Questo infelice (ch’era Atteon detto)
Soleva à caccia andar quasi ogni giorno,
Ne si togliea talhor da tal diletto,
Se ’l ciel pria non vedea di stelle adorno.
Un dì, che’l bosco havea di sangue infetto
Di belve senza fin, non fe soggiorno
Fin che ’l sol s’attuffasse à star con Teti,
Ma fe più tosto assai raccor le reti.

Già nel cielo era il Sol cresciuto tanto,
Che discopriva il declinar del monte,
E da l’occaso era discosto quanto
Gli era lontano il contrario orizonte.
Teneano l’ombre de le cose intanto
Tutte al Settentrion volta la fronte,
Quand’ei levò da quei cocenti ardori
Gli affaticati cani, e i cacciatori.

Ben’è stato il diletto hoggi compito,
Ben’hoggi havuto il fato habbiam secondo,
Che veggio il sangue in favor nostro uscito,
À tutto il bosco haver macchiato il fondo,
Già fra Favonio, et Euro compartito
Ha con ugual distantia Apollo il mondo,
(Disse) e fia bene homai ritrarre i passi,
E ricreare i corpi afflitti, e lassi.

Tosto i nodosi, e insanguinati lini
Da i pali si disciolgano bicorni,
Poscia ov’ han più grat’ ombra i faggi, e i pini
Ciascun prenda riposo, e si soggiorni:
Come di perle adorna, e di rubini
La desiata Aurora à noi ritorni,
E faccia à pien del novo giorno fede,
Tenteremo altre caccie, et altre prede.

Ó sfortunato giovane, che fai ?
Ch’al riposo de i can tanto riguardi?
Perche quest’otio, e quiete lor dai?
Perche possan seguirti più gagliardi?
Ó misero infelice, perche stai?
Che non cacci anchor hoggi insino al tardi?
Se in questi boschi hai già spenta ogni fera,
Che non cerchi altre caccie insino à sera?

Già desioso ogn’un de la quiete
Fa quanto egli far dee per riposarsi,
Chi sotto un faggio, e chi sotto un’ abete,
Non lungi l’un da l’altro erano sparsi.
Altri guarda la preda, altri la rete,
I can si veggon rispirando starsi,
Col penoso essalar, con lordo morso
Mostran quanto hanno il di pugnato, e corso.

Vicino al loco, ove à prender riposo
Gli afflitti caciator s’erano messi,
V’era una valle amena, e un bosco ombroso
Di molto antichi pini, e di cipressi,
Dove era un’ antro assai remoto, e ascoso,
Ignoto insino à paesani stessi,
Sola il sapea la cacciatrice Dea,
Ch’ivi il caldo del dì fuggir solea.

Detta Gargafia è quella nobil parte,
Di cui tenea la Dea silvestre cura,
Non è la grotta fabricata ad arte
Ma ben l’arte imitato ha la natura.
Un nativo arco quell’antro comparte,
Ch’in mezzo è posto à le native mura,
Tutta d’un fragil tufo è la caverna.
La fronte, i lati, e anchor la volta interna.

Goccia per tutto intorno la spelonca,
E un chiaro fonte fa dal destro lato,
Dove più basso à guisa d’una conca,
La natura quel tufo havea cavato.
Forma la goccia il tondo, e poi si tronca.
Ne stillamento v’è continovato,
Ma per più gocce sparse un ruscel cresce,
Ch’empie quel vaso, e poi trabocca, e n’esce.

De l’antro il ciel, che natura compose
Da le gocce, e dal gel diviso, e rotto
V’ha mille varie forme, e capricciose,
Ch’esser mostran d’artefice ben dotto.
Tronchi ovati, e piramidi spugnose
Vi pendon, ch’al gocciar fanno acquedotto.
Compartimento ha tal, che lo scarpello
Nol potria far più vago, ne piu bello.

Qui star solea la Dea silvana spesso
Per fuggir il calor del mezzo giorno,
Dove giunta hora, e le compagne appresso
L’arco in man d’una diede, i dardi, e ’l corno.
L’aureo sparso suo crin sottile, e spesso
Raccoglie un’altra, e poi l’avolge intorno,
Poi glie lo lega in capo in un bel modo
Con un leggiadro, e maestrevol nodo.

Chi le slaccia i coturni, e scopre il piede,
Altra le spoglia la succinta veste,
E l’una à l’altra in ben servir non cede,
Ma stanno pronte, vigilanti, e preste.
Come la Dea spogliata esser si vede,
Non vuol, ch’alcuna fuor vestita reste,
E ignude se n’entrar (come à lei piacque)
Ne le dolci, tranquille, e lucid’acque.

Mentre si stan le Ninfe ivi adunate,
Senza sospetto alcun liete, e sicure,
E si lavan le membra delicate
Ne le dolci acque, cristalline, e pure,
E con parole accorte, honeste, e grate
Passan quell’hore sì noiose, e dure,
Atteon, ch’ à diporto iva soletto,
Venne à caso in quest’antro à dar di petto.

Si come piacque à l’empio suo destino,
S’era à compagni l’infelice tolto,
Ch’altri prono, altri in fianco, altri supino
Veduto havea nel sonno esser sepolto.
Entrò in quel bosco, che’l cipresso, e ’l pino,
Et altri arbori fanno ombroso, e folto,
Tanto, che ’l trasse il piacer, che n’havea,
Dov’era ignuda la silvestre Dea.

Come son d’Atteon le Ninfe accorte,
Ch’ in lor tien gli occhi stupidi, et intenti,
E veggon, ch’egli le ha già ignude scorte,
Con muti, e rotti gemiti, e lamenti
Batton le mani, e ’l sen, non però forte,
Per c’han vergogna; e misere, e dolenti
Le parti ascondon, che natura asconde
Dentro à le trasparenti, e limpide onde.

Confuse tutte cercan far coperchio,
Ch’egli ignuda la Dea non vegga, e note,
E le fan mormorando intorno un cerchio,
E lei coprono, e lor più che si puote.
Ma il capo lor sovrastà di soverchio,
Ne può la Dea celar le rosse gote,
Le gote più, che mai tinte, et accese,
Per la troppa vergogna, che la prese.

Come si tinge una nube nel cielo,
Che da l’averso Sol venga percossa,
Come al tor del notturno ombroso velo
La parte Oriental diventa rossa:
Tal la sorella del signor di Delo
Si tinge in viso, e da grand’ira mossa
Si duol, ch’in man non ha gli strali, e l’arco,
Per levarsi quel biasmo, e quello incarco.

Subito volta à lui la bassa fronte,
E non havendo altre arme da valerse
Prese con ambe man l’acque del fonte,
E ’l miser con quell’acque ultrici asperse.
Hor voglio, se potrai, che tu racconte,
Come Diana ignuda si scoperse.
Questo gli disse la sdegnata Dea,
Che fu indicio al gran mal, c’haver dovea.

Vede intanto l’irata cacciatrice,
Ch’à venir la vendetta non soggiorna,
Ch’à lui già crescon sopra la cervice,
Di cervo à poco à poco un par di corna.
Il naso entra nel viso, e la narice
Resta aperta più sotto, e ’l mento torna
Dentro in se stesso, e in modo vi sì serra,
Che la bocca vien muso, e guarda in terra.

Quello aspetto sì vago, e sì giocondo,
D’animal brutto nova forma prende,
S’allunga il collo, e dove egli era tondo,
Diventa piatto, e per lo taglio pende.
Se di peli ei fu già purgato, e mondo,
Hor novo pel tutto macchiato il rende.
Da quattro piè quel corpo hor vien sospeso,
Che già dava à due piè soverchio peso.

Quel subito timor, quella paura,
Che suol ne i cervi stare, à lui s’aggiunge,
E vedendo ogni Ninfa già sicura,
Che forte il grida, e minaciando il punge,
Dove la selva è più frondosa, e scura,
Fuggendo và da lor, più che può lunge.
Si marviglia ei, che non sà l’ intero
De l’esser suo, di correr sì leggiero.

Mentre il paese via correndo sgombra,
Dal corso un’acqua limpida l’arresta,
Ma come scorge ne la sua nova ombra,
Le nove corna, e la cangiata testa,
Si tira adietro attonito, e s’adombra,
E sì questo l’affligge, ange, e molesta,
Che vi torna più volte, e vi si specchia,
E non può ritrovar l’ombra sua vecchia.

Mentre il meschin, misero me dir vole,
Queste son ombre vere, ò pur son finte?
Trova, che più non può formar parole
Di più sillabe unite, over distinte.
Gemere è ’l suo parlar, come far sole
Il cervo, e le novelle luci vinte
Dal duolo interior, stillan di fuore
Per lo volto non suo novo liquore.

L’antica mente sol di lui riserba,
Hor che farà l’afflitto trasformato ?
Rivedrà la sua regia alta, e superba,
Tra suoi regij parenti in quello stato ?
Ó quivi pascerà le ghiande, e l’herba,
Fra mille dubbij, e morti impregionato?
Misero lui, ne quel, ne questo agogna,
Questo il timor non vuol, quel la vergogna.

Mentre fra se col non perduto ingegno
Trovar pensa al suo mal pur qualche scampo.
Fù sentito da i cani, e ne dier segno
Col solito latrar Tero, e Melampo.
Fà, vinto dal timor, tosto ei disegno
D’uscir del bosco in ben’ aperto campo,
Che sì leggier si sente esser nel corso,
Che non pensa trovar miglior soccorso.

Pensa forse avanzar tanto nel piano,
Che i can debbian di lui perder la vista,
E poi salvarsi in Ermo più lontano,
Così perdendo il bosco, ò il campo acquista,
Ma gli uscirà questo disegno vano,
Che già del folto esce una turba, mista
Di cani, di cavalli, e cacciatori,
Empiendo il ciel di strida, e di romori.

Acquista il cervo per quella campagna,
E mostra haver la gamba più leggiera,
I veltri, Turchi, d’ltalia, e di Spagna,
Son men discosto à la cacciata fera.
Di Corsica i can grossi, e di Bertagna
Fan dopo i veltri una più grossa schiera,
Son quei, che ’l sentir pria più lungi, e stanchi
I bracchi de la Marca, e i livrier Franchi.

Scorre il veloce cervo, e valli, e monti,
E salta fossi, e macchie, e passa via,
Per linea retta i can veloci, e pronti
Gli corron sempre à traversar la via.
Il passar spesso di fossi, e di ponti
Tien molto à dietro la cavalleria,
Gli equestri cacciator non son sì presso,
Perche impedita è lor la via più spesso.

Colui, che più vicin segue la traccia,
Siasi sorte, ò giudicio, ò il destrier buono,
Per far sapere à gli altri ov’è la caccia,
Dà fiato al corno, e fa sentire il suono.
Quei, che non sanno ove voltar la faccia
Per la distantia, che infiniti sono,
Che ’l vario corso gli ha sparsi d’ intorno,
Si drizzan tutti ove gl’ invita il corno.

Già il cervo preso havea tanto vantaggio,
Che non era lontan forse à salvarsi,
Ma venne l’ infelice in quel viaggio
In due sue gentil’huomini à incontrarsi,
C’havean del mezo dì fuggito il raggio
In quella parte, ove hora eran comparsi,
Che nel cacciar di prima eran perduti
Da gli altri, al maggior caldo ivi venuti.

Hor mentre à riposarsi erano à l’ombra,
Su’l mezzo giorno i lassi cavalieri,
Quel gran rumor l’orecchie loro ingombra
Di can, di cacciatori, e di destrieri,
Subito l’uno, e l’altro il bosco sgombra
Co i freschi veltri à lassa atti, e leggieri
Che si sforzan sentendo gli altri cani
A più poter d’uscir lor de le mani.

Quei veltri con gli orecchi alti, et intenti
Dan più scosse hor da questo, hor da quel canto
E fan gemendo certi lor lamenti,
Con certo flebil suon, che mostran quanto
Han voglia d’ ire à insanguinare i denti
Ne l’animal, ch’anchora è lungi alquanto,
Ma quei cacciator pratichi, et accorti,
Per far lassa miglior gli tengon forti.

Già mai nel volto à l’animal cacciato,
Quando incontro ti vien non dei far lassa,
Per ch’egli sguinza lo scontro da un lato,
E scorrer lascia il cane, e innanzi passa.
Il veltro dal grand’ impeto sforzato
Non può tenersi, e trasportar si lassa,
E la fugace belva acquista molto
Prima che possa il can voltarle il volto.

Hor’ ecco il cervo affaticato, e lasso
Con debil corso, e con la lingua fuori,
Che giunge al tristo, e sfortunato passo,
Dove l’attendon quei due cacciatori.
Egli, che gli conosce affrena il passo,
E ferma gli occhi in quei suoi servidori,
E detto havrebbe (s’havesse potuto)
Il Signor vostro io son, datemi aiuto.

Ma le parole mancano à la mente,
E non può esprimer fuor quel che vorria,
In vece di parlar gemer si sente
Pure ai suoi servi il suo gemito invia,
Quei, ch’el veggon fermato, immantinente
Gli van di dietro, e i can lascian gir via,
Il cervo, che lasciarsi i veltri vede,
Affretta più che può, lo stanco piede.

E per quei luoghi, ov’ egli havea seguito
Più volte fiere assai, ò vien seguito esso:
Ma già si vede il corso haver fornito
Ch’è stanco, e i freschi veltri ha troppo appresso.
Ecco nel fianco l’ha Tigri ferito,
Licisca in una orecchia il dente ha messo
E l’han già inginocchiato al suo dispetto,
Stracciando à più poter l’ignoto petto.

Quivi in tanto arrivar su i lor cortaldi
Quei, che lasciaro i can poco lontano,
E paion ben volonterosi, e caldi,
Che ’l cervo ucciso sia per la lor mano,
Giunti no’l toccan già, ma stando saldi
Tutti cercan con gli occhi il monte, e ’l piano,
E questi, e quegli, Atteon chiama, e grida,
Accio ch’Atteon sia, che il cervo uccida.

Il cervo al nome suo leva la testa,
E par, che dica; Io son, dammi soccorso:
Ma l’uno, e l’altro can tanto il molesta
Ch’à lor si volge, e placar cerca il morso.
Questo, e quel cacciator gridar non resta,
E far segno al Signor, ch’ affretti il corso,
Al lor Signor, che già credon scoprire
Fra quei, che di lontan veggon venire.

Giunge intanto de i can la prima schiera
De i presti veltri affaticati, e ingordi
Di far sul dorso à la cacciata fera
I musi loro insanguinati, e lordi.
Ei, che non ha la sua favella vera,
Gemendo prega i can spietati, e sordi,
E inginocchiato à lor si raccomanda,
Volgendo il volto à questa, e à quella banda.

Questo, e quel di quei due diventa roco,
E si duol, che ’l Signor non è presente,
Ne può gustar di quel piacere un poco,
Di sì degno spettacolo niente.
Ma il miser, che non è fuor di quel loco,
Ne vorrebbe del tutto esser absente,
Che vede esser per lui spettacol tale,
Ch’altri gusta il piacere, ei sente il male.

E tanto più, ch’ogni altro cane è giunto,
E par, che mordan tutti quanti à prova.
Ne più si vede nel suo corpo un punto,
Da poter darvi una ferita nova.
Così Atteone al fin steso, e defunto
Da i cacciator, che giungono, si trova.
E così vendicata esser si dice
La Dea contra quel giovane infelice.

Per questo in gran romore il mondo venne
Per la gran crudeltà, ch’ usò Diana.
E la parte maggior conchiuse, e tenne,
Che fu troppo crudele, et inhumana.
Non mancò già chi ’l contrario sostenne
Che per servarsi et incorrotta, e sana
La fama d’esser vergine, e sincera,
Doveva in quel castigo esser severa.

Sopra ogni altro Giunon la loda forte,
Che ’l facesse morir con quel martoro,
Non per ragion, ma perch’ella odia à morte
Cadmo co i figli, e tutto il sangue loro.
L’odia, che per Europa il suo consorte
Già non si vergognò di farsi un toro,
Per una hor più che mai sospira, e langue,
De l’odioso à lei Sidonio sangue.

Giunon sapea non senza gran dolore,
Ch’ à Giove il core ardea nova facella,
Che Semele godea d’ingiusto amore,
Ch’allhora il primo havea grado di bella
Figlia al primo di Thebe Imperatore,
A cui già tolse il toro la sorella.
Hor quel, che fa Diana, le rammenta,
Com’ella à vendicarsi è troppo lenta.

Oime, che da ciascun vendetta è presa
Contra questa impudica, e infame gente,
E Giunon, che n’è più d’ogni altra offesa,
Si stà da parte, e non se ne risente.
Ogni alma illustre di giust’ ira accesa,
Di desio di vendetta arma la mente,
Io stommi, e ogn’una homai Giove mi toglie,
E pure io son di lui sorella, e moglie.

Sorella io ben gli son; ma moglie in vano
Mi chiamo più di lui, se più no ’l godo,
S’ogn’ hor l’empio figliastro di Vulcano
Con novo amor me ’l toglie, e novo modo.
Ma ben di questo amore al tutto vano
Farò quel forte indissolubil nodo,
Ond’ha legato il mio marito, e preso,
Con modo non più usato, e non più inteso.

Regina esser del ciel detta non voglio,
Ne seder più sul mio sublime seggio,
Se non isfogo in modo il mio cordoglio,
Ch’à lei desiderar non sappia peggio.
Madre del seme, ond’io madre esser soglio,
Vuol farsi, e già n’è grave, à quel, ch’ io veggio,
Del seme del maggior celeste padre,
Di cui sola Giunon debbe esser madre.

Contra lei vendicarmi in una volta
Voglio, e contra l’ingiusto mio consorte;
E farò, che costei sarà sì stolta,
Che di sua bocca chiederà la morte.
E vorrò, che le sia la vita tolta
Da Giove suo, da chi l’ama sì forte.
Così s’avolge in una nube, e scende
In terra, e verso Thebe il camin prende.

Non pria da se la Dea la nube sgombra,
Che di forma senil tutta si veste.
Fà bianco il crin, di color morto adombra
Il volto, e crespe fa le guance meste.
Al volto antico quell’aria, e quell’ombra,
Quel velo al capo, al dosso quella veste
Dà, ch’una vecchia balia hoggi usa, et have,
Che tien del cor di Semele la chiave.

Sapea tutto il suo amor, tutto il suo intento
Beroe Epidaura, di colei nutrice.
Il tardo parlar suo, l’andar suo lento
Ben finger sà di lei l’ imitatrice.
Hor preso un vario, e gran ragionamento
La Dea con quella giovane infelice,
L’aggira con grand’arte, e al fin la move
À ragionar sopra l’amor di Giove.

Quanto è, che seco non fece soggiorno
Le chiede, e come Amor per lei l’accenda.
Ella risponde, e non passa mai giorno,
Ch’egli per troppo ardor dal ciel non scenda.
Pur dianzi se n’andò, fia di ritorno
Diman, secondo ha detto, ch’ io l’attenda.
E sempre, ch’egli viene, ha per costume
Porsi meco à giacer sù queste piume.

Sospira dal profondo del suo petto
La finta Dea, con non finto sospiro,
Perche quel, che la giovane l’ha detto,
Ha raddoppiato in lei l’odio, e ’l martiro.
Bramo, che questo sia Giove in effetto,
Ch’ogni dì teco adempie il suo desiro,
Perch’altri (disse) con mentiti aspetti
Macchiar più volte i più pudichi letti.

Non basta, ch’egli dica essere Dio,
Se non dà del suo amor più certo pegno,
Però se vuoi seguire il parlar mio,
Vo, che sopra di ciò tu chieda un segno,
Che come ei per dar loco al suo desio,
À te discende dal celeste regno,
Non venga, come suol, sotto human velo,
Ma con la maestà, ch’ei stà nel cielo.

Venga nel suo decoro, e seco porte
Le regie insegne, e ’l suo divin splendore,
Come quand’egli và da la consorte,
Per tor piacer del coniugale amore.
Così fe, ch’ella dimandò la morte,
Che non vedendo il simulato core
De la finta nutrice, il dì, che venne
Il mortal don da lui non cauto ottenne.

Senza scoprir qual dono, un don gli chiede,
Ma vuol, che Giove pria prometta farlo.
Egli, ch’altro non brama, altro non vede,
Che piacere al suo amore, e contentarlo.
Acciò ch’ella habbia indubitata fede,
Che se ’l promette, egli è per osservarlo,
Per quel fiume infernal promette, e giura,
Ond’hanno gli alti Dei tanta paura.

La giovane mal cauta, e desiosa
Di veder cose sopr’ humane, e nove,
Non sapendo la morte essere ascosa
Per lei nel don, ch’ella vorria da Giove,
Gli dice humil la fronte, e vergognosa,
Che come amor ver lei di nuovo il move,
Ne la sua maestà celeste vegna
Con l’arme innanzi, e con la regia insegna.

Nel modo, ch’à la sposa ei s’appresenta,
Quando vuol seco il coniugal diletto.
Di darle Giove in sù la voce tenta,
Ma non può far, che ella non l’habbia detto.
Gli preme, e duolsi, e più, che si rammenta
Del giuramento stigio, ond’ è costretto
Di compiacere in modo à desir sui,
Che lui privi di lei, e lei di lui.

Giove da questo error cerca ritrarla,
Mostrando il grave mal, ch’ indi s’aspetta:
Ma tutto quel, che le suade, e parla,
Rende la donna incauta più sospetta,
E quanto più difficile nel farla
Di ciò contenta il trova, più l’affretta,
Che già suspition l’ ha presa, e vinta,
Per quel, ch’udì da la nutrice finta.

Vedendo al fin, ch’ogni suo priego è vano
Si torna Giove al cielo, ove si veste,
Del suo splendore, e poi di mano in mano
Di nuvoli, di venti, e di tempeste,
E di lampi, e di tuoni, e al fine in mano
Toglie il terribil folgore celeste,
Non però il più dannoso, anzi si sforza,
Di scemargli l’ardor, l’ ira, e la forza.

Non quel, ch’arse il centimano Tifone
Toglie, che troppo è quel tremendo, e fero,
Ma fra quei di minor conditione
Sceglie il manco nocivo, e ’l più leggiero,
E così Giove contentò Giunone,
Che colei non potè l’aspetto vero
Soffrir di lui quando in tal forma apparse,
E de l’amante il don l’accese, et arse.

L’infante, che nel corpo era imperfetto,
De l’ infelice donna, che s’accese,
Che del seme di Giove havea concetto,
Dal ventre, ch’aprir fece il padre prese,
E se creder vogliam quel, che vien detto,
Con tanta industria à quel fanciul s’attese,
Ch’unito un tempo a l’utero del padre,
Finì quei mesi, onde mancò la madre.

Quando fu poi perfetta, e ben matura
La degna prole, ch’ in due ventri crebbe,
Giove da se spiccolla, e ne diè cura
Ad Ino, una sua Zia, che cura n’hebbe,
La qual, se ben di Giuno havea paura,
Non mancò al nipotin di quel, che debbe,
À le Ninfe Niseide il diè di notte,
Ch’ascoso il nutrir poi ne le lor grotte.

Questo fu il padre Bacco, e l’ inventore
Del meglior culto à la feconda vite,
Che la dolce uva, e quel divin liquore
Porge al sostegno de le nostre vite.
Hor mentre egli è d’ogni periglio fuore,
Giunon, che star non suol mai senza lite,
Vedendo in vista assai turbato Giove,
Per più turbarlo un’altra lite move.

Stassi Giove turbato per la morte,
Ch’ogni sua gioia, ogni suo ben gli ha tolto,
E ’l punge, e rode quel pensier di sorte,
Che qual sia dentro il cor fuor mostra il volto,
Di questo s’affligea la sua consorte
Che scorgea il suo desio lascivo, e stolto,
E questo tal travaglio, e duol l’apporta,
C’ ha gelosia di lei, se bene è morta.

Ne può tenersi d’ ira, e rabbia accesa,
Vinta dal duol, che non le venga detto,
Che cosa tanto v’ ha la mente offesa,
Che vi fa sì turbato ne l’aspetto?
Pensate forse à nova rete tesa,
Per farmi ogni hor star vedova nel letto,
Pensier nel ver da trarne honore, e frutto
Degno di quel gran Dio, che regge il tutto.

Infinite ragion creder mi fanno,
Ch’à l’huom maggior contento amore arrechi,
Poi che ’l poter sì spesso usa, e l’inganno
Per venire à quegli atti infami, e biechi,
Correte al vostro biasmo, al vostro danno
Per soverchia lascivia insani, e ciechi,
Che ’l fin d’amor per voi soave è tanto,
Che vi fa la vergogna por da canto.

Ma ben nacquer le donne per sentire
Tutti quanti i martir, tutte le doglie,
L’esser gravida, e ’l duol del partorire,
E ’l nutrir tocca à la scontenta moglie,
Questo è il nostro piacer, questo è ’l gioire,
Questo frutto d’amor per noi si coglie.
Ciò, che di male ha il matrimonio, è ’l nostro,
Ma il piacere, e ’l contento è tutto il vostro.

Maraviglia non è dunque, s’amore
Del foco suo così spesso v’accende,
E non curate punto de l’ honore,
Tal gioia, e tal piacer da voi si prende.
Non ci pensate più, sfogate il core,
Gite à trovar l’amica, che v’attende,
E senza haver d’honor, ne d’altro cura,
Date luogo al diletto, e à la natura.

Non potè far’ allhor, che non ridesse
Giove, bench’altro havesse in fantasia,
Udendo le querele strane, e spesse,
Che la moglie movea per gelosia.
Ne si potè tener che non dicesse
Che dava qualche inditio di follia
À dir, che l’huom più si compiaccia, e goda,
Quando con la consorte amor l’annoda.

E se par, c’habbia l’huom maggior piacere,
Ch’ei prega, ei serve, ei narra il suo martoro,
E con difficultà le donne havere
Può, se non spende i prieghi, il tempo, e l’oro:
Questo avien, che le leggi fur severe,
Che conoscendo l’ingordigia loro,
Fer come infame esser mostrata à dito
Donna, ch’altri godea, che ’l suo marito.

Che se non raffrenasse questo alquanto
Quel desio, che le donne hanno di nui,
L’huom pregato saria da tante, e tanto,
C’huopo non gli saria pregare altrui.
Questo è quel, che vi tien: che se far quanto
Stà bene à l’huom, lecito fosse à vui,
Sareste al proferir tanto per tempo,
Che l’huom non spenderia priego, oro, ò tempo,

E che questo sia il ver, pogniamo mente
À chi pon maggior cura in adornarsi,
Le donne sol per allettar la gente,
Altro non studian mai, che belle farsi.
Ben vede questo ogn’un palesemente,
Io non parlo di quel, che dee celarsi,
Che voi, se come à l’huom vi fosse honesto,
Fareste à la scoperta anchora il resto.

Ben raddoppia in Giunon l’orgoglio, e l’ira,
Quella ingiusta, et infame opinione,
E tanto più le preme, e se n’adira,
Quanto più vede, ch’egli al ver s’oppone,
Trova, che quel piacer gli homini tira
Fuora d’ogni honestà, d’ogni ragione,
Ne tien, che tanto à loro aggradi, e giove,
Da poi che tanto non le sforza, e move.

Replica, e dice, e pur cerca provare,
Che l’huom più dolce frutto, gusta, e coglie,
E gli la lascia à suo modo sfogare,
E in patientia ogni cosa si toglie.
Al fin sì il punge, ch’ei risponde, e pare
Più il marito ostinato, che la moglie,
E vuol, che ne le donne al suo dispetto
Sia senza paragon, maggior diletto.

Dopo molto garrir conchiuso fue,
Per por silentio al lor ridicol piato,
Che dicesse ciascun le ragion sue
Ad un, che maschio, e femina era stato.
Fu femina una volta, e maschio due,
Un’ huom, ch’era Tiresia nominato,
E spesso hor donna, hor huom gustati havea
I frutti del figliuol di Citherea.

Più strano caso mai non fu sentito,
Più degno di memoria, e di stupore,
Ch’essendo questi un giorno à caso gito
In un bosco à fuggir le più calde hore,
Vide due serpi, la moglie, e ’l marito,
Che congiunti godean del lor amore.
Et con un cerro à lor battendo il tergo
Fe, ch’al lor fin cercar più occulto albergo.

À pena dà ne l’auree, e vaghe pelli,
Che gli vien l’esser suo di prima tolto,
Manca la barba, e cresce ne’ capelli,
Si fa più molle, e delicato il volto,
S’ ingrossa il petto, e fuggon tutti i velli,
Si ritira entro al corpo, e stà sepolto
Quel, che distingue da la donna l’huomo,
Tal che si trova donna, e non sa como.

Trovo, che la Natura ha molto à sdegno
Chi impedisce i diletti naturali,
E se n’adira forte, e talhor segno
Ne fa con varij, et infiniti mali.
Dispiacque à la Natura, che quel legno
Tolse gli abbracciamenti lor carnali
À gl’indolciti serpi, e dimostrollo
Allhor, ch’ irata disse, e trasformollo.

Del sesso io voglio farti per tua doglia,
Che tanto ingordo quel diletto agogna,
Acciò che, quando n’haverai più voglia,
T’ impedisca il baston de la vergogna.
Ma ’l vezzo rio seguì la nova spoglia,
E de l’honor schernendo ogni rampogna,
Poco passò, che per esperienza
Havria potuto dar quella sentenza.

Si sà ben proveder secretamente
Per satisfar la sua voglia impudica
Tiresia, ma non tanto, che la gente
Nol veda, non ne mormori, e nol dica.
Ahi come donna si scuopre sovente
De l’honor, di se stessa, poco amica,
Ch’à dishonesto amor ceda, e compiaccia,
Pensando, che si celi, e che si taccia.

Ben fortunata si può dir colei,
Che non dà orecchie à dishonesto invito,
E che può far, che la ragione in lei
Vinca il pensier lascivo, e l’appetito.
Ó ben felice cinque volte, e sei,
Chi si sa contentar del suo marito,
E non la lega altro impudico nodo,
Che son gli huomini al fin tutti ad un modo.

Vide, dopo sette anni, che fu donna,
La serpe sotto à l’amorosa soma,
E disse, s’à turbargli l’huom s’indonna,
Io vò provar, se la donna s’ inhuoma,
Gli batte, e un saio allhor sì fe la gonna,
Crebbe la barba, e s’accortò la chioma,
Spianossi il petto, e quel, ch’era nascosto
Uscendo, il fe per huom conoscer tosto.

E s’è ver quel, che molti hanno affermato,
Quand’ei l’ultima volta gli batteo,
Volle il colpo ritrar, c’havea menato,
Ma calato era troppo, e non poteo:
Che trovò sempre in feminile stato,
Come più volte esperienza feo,
Venere assai più dolce, e più soave,
E però il tornar huom le parea grave.

Vò (disse) ad ogni modo castigarti
Ver lui (ch’era anchor donna) la Natura.
E intendo il tuo maggior piacer levarti,
Poi che non hai de la vergogna cura.
E quanto erra colui, vo anchor mostrarti,
Che d’impedir l’altrui gioia procura,
E così tolse il ben più dolce à lui,
Per la dolcezza, c’havea tolto altrui.

À questo eletto giudice s’espose,
La di ridicol merito tentione,
Il qual senza pensarvi su, rispose,
E la sententia diè contro Giunone.
Le man, sdegnata, addosso ella gli pose,
E fuor d’ogni dover, d’ogni ragione,
Come s’havesse à lei fatto uno scorno,
Gli occhi innocenti suoi privò del giorno.

Così perpetua notte il miser hebbe,
Per pagamento de la sua sentenza,
E’l Re del cielo, à cui molto n’increbbe,
Sofferse, che ’l facesse in sua presenza:
Però che giusto à un Dio già non sarebbe
A l’oprar d’altro Dio far violenza,
Pur, per ricompensar quel rio destino,
De le cose future il fe indovino.

Così diè Giove ricompensa in parte
Al miser huom, ch’havea perduto il lume,
E, per dirlo la Fama in ogni parte
Tosto spiegò le sue veloci piume,
Come in Beotia un cieco v’è, che l’arte
D’indovinar il ver, saper presume.
E in poco tempo da tutte le bande
Vi concorse à trovarlo un popol grande.

Quel vuol saper il fin d’una sua lite,
E quell’altro il successo d’una guerra,
Chi di fanciulli le future vite,
Chi s’uno absente è vivo, over sotterra.
Innamorate, e gelose infinite,
Corron da tutti i lati de la terra,
Ei (secondo, che lor la sorte viene)
Predice ad altri il male, ad altri il bene.

D’una Ninfa arse già lo Dio Cefiso,
Detta Liriope, che di Teti nacque,
E potè tanto il suo leggiadro viso,
Ch’ei la sforzò ne le sue limpid’acque.
N’hebbe ella un figlio, nomato Narciso,
E dato che fuor l’hebbe, andar le piacque
À quel, che l’occhio esteriore ha scuro,
Ma con l’interior vede il futuro.

Dove, poi che fu giunta, dimandollo,
Che per virtù de la sua profetia
Al figlio predicesse, c’havea in collo,
La sorte de la sua stella natia.
No’l potendo veder, con man toccollo,
Poi con questo parlar la mandò via,
Ch’un viver lungo à lui saria concesso,
Pur chè non conoscesse mai se stesso.

Parve per lungo tempo van quel detto,
Ne la madre ne fu mesta, ne lieta,
Se non dapoi, che ne seguì l’effetto,
Che fe vera la voce del profeta.
Ahi strano amore, ahi troppo caldo affetto,
Da far i sassi intenerir di pieta,
Che togliesti à quel misero la vita,
Ne l’età sua più verde, e più fiorita.

Dal dì, che l’empio suo destino, e fato,
Diè per natale al misero garzone,
Sopra tre lustri era tre volte andato
Apollo da la Vergine al Leone,
Quand’egli un volto havea sì bello, e grato,
Ch’ innamorava tutte le persone,
Di qual si voglia grado, e qualitade,
D’ogni affar, d’ogni sesso, e d’ogni etade.

Le fattezze del viso eran sì belle,
Ch’ogni volto più bel fean parer nullo:
Erano in modo adulte, e tenerelle,
Ch’io non so s’era giovane, ò fanciullo,
E maritate, e vedove, e donzelle,
Ardean de l’amoroso suo trastullo,
Non v’era cor sì mondo, ne sì casto,
Che non havesse allhor macchiato, e guasto.

Ma fu cotanto altier, che non tenea
De le più scelte vergini pur cura.
Se l’amor virginal non gli premea,
Dove più l’huomo invita la natura,
Ben può pensarsi quel, che far dovea
Di qualche donna vedova, e matura.
Si riputò sì bel, nobile, e degno,
C’havea ciascun, fuor che se stesso, à sdegno.

Vide un dì quelle luci alme, e gioconde,
Vide le bianche, e le vermiglie gote
Una Ninfa, ch’al dir d’altrui risponde,
Ma cominciare à dire ella non puote,
Replica il tutto, ma il parlar confonde,
E lascia solo udir l’ultime note:
Che mentre l’uno, e l’altro à dire attende,
Il parlar, che precede, non s’intende.

Costei, ch’Ecco chiamossi, e chiama anchora,
Che parla sol da l’altrui dir commossa,
Voce sola non fu nuda, com’hora,
Ma forma, e quantità di carne, e d’ossa,
Ben che com’hor quell’infelice allhora,
D’esser prima al parlar non havea possa.
L’ira il principio al dir tolto l’havea
De la sempre gelosa, e mesta Dea.

Un parlare hebbe già tanto soave
Questa, à cui manca hor la loquela intera,
Che mai non hebbe il mondo, e manco hoggi have,
Donna di tanto affabile maniera.
Ogni aspra cura faticosa, e grave,
Fatta havria dolce, facile, e leggiera.
E l’usò sempre mai con buona mente
Schivando risse, e scandali sovente.

Questa mirabil Ninfa ornata, e bella,
Fra Ninfe, fra Silvani, e fra Pastori,
Con l’eloquente sua dolce favella
Acchetava ogni dì mille romori.
La gelosa Giunone al fin fu quella,
Che tolse al suo parlar tutti gli honori,
Perche le sue parole ornate, e colte,
L’havean nociuto mille, e mille volte.

Havuto havea Giunon spesso sospetto,
Che ’l marito non fosse accompagnato,
E mentre già per ritrovarlo in letto
Com’egli suol, con qualche Ninfa à lato:
Costei per obviar per buon rispetto,
Che qualche error poi non ne fosse nato,
Intertenea la Dea col suo bel dire
Tanto, c’havesser tempo di fuggire.

Giunon de le parole al fin accorta,
Che tante volte intertenuta l’hanno,
Disse, La lingua tua sì dolce, e scorta,
Più non m’ingannerà, s’ io non m’ inganno,
Io farò si la sua favella morta,
Che per l’ innanzi io non havrò più danno,
Io farò, che potrà parlar sì poco,
Che non potrà mai più farmi tal gioco.

E ben diè tosto effetto à i desir sui
Havendo in lei per sempre stabilito,
Che mormorasse al ragionar d’altrui,
E ’l fin sol del parlar fosse sentito.
Hor vede à pena il viso di colui
Sì bel, che ’l brama haver per suo marito,
E ’l vorria ben con le sue dolci note
Persuader, ma cominciar non puote.

Ella, ch’al dir d’altrui solo risponde,
Stà muta, e non ardisce di mostrarsi,
Anzi teme, e nel bosco si nasconde,
E per un pian vedendol diportarsi,
Fura il bel viso suo fra fronde, e fronde,
Con gli occhi, e cerca ogn’hor più d’accostarsi,
Il mira, e gli occhi in lui sì fiso intende,
Che col suo foco Amore il cor le accende,

Come à una face ben secca, che senta
Il foco ardere à lei poco discosto,
S’alcun quel legno à le fiamme appresenta
À ricever il foco atto, e disposto,
Pria che giunga talhor, ratto s’aventa
Una fiamma, e l’accende, e l’arde tosto,
Tal’ ella al foco suo volle accostarse,
E innanzi al giunger suo s’accese, et arse.

Mentre l’accesa Ninfa il segue, e ’l vede,
E questa, e quei tien muta la favella,
Urtando à caso in certe frasche il piede
Fece alquanto romor la Ninfa bella.
Come il romore à lui l’orecchia fiede
S’adombra, e mira in questa parte, e in quella.
E quei forse qualch’un, disse ei primiero,
Qualch’un, dapoi diss’ella, e disse il vero.

Diè quel parlare à lui gran meraviglia,
Che scorger non potè d’onde s’uscio,
E gira intorno pur l’avide ciglia,
Indi in questo parlar le labbra aprio,
Non ti vegg’io, ella il parlar ripiglia,
E chiaro udir gli fece, ti vegg’io,
Narciso in quella parte gli occhi porge,
Ma teme ella, e s’asconde, e non la scorge.

Stupisce quei de le parole ascose,
E guarda intorno cinque volte, e sei,
Vien quà, poi disse, ella, vien quà rispose.
E chiamò quel, c’havea chiamata lei.
Di novo intorno à riguardar si pose,
E disse, io t’odo, e non so chi tu sei,
So chi tu sei (diss’ella) e ben sapea,
Che sol di lui, e di null’altro ardea.

Diss’ei bramoso di sapere il resto,
Poi, che tu sai chi son, godianci insieme.
Ó come volentier rispose à questo,
Che sopra ogni altro affar questo le preme,
Dice, godianci insieme, et esce presto
Del bosco, e si discopre, e più non teme,
Che quel parlar dà manifesto aviso,
Ch’ivi potrà goder del suo Narciso.

Mentre al collo sperato ella distende,
Per volerlo abbraciar, l’avare braccia,
Da quegli abbracciamenti ei si difende,
Quando fugge da lei, quando la scaccia,
Non t’amo (ei dice) ella il parlar riprende,
E dice t’amo, e poi forz’è, che taccia,
Ne amar ti voglio (ei segue) e la rifiuta,
Dice ella, amar ti voglio, e poi stà muta.

Narciso al fin si fugge, e non la vuole,
E da giovane, e sciocco si governa,
Ahi come ella fra se si lagna, e dole,
Vedendosi sì bella, e ch’ei la scherna,
E s’havesse l’antiche sue parole,
E potesse dar fuor la doglia interna
Pianger fariano i suoi muti lamenti
La terra, il cielo, e tutti gli elementi.

Quanto sia la sua vita aspra, e noiosa,
Mostra lo stratio de le chiome bionde,
Si batte, e graffia, e comparir non osa
Fra l’altre, e ne le selve si nasconde,
Si vive in qualche grotta cavernosa,
Dove tal volta à l’altrui dir risponde,
E cresce ogn’hor più l’amoroso foco,
Che l’arde, e la consuma à poco à poco.

Quel foco ch’entro la distrugge, e coce,
L’humore, e ’l sangue in grosso aer risolve.
E tanto consumando al corpo noce,
Che la carne si fa cenere, e polve.
Al fin sol le restar l’ossa, e la voce,
Ma tosto l’ossa in duri sassi volve.
Stassi hor ne gli antri, d’ossa, e carne privo
Quel suon, che solo in lei rimaso è vivo.

Oltr’à costei disprezza, hor quelle, hor queste
Narciso, e l’Amadriadi, e le Napee,
Ne mover lo potria forma celeste,
Minerva, ò Citherea, con l’altre Dee.
Fra tante, e tante disprezzate teste
Chiese ragione à le bilance Astree
Una, c’havendo al ciel le luci fisse,
Con le braccia elevate così disse.

Astrea, ch’in man la retta libra porti
De la giustitia del celeste regno,
Facci ragion di mille, e mille torti
Contra costui, c’ ha tutto il mondo à sdegno.
Fa, che talmente Amor seco si porti,
Che nel mondo n’appaia illustre segno.
Fa, c’habbia quel contento à i desir sui,
C’ha dato ei sempre, et è per dare altrui.

Replicò forte cinque volte, e sei
La Ninfa i giusti suoi prieghi, e lamenti.
Ó come bene essaudir gli Dei
Pria, che i suoi raggi Apollo havesse spenti,
La giusta oration, che fe colei,
Il suo cordoglio, i suoi sospiri ardenti,
Ch’uno amor prese lui più folle, e strano,
Che mai nascesse in intelletto humano.

Dentro un’ombrosa selva, à piè d’un monte,
Dove verdeggia à lo scoperto un prato,
Sorge una chiara, e cristallina fonte,
Che confina à la linea di quel lato,
Che quando equidistante à l’Orizonte
De l’Orto, e de l’Occaso è il Sole alzato,
L’ombrosa spalla del monte difende,
Che ’l più cocente Sol mai non l’offende.

Quel chiaro fonte è sì purgato, e mondo,
E l’acqua in modo è lucida, e traspare,
Che ciò, ch’egli ha nel suo più cupo fondo
Scoperto à gli occhi altrui di sopra appare,
Hor mentre il Sol dà il maggior caldo al mondo
Nel punto, ch’è principio al declinare,
Amor menò costui per castigallo
À questo puro, e liquido cristallo.

Arso dal Sole, e da la caccia stanco
Brama il riposo, e più trarsi la sete,
Allenta l’arco, e toglie i dardi al fianco,
Per darsi, dopo il bere, à la quiete;
Ma più trist’acqua egli non bevve unquanco
Di questa, e fu per lui l’onda di Lete,
Di questa, che fin pose à gli anni sui,
E fu quel giorno il mal fonte per lui.

Mentre à gustare il suo dolce liquore
L’avide, e secche labra il fonte tira,
Una sete maggior gli cresce al core
Di se, che l’ombra sua ne l’onda mira.
Come guardar ne l’onda il vede Amore,
La saetta dorata incocca, e tira,
El cor d’un van desio tosto gl’ingombra,
E fa, che s’innamora di quell’ombra.

La vaga, e bell’imagine, ch’ei vede,
Che ’l corpo suo ne la fontana face,
Che sia forma palpabile si crede,
E non ombra insensibile, e fallace.
In tutto à quello error si dona, e cede,
E di mirarla ben l’occhio compiace.
E l’occhio di quell’occhio acceso, e vago
Gioisce di se stesso in quella imago.

Come statua di marmo immobil guata
Il bel volto ne l’onda ripercosso,
E loda ne la guancia delicata
Il ben misto color candido, e rosso.
Gli par, ch’al Sol la chioma habbia levata,
Et à Venere il viso, à Marte il dosso.
E loda, essalta, et ammira in colui
Tutto quel bel, che fa mirabil lui.

Loda di se medesmo il degno aspetto,
Mentre quel di colui lodare intende.
E se ’l desio de l’ombra gli arde il petto,
Un gran desio di lui ne l’ombra accende.
E di ciò vede un evidente effetto,
Che gli atti, che le fa, tutti gli rende.
Se ’l volto à lei pietoso inchina, e porge,
La medesma pietà ne l’ombra scorge.

Mosso da una speranza vana, e sciocca,
Che gli dà quell’imagine divina,
Accosta in atto di baciar la bocca,
E quei tende le labra, e s’avicina.
Ecco, che quasi già l’un l’altro tocca,
Ch’un alza il viso in su, l’altro l’inchina.
Vien questo al caldo, e dolce bacio, e tolle
Di semplice acqua un sorso freddo, e molle.

L’acqua mossa da lui turbata ondeggia,
E fa mover l’imagine, e la scaccia.
Egli, pensando, che fuggir si deggia,
Stende per ritenerla ambe le braccia.
Quel moto fa, che l’ombra più vaneggia,
E move in modo il viso, che minaccia.
Ei nulla stringe, e torna à mirar fiso,
E teme le minacce del suo viso.

Non sà quel, che si veda, ò che si voglia,
Non trova quel, che cerca, e pure il vede.
E questo è, che ’l consuma, e che l’addoglia,
Che ’l perde allhor, che d’acquistarlo crede.
Accresce il cupido occhio ogn’hor la voglia,
E dona sempre à quell’error più fede.
L’ombra è già ferma, e non minaccia, ò fugge,
Ei mira, e più, che mai si sface, e strugge.

O misero, e infelice, che rimiri
Più ’l simulacro tuo vano, e fugace?
Non vedi, che colui, per cui sospiri,
L’ombra è, che ’l corpo tuo ne l’onda face?
Non vedi menticato, che t’aggiri,
E che folle desio ti strugge, e sface?
Ben puoi veder se sei insensato, e cieco,
Che vai cercando quel, c’hai sempre teco.

Tu ’l porti sempre teco, e mai nol lassi,
E starà sempre quì, fin che ci stai,
E se quindi ritrar potessi i passi,
Ti seguiria senza lasciarti mai.
Io veggo gli occhi tuoi bagnati, e lassi,
Ma non satij però de i finti rai.
Tu lagrimi per lui, quei per te piange,
E d’ambi il pianto in un s’incontra, e frange.

Hor l’ infelice innamorato, e stolto
Vedendo pianger lui sì caldamente,
Ne gli amorosi lacci il crede involto,
E c’habbia anch’ei per lui calda la mente,
Di novo apre le braccia, e china il volto,
Quel con atti scambievoli consente,
Questo da ver si china, ei s’alza, e finge.
Questo di novo abbraccia, e nulla stringe.

Non la cura del cibo, ne del sonno
Distorre il può dal radicato errore.
Quel pensier nel suo cor già fatto donno
Tutto il dà in preda à quel fallace amore.
E gli occhi innamorati più non ponno
Levarsi dal gioir del lor splendore,
E di se stessi son vaghi di sorte,
Che condurran quell’ infelice à morte.

Si leva al fine, e manda gli occhi in giro,
E mostra il fonte, che’l consuma, e coce
À i boschi intorno; e con più d’un sospiro
In questa forma articola la voce.
Voi selve, che l’ardente mio desiro
Vedete in parte, e ’l mal, che sì mi noce,
Ascoltate per Dio quel, che dir voglio,
Et udirete in tutto il mio cordoglio.

Selve; che’I vostro honor, ch’al cielo è asceso,
E ’l piede, che di voi tende à l’inferno,
Havete tanti secoli difeso
Dal gran rigor de l’indiscreto verno,
E più d’un cor d’amor ferito, e preso,
(Che sfogò qui tal volta il duolo interno)
Veduto havete, ditemi per Dio,
Se mai vedeste amor simile al mio?

Strana legge d’Amor, mi piace, e ’l vedo,
Ne trovo quel, che vedo, e che mi piace:
E allhor, ch’ io ’l prendo, e stringerlo mi credo,
Più libero il ritrovo, e più fugace.
Io conosco il mio errore, e me n’avedo,
E so, ch’io credo à quel, che m’è mendace,
E sì accecato Amor m’have, e percosso,
Ch’ io cerco quel, che ritrovar non posso.

E perche maggior doglia io vi racconte,
Chi mi toglie la via? chi nol comporta?
È forse largo mare ? ò alpestre monte ?
Grossa parete? ò ben fermata porta?
Oime, che m’impedisce un picciol fonte,
Fa un picciol rio la mia speranza morta.
Ei vuol, ch’io l’ami, à voti miei risponde,
Ma il negan le gelose, et invide onde.

Che s’io per dargli un bacio à lui m’inchino,
Per dar quel refrigerio à la mia doglia,
Ei col suo dolce viso, e resupino
Ver me dimostra la medesma voglia.
Qual tu ti sia, mortal viso, ò divino
Vien fuor, deh fa ch’ i’ nel mio sen t’accoglia,
Lascia il nemico fonte à noi non grato,
E trastulliamci insieme in questo prato.

Ahi come male il mio pregar si prezza,
Perche non esci homai? che fai? che tardi?
Oime che l’età mia, la mia bellezza
Non si doveria fuggir, se ben ci guardi.
Ahi, che l’aspetto mio, la mia vaghezza,
Le mie vermiglie guance, e i dolci sguardi
Son tali, ch’ogni altro occhio se n’accende,
E solo il tuo mi schiva, e vilipende.

In te non so pur che di speme io scorgo,
Che mostri un viso amabile, e discreto,
Le braccia porgi à me, s’à te le porgo,
Se lieto à te mi mostro, à me tu lieto,
S’io piango, che tu lagrimi m’accorgo,
E mostri ragionar, s’io non sto cheto,
Ma il dolce suon de le tue mute note
Le nostre orecchie penetrar non puote.

Ahi, che pur’ hora ti conosco, e intendo,
Tu sei l’imagin mia, se ben riguardo,
E ’l mio splendor, che di quà su ti rendo,
Da sì bel lume al tuo soave sguardo.
Io sono, io son colui, ch’il foco accendo,
E del medesmo foco io son quel, ch’ardo.
Quel lume l’occhio tuo da me si fugge,
Ch’in me riflette, e mi consuma, e strugge.

Conosco, ch’esso è me, e ch’io son’ esso,
Tanto, ch’ io son l’amante, io son l’amato.
Che debbo far? debb’io pregar me stesso?
Ó pur debbo aspettar d’esser pregato?
Chiederò forse quel, c’ho sempre appresso?
Quel, che nel corpo mio stassi informato?
Oime, che la ricchezza à me fa inopia,
E pover son, per troppo haverne copia.

Potessi almen da questo corpo mio
Prendendo un’ altro corpo separarmi,
Lasciando in lui però la forma, ch’io
Amo tanto in colui, che veder parmi:
Che se fosse in due corpi un sol desio,
Si potria trovar via da contentarmi,
Ma già non posso (essendo un sol soggetto)
Questo petto goder con questo petto.

Già l’alma il gran dolor preme sì forte,
Dar non potendo il suo contento al core,
Che per me sento avicinar la morte,
Ne la mia verde età, su ’l più bel fiore.
E più m’incresce, che con ugual sorte
Morendom’io, quel, ch’è nel fonte, more.
S’uccide me, non lascia in vita lui
Morte, e se ne toglie un, ne toglie dui.

À me per me non duol questa partita,
Mancar dovendo il mio dolor con lei,
Mi grava ben, che non rimane in vita
Colui, che piace tanto à gli occhi miei.
Ma il dolce fonte mi richiama, e invita
À mirar quel, ch’anchor toccar vorrei.
Così dicendo ritornar gli piacque
À rimirar le sue mortifere acque.

Lagrima, e lagrimar l’amato viso
Vede, e vuol pur toccarlo, e turba l’onda,
E mira il simulato suo Narciso,
Che par, che fuggir voglia, e si nasconda.
Ovunque l’onda il manda, ei l’occhio fiso
Tien sempre, e’l pianto ogn’hor cresce, et abonda.
Se non vuoi, ch’io ti tocchi, ne che t’oda
(Disse) lascia, ch’almen l’occhio ti goda.

D’ira acceso in se stesso, e di dispetto,
Poi, ch’egli al suo gran mal sì caldo intende,
Co i pugni chiusi l’ innocente petto
Percote, pur la veste gliel contende.
Per dare al batter suo maggior effetto,
Leva la spoglia, e quello ignudo offende,
Si batte, e duolsi, e dassi in preda al lutto,
E par de l’intelletto uscito al tutto.

L’eburneo petto suo così percosso,
Si sparse d’una nobile tintura
Prese un misto color di bianco, e rosso,
Qual mela suol haver non ben matura:
Ó come uva, che l’acino ha già grosso,
Che già rosseggia, e tende à farsi oscura,
Si vestì d’un color, d’una maniera,
Che ’l fe più bello assai, che pria non era.

Hor come anchor si specchia, e che s’accorge
Di quelle carni tenere di latte,
E ’l bel cinabrio sì ben misto scorge
In quelle parti ignude, sì ben fatte,
L’amoroso desio più caldo sorge,
Di palpar quelle membra anchora intatte,
E se ben egli sa, che nulla abbraccia,
Gli è forza in quello error tuffar le braccia.

L’onda si move, et ei si duol, che fugge,
Lascia fermarla, e torna à rimirarsi,
E sì cresce il desio, tanto l’adhugge,
Che dove ardea, comincia à liquefarsi.
Così nel forno il metallo sì strugge,
Che comincia al principio ad infocarsi,
Et infocato ogn’hor si fa più molle,
Tal, che come acqua al fin liquido bolle.

Già manca il bel color vermiglio, e bianco,
Mancan le forze sue, manca il vigore,
Il suo bel viso, e ’l splendor vien manco,
Che già prese Ecco, hor’ à lui strugge il core.
Ecco anchor, che sdegnata, non di manco
Ha sempre accompagnato il suo dolore,
Replicò ciò, che mai Narciso disse,
E fe, che’l fin del suo parlar s’udisse.

Al suon, che’l batter de le man rendea,
Quando il petto, e la man battea sì forte,
Ella col suon medesmo rispondea,
Diss’egli all’ombra, ecco ho per te la morte,
Ecco ho per te la morte (ella dicea)
E rimembrava la sua cruda sorte.
Dice egli al fin, me ’n vò, rimanti in pace,
Ella dice il medesmo, e poi si tace.

Lo smorto volto al fin su l’herba verde
Posa, e ’n quel van pensier si stà pur fiso,
E tanto à poco à poco il vigor perde,
Che la morte s’alberga nel suo viso,
Le luci, che satiar non si poter de
Gli usati sguardi in quel finto Narciso,
À specchiarsi se’n gir, di carne ignude,
Ne la nera infernal Stigia palude.

Lo spirto di quel vano amante, e stolto
Quando fu giunto à l’onde d’Acheronte,
In quel medesmo error trovossi involto,
E rimirossi in quel pallido fonte.
Il petto si batter, graffiarsi il volto,
E le chiome stracciar sparse, et inconte
Le Naiade di lui meste sorelle,
E l’Amadriade, e l’altre Ninfe belle.

Ecco con lor il suo strider confonde,
E lascia solo udir l’ultime note,
Ma graffiarsi, e stracciar le chiome bionde
(Non havendo più il corpo) ella non puote,
Ma ben finge quel suono, e gli risponde,
Che fan, se palma à palma si percote.
E s’una dice, ahi quel bel lume è spento,
Ella il ridice, e narra il suo tormento.

Già preparata havean la pira, e ’l foco
Per far le sacre essequie al corpo estinto,
Ma non trovar cadavero in quel loco,
Dove l’uccise il suo bel viso finto.
Fatto era il corpo del color del croco,
Un fior da bianche foglie intorno cinto.
E sì leggiadro, e nobile è quel fiore.
Che parte anchor ritien del suo splendore.

La fama di Tiresia allhor ben crebbe,
E n’hebbe tosto tutto il mondo aviso,
Come il saggio pronostico effetto hebbe,
C’havea già fatto al figlio di Cefiso.
Il caso in vero à tutto ’l mondo increbbe
De la spietata sorte di Narciso,
E ben, ch’altero ei non stimasse alcuno,
Pur tal bellezza à pietà mosse ogn’uno.

Tal credito la morte al Cieco diede
Di chi de l’ombra acceso havea Cupido,
Che tutto il mondo in lui prese tal fede,
Ch’egli havea, più che mai, concorso, e grido.
Fra tutti è Penteo sol, che non gli crede
Sprezzator de gli Dei, nemico, infido,
Nipote al primo Imperator di Thebe,
Che ridea del concorso de la plebe.

E seguitando il suo costume, e rito,
Disse sprezzando il profetar del vecchio,
Ben’ è ciascun di voi del senno uscito
À chi perduti ha gli occhi dando orecchio.
Quel, cui supplisce la mente, e l’udito
In quel, che manca l’uno, e l’altro specchio,
Pronosticando le future cose,
Contra Penteo infedel così rispose.

Felice te, se quando un tuo cugino
À Thebe torni, havrai perduti gli occhi,
Sì, che non vegga il suo culto divino,
E ’l tuo tristo infortunio in te non scocchi.
Allhor saprai, s’io son buono indovino,
Ne terrai questi augurij vani, e sciocchi,
Allhor per non veder quel divin Nume
Ti saria meglio haver perduto il lume.

Che non volendo adorar lui nel tempio,
Sì come certo io so, che non vorrai,
Del sangue tuo per dare à gli altri essempio,
Citero, il nobil monte infetterai.
E con cor verso te sdegnato, et empio,
Tua madre, e le tue zie correr vedrai.
E ti dorrai con tua gran doglia, e pianto,
Ch’essendo io cieco habbia veduto tanto.

Mentre ha de l’altre cose anchora in petto
Da dire intorno à questo il sacerdote,
Penteo superbo il turba; ma l’effetto,
Che ne dovea seguir, turbar non puote.
Che già l’eterno giovenil aspetto
Di Bacco torna à le contrade ignote,
Ignote à lui, che fu menato altrove
Poi che due volte il vide nascer Giove.

Havea Tiresia antiveduto il giorno,
Ch’ivi lo Dio Theban dovea tornare,
E detto à Thebe, et à le ville intorno,
Ch’ à più poter s’havesse ad honorare.
V’era concorso già tutto il contorno,
Per voler la gran festa celebrare,
Con varij suoni, insegne, e simulacri
In honor di quei riti ignoti, e sacri.

Disse Tiresia, al cui divino ingegno
Il popol tutto già si riportava,
Che si mostrasse un manifesto segno
Di gaudio al Teban Dio, che ritornava,
E ch’era la ruina di quel regno,
Se con divoto cor non s’adorava,
C’honorar si dovea per divin Nume
E celebrar l’ignoto suo costume.

Fù per decreto publico ordinato,
Che con gran pompa incontro à lui s’andasse
Fin’ al monte Citero, ove adunato
Il popol, quella festa celebrasse.
E che secondo il suo grado, e ’l suo stato
Ciascun più, che potesse, s’adornasse.
Così fu dal consiglio stabilito,
E da chi n’hebbe il carico, esseguito.

De la più ricca veste, e nobil velo
Orna il corpo ogni donna, orna la testa,
E nobili, e plebei con santo zelo
Corron, ciascun con la più degna vesta.
E di pampini ornato in mano un telo
Tengon, secondo il rito de la festa,
E rallegrano il cielo, e gli Elementi
Con varij canti, e musici istrumenti.

Sparsi, et incoronati hanno i capelli
Le donne, et hanno in quella festa à porsi
Non solamente gli habiti più belli,
Ma spoglie di leon, di lupi, e d’orsi.
Cinte han le spade anchor sopra le pelli,
Tal, che v’eran molti huomini concorsi,
Non per la festa sol, ma per le donne
Per vagheggiarle in quelle nove gonne.

Mostra ogn’un quanto cerchi, e quanto brame
Di venerar lo Dio del lor bel regno,
Quel batte un ferro in un vaso di rame,
Quel suona un corno, un timpano, od un legno.
Così per dar ricetto à novo essame
D’api, con varij suoni si fa segno,
Quanto à gli agricultor contento apporti
Dar loro albergo, et esca ne’ lor horti.

Bacco lontan da lor ben venti miglia
S’è d’oro, e d’ostro alteramente ornato,
E con pomposa, e nobile famiglia
Di pampini, e nove uve incoronato,
Vien sopra un carro bello à maraviglia
Da quattro tigri horribili tirato,
Che ’l morso leccan lor nemico, e duro
Bagnato d’un buon vin soave, e puro.

Havea già dato Apollo un’hora al giorno,
E stava à rimirar vago, et intento
Quel nobil carro riccamente adorno
Di fino, e ben contesto oro, et argento,
Sopra una ricca porpora, ch’ intorno
Faceva al carro un ricco adornamento:
Et ei col raggio suo, che ’l percotea,
Molto più bello, e lucido il rendea.

Quando si mosse il gran carro eminente
Di pampini, e di frondi ornato, e bello,
Distinto essendo ogni ornato talmente,
Che questo non togliea la vista à quello,
Sopra il suo capo egual si stà pendente
D’oro, e di gemme à piombo un gran crivello,
Da spessi buchi, e piccioli forato,
Non senza gran misterio à lui dicato.

Per voler gire al seggio, ov’egli è assiso,
Per instabili gradi vi si sale.
Vergine, e bello, e gratioso ha il viso,
E la fronte benigna, e liberale.
Ha quasi sempre in boccha un dolce riso,
E veste una lorica trionfale
Di capi adorna di diverse fere,
Di pardi, di leoni, e di pantere.

Innanzi, e dopo il carro, ove ei sedea,
Venia diversa, et ordinata gente,
La più divota, e ch’osservato havea
Dapoi, c’hebbe occupato l’Oriente
Quel, che di giorno in giorno egli facea,
Con più sincera, e ben disposta mente,
Plebe assai, pochi illustri huomini, e donne,
Varij di lingue, e d’effigie, e di gonne.

Innanzi al carro tre vanno ad un paro
Varij d’aspetto, d’habito, e d’honore.
Quel di mezzo è ’l più degno, e ’l più preclaro,
Più bello, e più disposto, et è il Vigore.
L’ illustre viso suo nitido, e chiaro
Fa fede del robusto suo valore,
E dimostra ne gli atti, e ne l’aspetto,
D’essere un’ huom temprato, e circospetto.

Da man destra al Vigor segue un’ huom fosco,
Che mostra haver’ in lui poca ragione.
La chioma ha rabbuffata, e l’occhio losco,
E porta in vece d’arme un gran bastone.
E quanto stender puote il morto bosco,
Fa star discosto tutte le persone.
Non usa di ferir con fromba, ò dardo,
Che non gli serve di lontan lo sguardo.

Questo è il Furor, pericoloso à fatto,
E ciascun fugge di conversar seco,
Però, ch’ egli và in colera in un tratto,
E gira in cerchio quel baston da cieco.
Ferisce sempre mai da presso, e ratto,
Ma non tardi, ò lontan, che l’occhio ha bieco.
E se pure à ferir discosto ardisce,
Trova sempre fra via chi l’impedisce.

L’Ira và sempre dietro à questo insano,
Che ’l viso ha magro, macilente, e brutto.
Il capo ha secco, picciolo, e mal sano,
Che spesso poco fumo empir suol tutto.
Di serpi ha un mazzo ne la destra mano,
E quando ha pien di fumo il capo asciutto
Con quei punge il Furor, seco s’adira,
E quel col suo baston si ruota, e gira.

Da man manca al Vigor non molto appresso
Segue il Timore, e sta sempre in paura.
Và sbigottito, timido, e dimesso,
E intento mira, e pon per tutto cura.
Và muto, e non si fida di se stesso,
Vuol tal volta parlar, ne s’assicura.
Se parla al fin, col dir basso, et humile,
Mostra l’animo suo meschino, e vile.

Non ardisce il Furor guardar nel viso,
E gli par sempre haver quel legno adosso,
E teme, ch’ei nol coglia à l’improviso,
Da qualche humore irragionevol mosso.
Però si sta con l’occhio in su l’aviso,
Per fuggir via prima che sia percosso.
Ne crede il vil d’ogni fortezza ignudo,
Che ’l Vigor sia bastante à fargli scudo.

Il Vigor, che fra lor nel mezzo è posto,
Che va sì poderoso, e tanto altero,
Non può far, che ’l Timor non stia discosto,
Ne assicurargli ’l suo sì vil pensiero.
Se’n va il Vigore in modo ben disposto,
Che non tien conto del Furor sì fiero:
Pur se ben và con sì sicuro petto,
Gli sta lontano anch’ei per buon rispetto.

Segue da poi su ’l carro ornato, e bello
Bacco, con viso amabile, e sereno.
Indi ne vien su ’l picciolo asinello
Il vecchio, e non già mai sobrio Sileno,
Che di fumo di vin colmo, ha il cervello,
E di cibo, e di vino il ventre ha pieno,
Et ebro, un paralitico rassembra,
Così tremano à lui l’antiche membra.

D’ intorno à lui varij fanciulli havea,
Quel tenea in man de l’asinello il laccio,
Quell’ altro ne la groppa il percotea,
Posava ei sopra due questo, e quel braccio,
E con plauso d’ogn’un spesso bevea,
E si godea quel fanciullesco impaccio:
E ’l vecchio, e quei fanciulli allegri, e grati,
Di pampini, e di frondi erano ornati.

Mentre và Bacco al bel monte Citero
Con sì bene ordinata compagnia,
Il popolo Thebano, e tutto il Clero
Per incontrarlo à quel monte s’invia.
Hor mentre questi, e quegli il lor sentiero
Drizzano à un segno per diversa via,
Penteo volgendo in quella turba i lumi,
Biasmò quei novi lor riti, e costumi.

Penteo di farsi Imperator credea
Morto, che fosse il vecchio avo materno,
Che figli maschi Cadmo non havea,
E già quasi egli havea preso il governo.
Atteon, che concorrer vi potea,
Già passato era al regno de l’ Inferno,
Havea ben due cugini, et ambedui
Nel regno pretendean non men di lui.

Questi eran figli d’Ino, e d’Atamante,
Ma Penteo nulla, ò poco gli stimava,
Perch’era l’uno, e l’altro anchora infante,
Et egli il popol già tiranneggiava:
Hor quando farsi tante feste, e tante
Vide à quel suo cugin, che ritornava,
Che fu di Giove in Semele concetto,
Prese dentro da se qualche sospetto.

Gli cadde à un tratto ne la fantasia,
Che questo suo cugin quivi venisse
Per aspirare à quella monarchia
Tosto, che ’l vecchio Imperator morisse.
Questo sospetto, e questa gelosia
Nel capo facilmente se gli fisse.
E tanto più, che tutto ’l popol vede,
Che fa sì gran trionfo, e gli ha tal fede.

E di superbia pien, di sdegno, e d’ira
Rivolse al popol trionfante gli occhi,
Ahi, che furor la mente si v’aggira,
Che diate fede à questi giuochi sciocchi?
Che cosa sì fuor del dover vi tira,
Che par, che l’honor vostro non vi tocchi?
Vi pare atto di voi preclaro, e degno,
C’habbia un fanciullo inerme à torci il regno.

può tanto un corno in voi, tanto un percosso
Vaso, che fa sonar ferro, ò metallo,
O ’l suon, che rende un cavo, e lungo bosso,
Che faccia farvi un sì notabil fallo,
Ch’à voi, che più d’un campo esperto, e grosso
Di gente eletta à piede, et à cavallo
Non sbigottì, di donne un gran romore,
Che dal vin nasce, dia tanto terrore.

Ahi, come indegna prole del serpente
Dicato à Marte chiamar vi potete,
Dapoi, che voi cedete à sì vil gente,
Obscena, e molle, come voi vedete.
Hor da voi vecchi Tiri si consente,
Che con tanto sudore, e spesa havete
Dal fondamento fatta questa terra,
Che vi sia presa, e tolta senza guerra?

À voi di più robusta, e verde etade,
Che seguite lo stuol canuto, e bianco,
Meglio staria, che lance, e scudi, e spade
Le man v’ armasser, la persona, e ’l fianco.
Quel pampino su l’hasta indegnitade
Porta al vostro valore, e l’habito anco,
E con più honor la vostra chioma asconde
Un coperchio di ferro, che di fronde.

Vi prego ricordatevi fratelli
Di che chiara progenie siete nati.
Se vi rimembra, voi siete pur quelli
Dal serpente di Marte generati.
Perche i suoi fonti cristallini, e belli
Mondi, et intatti fosser conservati,
Ei morir volle: hor tu popol suo figlio
Vinci per l’honor tuo senza periglio.

Ch’egli hebbe l’inimico acerbo, e forte,
Ma tu, vecchi, fanciulli, e feminelle.
Ei, fuor ch’ad uno, à tutti diè la morte;
Voi, che farete à questa gente imbelle?
Vorrei, che se volesse l’empia sorte,
E le nostre nemiche, e crude stelle,
Che perdessimo il regno, e questo loco,
Ce ’l togliesse la forza, ò l’arme, ò ’l foco.

Ch’almeno il destin nostro iniquo, e fello
Pianger potria ciascun senza rossore,
Ne imputato potrebbe esser d’havello
Perduto ò per viltade, ò per errore.
Hor quì sarà venuto un giovincello,
Un molle, effeminato, e senza core,
Che veste ostro, e profumi in vece d’armi,
E Thebe ci torrà, per quel, che parmi.

Ma farollo ben’ io confessar presto
Chi sia il suo vero padre, e quel ch’ importa
Questa sua cerimonia, col contesto
Di quel ridicolo habito, che porta.
Dunque à un fanciullo infame, e dishonesto
Solo Acrisio saprà chiuder la porta?
Dunque un stranier, seguito da la plebe
Farà Penteo tremar con tutta Thebe?

Et à i suoi servi con furor rivolto
Disse, fate, ch’ io l’habbia hor’ hora in mano.
Ch’io vo far noto al mondo, quanto è stolto
Ogn’un, che crede al suo costume insano.
Il popol, ch’era intorno à lui raccolto,
S’alterò di quel dire empio, e profano,
Perche Tiresia, à cui ciascun credea,
Quei sacri giochi comandati havea.

Vuole Atamante, vuol l’avo prudente
Raffrenar quello orgoglio al suo nipote,
E quel furore, e quella rabbia ardente,
Ne ritenere ò quegli, ò questi il puote.
Ma tanto più s’accende ne la mente,
Quanto più il suo parlar si ripercote.
E più che si contrasta al suo volere,
Più cresce à l’ira sua forza, e potere.

Tal s’uno agricoltor s’oppone, e vieta,
Ch’un torrente nel suo non entri, e vada,
Perche con l’onda sua, poco discreta
Non toglia à lui la seminata biada.
Dove l’onda era pria meno inquieta
S’ ingorga, e per uscir tenta ogni strada,
Porta al fin via la terra, il legno, e ’l sasso,
E tutto quel, che gl’ impedisce il passo.

Tolsersi i servi via da quel furore,
Anchor, che l’obedir mal volontieri,
Però, ch’à tutti havean toccato il core
Quei giochi, che tenean divini, e veri,
Ne conosceano in lor tanto valore,
Ch’ à molti forti, e degni cavalieri,
Potesser contrastar, ch’ogn’un sapea,
Del gran poter, che Bacco intorno havea.

Dapoi, che s’avviar timidi, e lenti,
E che l’un l’altro si guardar nel volto,
E si conobber tutti mal contenti
D’obedir quel signor crudele, e stolto,
Discosto forse un miglio da le genti
Di Thebe ritrovar, che s’era tolto
Da gli altri un, che lo Dio Theban seguia,
Et havea seco quattro in compagnia.

S’accordar tosto, e fu da lor pensato
Prender di questi quel, che par più degno,
E dir come non hanno altro trovato,
E condurlo al Tiranno del lor regno,
Che forse in tanto si sarà placato,
E se pur serva anchor l’ ira, e lo sdegno,
Disfogare il potrà contra costui,
E tutto quel, che vuol saper da lui.

Subito à tal pensier si diede effetto
Ma non senza grandissima contesa,
Che quei vedendo questi ne l’aspetto,
Che mostran di voler far lor offesa;
Tosto deliberar per buon rispetto
Di star arditamente à la difesa,
E si fermaro in atto in su l’aviso,
Che segno fean, c’havrian mostrato il viso.

E ben mostrarlo, e ben con lor pugnaro,
Feriro, fur feriti, e finalmente
A forza il capo lor prender lasciaro
Resister non potendo à tanta gente.
Con quel prigione al lor Signor tornaro,
Ch’à quei lordi di sangue pose mente,
E saper volle con chi havean conteso,
E perche il falso Dio non havean preso.

Trovar mai non l’habbiam potuto nui,
(Disser) ma ben di quei, che tuttavia
Lui seguon, con fatica habbiam costui
Preso, e fe fronte egli, e la compagnia.
Preso l’havrete voi non ben per lui
(Disse ei) s’egli di quei di Bacco fia.
Da che il conobbi (rispose egli allhora)
Esser suo volli, e voglio essere anchora.

Penteo sdegnato più, che fosse mai,
Rivolse gli occhi à lui turbato, et empio,
E disse, ò tu, ch’al fermo à morir hai,
Tu, ch’ al fermo hai da dar agli altri essempio,
Dì il tuo nome, e la patria, e quel che fai,
Di cui nascesti, e perchè vuoi nel Tempio
Porre un mortal fra le divine cose?
Et ei senza timor così rispose.

Mio nome è Acete, e del popol Tirreno
À Meonia mi dier bassi parenti,
Ch’oro non mi lasciar, ne men terreno,
Ne lanigeri greggi, ò grossi armenti.
Quando il mio pover padre venne meno,
Ch’andò à trovar le trapassate genti,
Altro non mi potè del suo lasciare,
Ch’un’ hamo, et una canna da pescare.

C’hebbe del mondo anch’ei sì poca parte,
Che col pescar si sostenea la vita.
Le rendite, c’haveva, eran quell’arte.
E disse quando fe da noi partita,
Altro non posso herede mio lasciarte
Che questo e l’hamo, e la canna m’addita.
Altro da me non s’ ha, ne si possede,
E te ne facciò volentieri herede.

Mi lasciò l’acqua anchor, si ch’io n’havessi
In tutto il tempo de la vita mia
Da bere, e da pescar quant’ io volessi,
À par di qual si voglia huomo, che sia.
L’hamo, e la canna mi mancaro anch’essi,
Ch’ un giorno un fiume me gli portò via.
Tal, che sol l’acqua, perche vive eterna,
Posso chiamare heredità paterna.

Ond’ io, che da vil animo tenea
D’essercitar novo hamo, e nova canna,
Conoscer volli la Capra Amaltea,
Arturo, et la corona d’Arianna,
Quale stella è benigna, e quale è rea,
Qual rasserena il cielo, e qual l’appanna,
De i venti, ove Favonio, ov’ Euro alberga,
Qual sia destro al nocchier, qual il sommerga.

Così l’arte sottil del navigare
Appresi, e corsi io u’ ho tanti perigli
Ch’era meglio per me starmi à pescare,
Con la povera mia, consorte, e figli.
Hor quel, che sì gran Dio fammi adorare,
Onde tanto tu sol ti maravigli,
Un gran miracol’ è, ch’egli fatt’have
Innanzi à gli occhi miei ne la mia Nave.

Havendo una mattina il legno sciolto
Da Smirna per andar insino à Delo,
La sera io veggo un nembo oscuro, e folto,
Che mi nasconde d’ogni intorno il cielo:
À l’ isola di Scio l’animo volto,
Non mi fidando in quello ombroso velo,
E lego il laccio in arena sicura,
Fin ch’ un giorno più lieto m’assicura.

Poi come la fanciulla di Titone
Discopre à noi le sue ghirlande nove,
E sopra i frutti di quella stagione
Per ben nutrirgli la ruggiada piove,
E chiama à gli essercitij le persone,
Altre al remo, altre al rastro, et altre altrove,
Mi levo, e ’l ciel riguardo d’ogni intorno,
Come prometta à noi propitio il giorno.

Vedendo il ciel, che mi fa certo segno,
C’havrem propitio il vento, e chiaro il raggio
D’Apollo, io chiamo i compagni su’l legno
Per voler seguitare il mio viaggio,
Ecco mena un fanciullo illustre, e degno
Ofelte, un de’ compagni, che meco haggio,
E m’accenna con l’occhio, e vuol, ch’io ’l veda,
E che gli approvi così nobil preda.

Mi dice pian, ch’in un campo deserto
Sol ritrovollo, e che ’l vuol menar via.
Come in lui fermo l’occhio, io tengo certo,
Ch’un divin Nume in quel fanciullo sia.
Quanto più ’l miro, più palese, e aperto
M’appar de la celeste monarchia.
E dissi loro, Un divin Nume il credo,
Gli è certo un divin Nume à quel, ch’io vedo.

E volto à lui col viso humile, e chino,
Gli dissi in atto honesto, e riverente,
Porgi favore ò spirto almo, e divino
À la nostra divota, e buona mente,
E fa, ch’ à salvamento il nostro pino
Ci guidi à riveder la nostra gente,
Et à costor perdona, che t’han preso,
Se non ti conoscendo, t’hanno offeso.

Prega Acete, per te quanto tu vuoi,
Mi disse un, ch’era Ditti nominato,
Ne ti curar di pregar più per noi,
Che già quel, che vogliamo, habbiam pensato.
Di questo huom’ non fu mai, ne sarà poi
Più destro, più veloce, e più lodato
Nel gir sopra l’antenna in sù la cima,
Ó calar per la corda, ov’era prima.

Questo Libi approvò, questo Melanto,
Il medesmo conferma Alcimedonte.
E da me in fuora, il resto tutto quanto
Hà il pensier volto à le bellezze conte.
Gli prese in modo quel bel viso santo,
Gli occhi lucenti, e la benigna fronte,
Gli accese tanto quel divin splendore,
Ch’arser di lui di dishonesto amore.

Io, cui cosa parea profana, et empia,
Dissi, non soffrirò, che in questa Nave,
Dov’ ho la maggior parte, mai s’adempia
Questo cieco desio, che presi v’have.
Et ecco mi percote in questa tempia
Un pugno, di cui mai non fu il più grave,
Mentre m’oppongo, e cerco con mio danno
D’ involar quel fanciullo al loro inganno.

Colui, ch’alzò ver me l’audace palma
Havea prima in Etruria alzato il braccio
Contra un col ferro, e gli havea tolta l’alma,
E n’era stato condennato al laccio;
Ma non pendè la sua terrena salma
Per gravar i miei guai d’un’ altro impaccio,
Fuggì da birri à me sopra il mio legno,
Et io ’l condussi meco al Lidio regno.

Quell’empia turba tutta in un concorre
C’hebbe il Toscan ragione, e che fe bene,
Ch’ io vo sopra di me quel peso torre,
Ch’ à patto alcuno à me non si conviene.
In quel romor par, che si senta sciorre
Dal sonno il bel garzon, ch’oppresso il tiene,
Che fin’ allhora addormentato, e lento
S’era mostro stordito, e sonnolento.

E con piacevol viso à noi rivolto,
Che romor (disse) è questo, che voi fate?
Chi m’ ha dal luogo, ov’ io mi stava, tolto ?
Chi qui condotto? à che camino andate ?
Non dubitar con simulato volto
Gli disser quelle genti scelerate,
Dì pur dove vuoi gir, prendi conforto,
Che per gradirti prenderem quel porto.

A l’isola di Nasso andar vorrei
Disse egli, ove è la patria, e ’l regno mio.
Giuran quei traditor per tutti i Dei,
Che daran tosto effetto al suo desio.
Sapendo i lor pensier malvagi, e rei,
Di no ’l voler soffrir penso allhor’ io,
Ma di quel pugno intanto mi ricordo,
E fa, che resti anch’ io con lor d’accordo.

Io già per gire à Nasso havea voltato
À quel camin la scelerata proda,
E con vento men già soave, e grato;
Ma Ofelte intento à la biasmevol froda,
Mi dice, ch’ io mi volga à l’altro lato,
Non sì forte però, che’l garzon l’oda.
Bisbiglia altri à l’orecchia, altri m’accenna,
Ch’ io volga altrove la bugiarda antenna.

Io, che veggo l’infame intentione,
Ch’ ingombra lor la vitiosa mente,
E tutti haver l’ istessa opinione
Verso il fanciullo credulo, e innocente,
Mi lievo da la guardia del timone
Contra il voler di tutta l’altra gente.
Non piaccia à Dio, diss’io, ma ’l dissi piano,
Ch’à sì nefando vitio io tenga mano.

Ogn’un mi biasma, e dice villania,
Fra me pian pian me ne lamento, e doglio.
Verso il timone allhor Libi s’ invia,
E dice à gli altri, io questa cura toglio.
Par ben, che senza lui sforzato sia
Questo legno à ferir’ in qualche scoglio,
Par ben, che vaglia ei sol per tutti nui,
S’ogni speranza habbiam fondata in lui.

Così sopra di se prese la cura
Di condurre il navilio in quella parte,
Dove pensavan di goder sicura
La nobil preda, e Nasso andò da parte.
Finge il fanciullo allhor d’haver paura,
Piangendo con bel modo, e con grand’arte,
Guardò per tutto il mare, et in lor fisse
Le rugiadose luci, e così disse.

Ó naviganti, dove andate adesso ?
Dove volete voi condurre il legno ?
Non è questo il camino à me promesso,
Non è questa la via, che và al mio regno.
C’ honor vi fia, s’un timido, e dimesso
Fanciullo senza forza, e senza ingegno
Voi giovani ingannate? che s’un solo
Vincete, essendo voi sì grosso stuolo?

Questo dicea con così caldo affetto
Bacco (che Bacco era il predato Dio)
C’havria mosso à pietà Megera, e Aletto,
E il Re di Stige, e de l’eterno oblio.
E à me fe in modo intenerire il petto,
Che fui sforzato à lagrimare anch’ io.
Ride la turba iniqua, empia, e perversa
Del pianto, che ’l mio viso stilla, e versa.

Il nostro legno havea contrario il vento
Per voler gire al destinato loco,
E senza vela con grand’ira, e stento.
Co i remi andava via per qualche poco.
Hor per quel sommo Dio fo giuramento,
Che dal ciel lancia il formidabil foco,
Di voler dirti d’una cosa il vero,
Ch’eccede il creder d’ogni human pensiero.

Eccede il creder sì del basso mondo,
Ch’ à raccontarlo la mia lingua pave.
In mezzo al mar più alto, e più profondo,
Non altramente si fermò la nave,
Che se toccasse col suo fondo il fondo
Del mare, e fosse ben di merci grave,
Fan co i remi per moverla ogni prova
Quei marinari esperti, e nulla giova.

Non lor giovando i remi, i naviganti
Alzan la vela, indi si snoda, e tira.
Pongon l’antenna à squadra poi dinanti
À quella parte, donde il vento spira;
Ma non movon Sirocchi, ne Levanti,
Se ben l’antenna à lor si volta, e gira,
Quel legno, ma sta saldo al loro orgoglio,
Come farebbe in mezzo al mar un scoglio.

Par, ch’al fondo del mar congiunto stia
Quell’immobil navilio con un chiodo.
L’hedera sacra al gran signor di Dia
Serpì (come volle ei) quel legno in modo,
Che tutti i remi in un legati havia
Con un tenace, e indissolubil nodo,
L’arbor, l’antenna, indi la vela asconde
L’herba, e l’orna di corimbi, e fronde.

Tutto il legno afferrar l’hedere intorno,
Come à l’offeso Dio di Thebe piacque,
E di pampino, e d’uva il capo adorno,
Che non so come in quel navilio nacque.
Fa con un’hasta à tutti oltraggio, e scorno,
E ne sforza à saltar molti ne l’acque:
C’havea d’ intorno à lui diverse fere
Orsi, Tigri, Leon, Pardi, e Pantere.

Medone il primo fù, che cominciasse
À perder il suo primo aspetto vero,
E che la spina, e gli homeri incurvasse,
E che solcasse il mar veloce, e nero.
Ditti, perch’un Leon nol divorasse,
Per una corda andò presto, e leggiero,
Fin che giunse à l’antenna in sù la cima,
Ma non vi potè star come fea prima.

Ch’à pena in cima de l’ antenna giunge,
Che si vede nel corpo entrar le braccia,
E l’una gamba à l’altra si congiunge,
E cade al fin nel mar con nova faccia.
Mirò intanto il Toscan, che non m’è lunge,
E quella man nel corpo se gli caccia,
Che mi percosse, e v’entra insino à l’ugna,
E sicuro mi fa da le sue pugna.

Dal banco, dove Ofelte al remo siede,
Pensa levarsi per saltar ne l’onda,
E quando vuole alzare il destro piede
Per porlo sopra l’infrondata sponda,
Unito, e giunto al piè sinistro il vede,
Gli manca un piè, ne sa dove s’asconda,
Coda esser vede la sua parte estrema
À guisa d’una Luna quando è scema.

Libi volendo dir, che gli era appresso,
Chi t’ha tolto il tuo piè? dove s’asconde?
Vede aguzzar de la sua bocca il fesso,
E sente, che’l parlar non gli risponde,
S’ascolta, et ode un suon muto, e dimesso,
Che la pronuncia ogn’ hor più gli confonde,
Il naso poi (mentre ei doler si vole)
Cresce, e la bocca asconde, e le parole.

Gridar volendo anchora Alcimedonte,
Oime, voi vi cangiate, ò strano caso,
Sente di dura squama armar la fronte,
E ’l suo parlar coprir da novo naso.
Ma, che bisogna più, ch’ io vi racconte ?
Di venti io solo Acete, era huom rimaso,
E temeva anchor’ io, che ’l mio destino
Non mi facesse diventar Delfino.

Dapoi, che tutti trasformati foro,
E fur per tutto il mar divisi, e sparsi,
Io temendo, e l’andar mirando, e loro,
Hor sorger gli vedeva, et hor tuffarsi,
E mi faceano intorno al legno un choro,
Ne sapean dal secco albero scostarsi,
E lascivi vedeansi diportare,
E ’l lor naso innaffiar col mare il mare.

E per quel, che da molti ho poi sentito,
Incontran lieti hor questo, hor quel naviglio,
E se veggono un legno in mar sdruscito
Cercan gli huomini trar fuor di periglio,
E su ’l lor dorso quei portano al lito:
Ma d’una cosa più mi maraviglio,
Ch’amano anchor, se veggono un fanciullo,
Goder del fanciullesco lor trastullo.

Stupido io stavo, timido, e tremante,
Colmo di maraviglia, e di paura,
Quando quel Dio mi si fe allegro avante,
E disse, non temer, ma prendi cura,
Ch’ io possa sopra Dia fermar le piante,
E così à pena alquanto m’assicura,
Snodo le vele senza hedera al vento,
E guido Bacco à Dia lieto, e contento.

E s’haveste signor veduto voi
Ogni huomo in quel navilio trasformato,
Ch’ io seguitassi i sacri riti suoi,
Non vi sareste sì maravigliato
Volea contar’ anchor come, dapoi
L’havea per tutto, e sempre seguitato,
E quel, che in ogni parte gl’ intervenne,
Fin che con Bacco à Thebe se ne venne:

Ma Penteo, havendo anchor ferma credenza,
Che torgli il regno il suo cugino agogni,
Disse, habbiam dato troppo grata udienza
À queste nove sue favole, e sogni.
Pensando forse in me trovar clemenza,
M’ha detto i suoi travagli, e i suoi bisogni,
Pensò tardando in me l’ira placare
Col novellar del suo finto parlare,

Prendetel tosto, e co i maggior tormenti,
Che dar sapete, fatelo morire.
E fu subito preso, e da i sergenti
Posto in prigion da non poterne uscire.
Hor mentre stecchi, e dadi, e fochi ardenti
Preparano i ministri al suo martire,
Da se si ruppe una catena forte,
Ond’ era avinto, e se gli aprir le porte.

Penteo s’ostina di volerlo morto,
Ne vuol, che sian da se le porte aperte,
Ma ben che i servi gli habbian fatto torto,
Tenendo quelle pompe sante, e certe,
Tal che più non volendo essere scorto,
À girvi egli in persona si converte,
Ne più vi manda i servi come prima,
Dapoi, che d’un fanciul fan tanta stima.

Già queste genti essendo giunte, e quelle,
Faceano un’armonia discorde, e varia
D’instrumenti, di gridi, e di favelle,
Che rendean sordo l’huom, la terra, e l’aria.
E più le furiose damigelle
Con una libertà non ordinaria
Stridean cantando per tutto il camino
Versi, in honor de l’ inventor del vino.

Sì come freme un feroce cavallo
À l’uso de la guerra esperto, e buono,
Quando il trombetta al suo cavo metallo
Lo spirto avviva, e fa sentire il suono,
Che sbuffa, e corre al bellicoso ballo,
Dove le squadre à lui nemiche sono:
Tal Penteo corse contra le Baccanti
Al suon di quei discordi urlari, e canti.

Ha il Citeron di selve un prato cinto
Senza arbori nativi, e senza piante,
D’herbe, e di varij fior tutto dipinto;
Dove si fan le cerimonie sante.
Verso quel prato, da grand’ira vinto
Penteo drizzò le temerarie piante,
E à pena v’entra, che la madre il vede
Nel prato por lo sfortunato piede.

Contra quei riti sacri andando l’empio,
Era stato da tutti abbandonato,
L’acciecò il ciel per darne agli altri essempio,
E fe, che v’andò solo, e disarmato.
La madre, ch’era per entrar nel tempio,
Tosto, che ’l vede comparir nel prato,
Prima di tutte l’altre insana, e stolta
Le spalle al tempio, à lui la faccia volta.

E sì come di lui volean le stelle,
Come havea detto già Tiresia il saggio,
Disse la madre à l’altre due sorelle,
Volgete gli occhi à quel porco selvaggio,
Ch’à turbar vien le feste sacre, e belle,
Andiam tutte d’un core à fargli oltraggio,
Tanto, che contra lui le donne unirsi
Con mille spade ignude, e mille thirsi.

Egli, che contra altier venir si vede
Quel donnesco ebro, e furioso stuolo,
Per fuggir volta l’avvilito piede,
Perche si trova disarmato, e solo.
Poi si volge à pregar, perche non crede
Ch’empia la madre sia contra il figliuolo,
Ne men, che le due zie, di cui si fida,
Possan soffrir già mai, ch’altri l’uccida.

Non più quelle orgogliose aspre parole
Usa con le parenti empie, e superbe,
Ma confessa il suo errore, e se ne dole
Con quelle più, che mai fiere, et acerbe;
E con quell’humiltà, ch’usar non suole,
Mostra, che ’l sangue suo già tinge l’herbe,
E le prega che traggan di periglio
Il nipote, le zie, la madre, il figlio.

Et à la madre d’Atteon ricorda
Quel, ch’ al suo figlio incognito intervenne,
Ma quella à i prieghi suoi spietata, e sorda
À ferir lui poco cortese venne.
Ino l’altra sua zia con lei s’accorda,
E l’una, e l’altra tal maniera tenne,
Ch’una tagliò al nipote empio, e profano
La destra, e l’altra la sinistra mano.

E volendo abbracciar la madre irata,
Che più de l’altre stride, e gli minaccia,
L’una, e l’altra sua man trova troncata,
Ne la ponno annodar le monche braccia.
Deh dolce madre dolcemente guata,
(Disse) e pietosa à me volgi la faccia.
Un gran grido ella die, poi che mirollo,
E di sua propria man troncogli il collo.

E più di venen piena assai, ch’ un’ angue,
Prendendo in man la sanguinosa testa,
E macchiando se stessa del suo sangue,
Per l’aria la gittò veloce, e presta.
Prendete (disse à l’altre) il corpo essangue,
Smembrate voi la parte, che ci resta,
Diamo anco al corpo morto il suo supplicio,
Poi satisfatte andremo al sacro officio.

Ecco in un tratto quel corpo smembrarsi
Come la madre in molte parti chiede.
I membri van per l’aria à volo sparsi,
Qual si gitta à l’ insù, qual cade, e riede.
Così le foglie allhor veggon volarsi,
Che ’l crudele aquilon gli arbori fiede,
Quando il Sol lo Scorpion cavalca, e doma,
E toglie à lor la non più verde chioma.

Ahi crudel madre, ahi quando mai s’udio
Lo stratio, e ’l mal, che del tuo figlio fai?
Tu sai pur, ch’egli del tuo ventre uscio,
Tu quella sei, che generato l’ hai.
S’à l’altre un figlio muor, sia buono, ò rio,
Non posson rasciugar gli humidi rai;
Tu di tua man l’hai morto, e non sei satia,
Se non si smembra anchor, lacera, e stratia.

Se noi cercando andremo in tutti i tempi,
In ogni legge, in ogni regione,
Troverem mille, e mille crudi essempi
Contra chi scherne la religione.
E non sol contra lor sdegnati, et empi
Han mosso i cor de le strane persone,
Ma i cor di quelle han contra loro accesi,
Che gli han portati in corpo nove mesi.

Hor tutti gli altri cauti, et ammoniti
Da l’aspra morte del profano, et empio
Seguendo i sacri, e non usati riti,
Quel Dio tolgono al carro, e ’l danno al tempio,
E gli huomini più degni, e riveriti,
I primi fur per dare à gli altri essempio,
Che l’adoraro in quei seggi eminenti,
Dove l’havean locato i suoi serventi.

E gli altri anchor servando il grado loro
Come commanda il sacerdote santo,
Con pompa, cerimonia, e con decoro
Ne l’adorar quel Dio fanno altrettanto.
Danno al Divino altare, e al nobil choro
Mirra, et incenso, con gran plauso, e canto,
E celebran l’officio santo, e pio
Al lor Theban riconosciuto Dio.

Poi ch’al divin officio il fin fu posto,
E fatto à Bacco ogni opportuno honore,
Come dal sacerdote lor fu imposto,
Tornar le donne al solito romore,
Et in honor de l’ inventor del mosto
Mostrano il muliebre lor furore,
E da loro ogni nome gli fu detto,
Ch’à lui si dà per più d’un degno effetto.

Altri l’appella Bromio, altri Lieo,
Questa Bimatre il chiama, e quella Bacco,
Chi Niseo, chi Nittelio, e chi Tioneo,
Altri Eleleo, altri Evante, et altri Iacco.
Lo nomano anchor Libero, e Leneo,
E paion tutte uscite di Baldacco,
Tanto si mostra in quella allegra festa
Sfacciata ciascheduna, e dishonesta.

Di Libero ogni fatto eccelso, e degno,
Che facesse già mai cantar si sente,
Com’egli con la forza, e con l’ ingegno
Ha soggiogato tutto l’Oriente,
E come al Re di Tracia ingiusto, e indegno
Licurgo bipennifero, e insolente,
Ch’osò tagliar le viti, fece, ch’ambe
Tagliò à se stesso l’ infelici gambe.

Che gioventù perpetua à lui mantiene
Di vergine un giocondo, e grato viso,
Il qual come prometta ò ’l male ò ’l bene,
Hor ne dà con le corna, hor senza, aviso.
E ciò, che lor ne l’ebre menti viene,
Cantan con plauso, e con tumulto, e riso:
E innanzi al cibo, e dopo, e nel ritorno,
Non si fece altro mai tutto quel giorno.